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Aprendo i lavori della 68a Assemblea Generale della Conferenza Episcopale Italiana il 18 maggio scorso, Papa Francesco ha chiesto ai vescovi di essere non «piloti», ma veri «pastori»[1]. Più volte il Pontefice ha fatto appello ad essere «vescovi pastori, non prìncipi», usando immagini che erano già sue sin da quando reggeva la sua precedente diocesi.
Nel 2006, predicando gli Esercizi spirituali ai vescovi spagnoli, nella meditazione introduttiva sul Magnificat, egli parlava del «sentirci collaboratori, ma non padroni, umili servitori come nostra Signora, non prìncipi». E concludeva gli Esercizi dicendo — nella meditazione su «Il Signore che ci riforma» — che «la gente desidera un pastore e non un raffinato che si perde nei preziosismi che vanno di moda»[2].
Questa opzione pastorale non appartiene esclusivamente ai vescovi, ma riguarda ogni «discepolo missionario», ciascuno nel suo stato e nella sua condizione. Nell’Esortazione Evangelii gaudium (EG) il Papa afferma: «Resta chiaro che Gesù Cristo non ci vuole come prìncipi che guardano in modo sprezzante, ma come uomini e donne del popolo. Questa non è l’opinione di un papa né un’opzione pastorale tra altre possibili; sono indicazioni della Parola di Dio così chiare, dirette ed evidenti che non hanno bisogno di interpretazioni che toglierebbero ad esse forza interpellante. Viviamole sine glossa, senza commenti»[3].
L’immagine «pastori, non prìncipi», che alcuni media hanno inteso come un rimprovero a vescovi e sacerdoti, se viene letta bene, non rivela alcun disprezzo: è qualcosa di assai più profondo. Rinvia al discernimento di un cambio epocale e, ancor più significativamente, è un invito a far sì che nessun vescovo, nessun sacerdote si lasci rubare la gioia di essere pastore[4]: «In tal modo sperimenteremo la gioia missionaria di condividere la vita con il popolo fedele a Dio, cercando di accendere il fuoco nel cuore del mondo» (EG 271).
Vescovi che vegliano sul loro popolo
C’è un carisma specifico espresso nel nome stesso di «vescovo» — in greco, episkopos — sul quale l’allora cardinale Bergoglio rifletteva nel Sinodo del 2001, dedicato a «Il vescovo: servitore del Vangelo di Gesù Cristo per la speranza del mondo». Quel carisma, che è anche una missione propria del vescovo, consiste nel «vegliare».
Vale la pena di trascrivere il testo per intero: «Il vescovo è colui che veglia; cura la speranza vegliando per il suo popolo (1 Pt 5,2). Un atteggiamento spirituale è quello che pone l’accento sul sorvegliare il gregge con uno “sguardo d’insieme”; è il vescovo che cura tutto ciò che mantiene la coesione del gregge. Un altro atteggiamento spirituale pone l’accento sul vigilare stando attenti ai pericoli. Entrambi gli atteggiamenti hanno a che fare con l’essenza della missione episcopale e acquisiscono tutta la loro forza dall’atteggiamento che considero più essenziale, e che consiste nel vegliare.
«Una delle immagini più forti di questo atteggiamento è quella dell’Esodo, in cui ci viene detto che Yahvè vegliò sul suo popolo nella notte di Pasqua, chiamata per questo “notte di veglia” (Es 12,42). Quel che desidero sottolineare è questa peculiare profondità del vegliare rispetto a un sorvegliare in modo più generale o rispetto a una vigilanza più puntuale. Sorvegliare fa riferimento più alla cura della dottrina e dei costumi, mentre vegliare allude piuttosto al curare che vi sia sale e luce nei cuori. Vigilare parla dello stare all’erta dinanzi al pericolo imminente, vegliare invece parla di sostenere con pazienza i processi attraverso i quali il Signore porta avanti la salvezza del suo popolo. Per vigilare è sufficiente essere svegli, astuti, rapidi. Per vegliare occorre avere in più la mansuetudine, la pazienza e la costanza della carità comprovata. Sorvegliare e vigilare ci parlano di un certo controllo necessario. Invece vegliare ci parla di speranza, la speranza del Padre misericordioso che veglia sul processo dei cuori dei suoi figli. Il vegliare manifesta e consolida la parresia del vescovo, che mostra la Speranza “senza snaturare la Croce di Cristo”.
«Insieme all’immagine di Yahvè che veglia sul grande esodo del Popolo dell’alleanza, vi è un’altra immagine, più familiare, ma ugualmente forte: quella di san Giuseppe. È lui che veglia fino in sogno sul Bambino e sua Madre. Da questo vegliare profondo di Giuseppe nasce quel silenzioso sguardo d’insieme capace di curare il suo piccolo gregge con poveri mezzi; e germoglia anche lo sguardo vigile e astuto che riuscì a evitare tutti i pericoli che minacciavano il Bambino»[5]. Il san Giuseppe dormiente, al quale Papa Francesco affida i suoi «foglietti» affinché «li sogni», è l’immagine del vescovo, del pastore che veglia sul suo popolo.
Vescovi che si abbassano e includono
Verso il basso e verso tutti. Con due semplici movimenti da pastore e non da principe, Francesco, appena eletto Papa, si è collocato nella grande tradizione della Chiesa e del Vaticano II, e ha generato un nuovo dinamismo spirituale nel Popolo fedele di Dio.
Il Concilio ci dice che così come Cristo «spogliò se stesso» e venne inviato «ad annunciare ai poveri un lieto messaggio», anche la Chiesa è chiamata a seguire la stessa via, e per questo «abbraccia con amore quanti sono afflitti dall’umana debolezza, anzi riconosce nei poveri e nei sofferenti l’immagine del suo Fondatore povero e sofferente» (Lumen gentium [LG], n. 8).
Quando Papa Francesco ha chinato la testa per ricevere la benedizione del suo popolo, e ogni volta che sale sulla papamobile e gira la piazza in tutta la sua ampiezza, o quando sceglie i luoghi di frontiera come meta delle sue visite, i suoi movimenti ci fanno sperimentare, e non soltanto vedere, un’immagine di come un vescovo possa essere in mezzo al suo popolo. Un’immagine che non cerca di «rimpiazzare» gli altri vescovi o papi, ma che chiede di essere guardata e accolta con l’atteggiamento di «amicizia e vicinanza» di chi sa scoprire «l’armonia dello Spirito nella diversità dei carismi», come lo stesso Francesco chiese ai «suoi presbiteri» — i cardinali — due giorni dopo la sua elezione[6].
Oltre che i suoi gesti, anche la sua dottrina esprime un abbassarsi e un includere che stanno agli antipodi della mondanità spirituale. Queste cose non sono sue «uscite originali», ma è ciò che il Concilio chiedeva con semplicità: «Così anche la Chiesa, quantunque abbia bisogno di mezzi umani per compiere la sua missione, non è fatta per cercare la gloria terrena, bensì per far conoscere anche con il suo esempio l’umiltà e l’abnegazione» (LG 8).
E sebbene sia vero che l’opinione pubblica e i media emettono un giudizio severo quando vedono atteggiamenti da principe in qualche prelato, è anche vero che c’è una grande simpatia verso qualsiasi pastore — sacerdote o vescovo — che si abbassa e abbraccia tutti. Il popolo di Dio sente che è Cristo a pascere nei suoi pastori. Lo diceva già sant’Agostino: «Lungi da noi il pensiero che adesso manchino i buoni pastori! Dio non voglia che ne rimaniamo privi! Lungi da noi il pensiero che la misericordia divina abbia smesso di generarli e di investirli della loro missione! In realtà, se ci sono buone pecore, debbono esserci anche buoni pastori: i buoni pastori infatti nascono in mezzo a buone pecore. Tuttavia i buoni pastori sono tutti nell’unità, sono una cosa sola. In essi che pascolano, è Cristo che pascola. Non fanno risuonare la loro voce, gli amici dello sposo, ma si rallegrano quando odono la voce dello sposo»[7].
Nel concludere il suo Discorso alla Congregazione per i vescovi, nel 2014, Papa Francesco domandava: «Dove possiamo trovare tali uomini [vescovi kerigmatici, oranti e pastori]? Non è facile. Ci sono? Come selezionarli? […] Sono certo che essi ci sono, perché il Signore non abbandona la sua Chiesa. Forse siamo noi che non giriamo abbastanza per i campi a cercarli. Forse ci serve l’avvertenza di Samuele: “Non ci metteremo a tavola prima che egli sia venuto qui” (cfr 1 Sam 16,11). È di questa santa inquietudine che vorrei vivesse questa Congregazione»[8].
Vescovi centrati sull’essenziale
Quali devono essere le caratteristiche del vescovo che il Papa propone come colui del quale il Signore oggi si serve per santificare, istruire e pascolare il suo popolo? Francesco le ha ricordate ai vescovi della Conferenza episcopale italiana (Cei). La spiritualità del vescovo è ritorno all’essenziale, alla relazione personale con Gesù Cristo, il quale ci dice: «Seguimi», e ci fa «pastori di una Chiesa che è, innanzitutto, comunità del Risorto»[9]. Il Papa lo aveva detto anche qualche mese prima, nella riunione della Congregazione per i vescovi: «C’è bisogno di selezionare tra i seguaci di Gesù i testimoni del Risorto. Da qui deriva il criterio essenziale per tratteggiare il volto dei vescovi che vogliamo avere»[10].
Ecco dunque le due caratteristiche del «vescovo testimone» additate dal Papa: una è che «sa rendere attuale tutto quanto è accaduto a Gesù»; l’altra è che «non [è] un testimone isolato, ma insieme con la Chiesa»[11]. E all’Assemblea della Cei il Papa aveva messo in risalto proprio l’«appartenenza ecclesiale» di «pastori di una Chiesa che è il Corpo del Signore»[12].
Per capire meglio queste caratteristiche, fissiamo lo sguardo su Francesco. Non perché tutti i vescovi debbano assomigliare al Papa nel «suo stile». Al contrario, egli favorisce la diversità di carismi: «Non esiste un Pastore standard per tutte le Chiese. Cristo conosce la singolarità del Pastore che ogni Chiesa richiede perché risponda ai suoi bisogni e la aiuti a realizzare le sue potenzialità. La nostra sfida è entrare nella prospettiva di Cristo, tenendo conto di questa singolarità delle Chiese particolari»[13]. Rendere attuale il Cristo risorto richiede che ciascuno si collochi nella sua attualità unica e intrasferibile e, restando se stesso, sia fedele all’essenziale, armonizzando la sua testimonianza vitale con quella degli altri testimoni.
Per parlare dell’essenziale, può essere importante considerare, a due anni di distanza, le prime volte in cui Francesco ha parlato del «vescovo». Nella sua prima Benedizione Urbi et Orbi egli ha menzionato quattro volte «il vescovo»: riferendosi al conclave, ha detto che il dovere del conclave era di «dare un vescovo a Roma»; ringraziando la «comunità diocesana di Roma» per l’accoglienza, le ha detto che «ha il suo vescovo»; ha chiesto di «fare una preghiera per il nostro vescovo emerito, Benedetto XVI»; ha delineato la propria missione in termini di cammino: «E adesso, incominciamo questo cammino: vescovo e popolo», e ha sollecitato «la preghiera del popolo, chiedendo la benedizione per il suo vescovo»[14].
Il Papa ha menzionato ancora la figura del vescovo nell’omelia della Messa con i cardinali, in cui ha descritto tutti i pastori come «discepoli di Cristo crocifisso»: «Quando camminiamo senza la Croce, quando edifichiamo senza la Croce e quando confessiamo un Cristo senza Croce, non siamo discepoli del Signore: siamo mondani, siamo vescovi, preti, cardinali, papi, ma non discepoli del Signore»[15]. Come dice la Lumen gentium: «La Chiesa “prosegue il suo pellegrinaggio fra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio”, annunciando la passione e la morte del Signore finché egli venga (cfr 1 Cor 11,26)» (LG 8; cfr LG 3; 5; 42).
È stato altrettanto significativo il modo in cui, nell’udienza ai cardinali, Papa Francesco ha descritto la figura di Benedetto XVI: «Il ministero petrino, vissuto con totale dedizione, ha avuto in lui un interprete sapiente e umile, con lo sguardo sempre fisso a Cristo, Cristo risorto, presente e vivo nell’Eucaristia»[16].
Abbassarsi, includere e centrarsi: tre movimenti attorno al Signore crocifisso e risorto, con i quali il Papa invita i vescovi a delineare la loro figura e a riconoscersi in quanto pastori del Popolo di Dio.
Un vescovo del Vaticano II: unti per ungere
Nella sua prima Messa crismale da vescovo di Roma, Francesco ha considerato i pastori nella tensione fondamentale che li costituisce: unti per ungere il popolo fedele di Dio che servono. Dice infatti il Concilio: «Questo compito che il Signore ha affidato ai pastori del suo popolo è un vero servizio, che nella Sacra Scrittura è chiamato significativamente “diaconia”, cioè ministero» (LG 24). «Il buon sacerdote si riconosce da come viene unto il suo popolo; questa è una prova chiara»[17]. In questo essere «per» il popolo si concentra tutto lo spirito di un Concilio Vaticano II di cui il Papa non dice che «lo si dovrebbe vivere», ma che egli «lo sta vivendo» insieme a tutti i vescovi, i sacerdoti e i laici, che si rallegrano, come discepoli missionari, nell’uscire in missione con lui[18].
Nelle frasi semplici dei primi discorsi di Papa Francesco palpita il carattere relazionale e dinamico dell’unzione. Vescovo e popolo fanno un cammino insieme, in cui «la totalità dei fedeli che hanno l’unzione ricevuta dal Santo (cfr 1 Gv 2,20.27) non può sbagliarsi nel credere, e manifesta questa sua particolare proprietà mediante il soprannaturale senso della fede di tutto il Popolo, quando “dai Vescovi fino agli ultimi fedeli laici” esprime il suo consenso universale in materia di fede e di morale» (LG 12).
Il cammino fatto insieme è «sinodo», e in quelle parole alita lo spirito sinodale del Vaticano II: «Fin dai primi secoli della Chiesa, i Vescovi […] unirono le loro forze e i loro intenti per promuovere il bene sia comune sia delle singole Chiese. A questo scopo furono istituiti sia i Sinodi […] sia infine i Concili plenari […]. Questo Sacro Concilio Ecumenico desidera che le venerande istituzioni dei Sinodi e dei Concili riprendano nuovo vigore» (CD 36).
E per quanto riguarda la sintonia di Papa Francesco con Papa Benedetto XVI, eccone un esempio nelle parole che Benedetto rivolse ai vescovi argentini, nel 2009, quando parlò dell’«olio sacro dell’unzione sacerdotale», che fa stare il pastore come Cristo «in mezzo al Popolo». In quella circostanza, Papa Benedetto ricordò ai vescovi e ai sacerdoti che ciascuno di loro deve «comportarsi sempre fra i suoi fedeli come chi serve (cfr LG 27)», senza cercare onori, avendo cura del «Popolo di Dio» con «tenerezza e misericordia»[19]. Quella stessa figura del vescovo che Papa Benedetto ha presentato ai vescovi argentini, Papa Francesco la sta proponendo a tutti i vescovi, perché la vivano in pienezza in questo momento della storia.
La figura pastorale del vescovo
È possibile concentrare la figura del vescovo secondo Papa Francesco in un’immagine pienamente pastorale, quella del «pastore con l’odore delle pecore». Ma non dobbiamo prenderla come una qualsiasi espressione originale, bensì come un’immagine capace di unificare in sé le altre figure che il Papa ci va proponendo. La figura del pastore con l’odore delle pecore e con il sorriso di padre[20] attira e conduce molte altre figure a fare costellazione, come se fosse una grande «stella-pastore».
In che senso questa prospettiva pastorale è la chiave della figura del vescovo? Diceva Bergoglio nel 2009: «Nel linguaggio del Concilio e di Aparecida, “pastorale” non si oppone a “dottrinale”, ma lo include. Quella pastorale non è nemmeno una mera “applicazione pratica contingente della teologia”. Al contrario, la Rivelazione stessa — e del resto tutta la teologia — è pastorale, nel senso che è Parola di salvezza, parola di Dio per la vita del mondo. Come dice Crispino Valenziano: “Non si tratta di adeguare una pastorale alla dottrina, ma si tratta di non strappare alla dottrina il sigillo pastorale originario e costitutivo. Il ‘percorso antropologico’ che in teologia va seguìto senza dubbi o perplessità è quello che procede parallelo alla dottrina ‘pastorale’: noi uomini riceviamo la rivelazione e la salvezza percependo la conoscenza che Dio ha della nostra natura e la sua condiscendenza di Pastore verso ciascuna delle sue pecorelle”[21]».
Prosegue Bergoglio: «Questa concezione integrata di dottrina e pastorale (che ha portato a chiamare “Costituzione” — documento in cui si dà una dottrina permanente — non soltanto quella dogmatica, Lumen gentium, ma anche quella pastorale, Gaudium et spes) si riflette molto chiaramente nel Decreto sulla formazione sacerdotale. Il Decreto insiste sull’importanza di formare pastori di anime, pastori che, uniti all’unico Pastore Buono e Bello (bello in quanto conduce attraendo, non imponendo), “pascolino le sue pecore” (cfr Gv 21,15-17)»[22]. Infatti, «l’immagine del Buon Pastore è l’analogatum princeps di tutta la formazione. Quando parlano del fine pastorale come fine ultimo, sia il Concilio Vaticano II sia Aparecida intendono “pastorale” in senso eminente: non in quanto esso si distingue da altri aspetti della formazione, ma in quanto li include tutti. Li include nella carità del Buon Pastore, dato che la carità “è la forma di tutte le virtù”, come dice san Tommaso, seguendo sant’Ambrogio»[23].
Quando Papa Francesco parla della triplice missione della Chiesa e dei vescovi, riprende Benedetto XVI, che ha precisato il triplice munus del pastore con accenti nuovi: «L’intima natura della Chiesa si esprime in un triplice compito: annuncio della Parola di Dio (kerygma-martyria), celebrazione dei Sacramenti (leiturgia), servizio della carità (diakonia). Sono compiti che si presuppongono a vicenda e non possono essere separati l’uno dall’altro»[24]. Notiamo che, quando parla di insegnamento, Benedetto XVI utilizza l’espressione kerygma-martyria, la stessa che Francesco usa quando auspica vescovi kerigmatici e testimoni del Risorto.
Quando parla della missione di guidare, Benedetto la precisa con il termine diakonia, servizio della carità, che anche Francesco mette al primo posto[25]. Questo aspetto di diakonia non è meno essenziale degli altri due compiti. Dice Benedetto: «La carità non è per la Chiesa una specie di attività di assistenza sociale che si potrebbe anche lasciare ad altri, ma appartiene alla sua natura, è espressione irrinunciabile della sua stessa essenza»[26]. Il discernimento di Benedetto XVI nello scrivere le sue Encicliche è consistito nel comprendere che il mondo aveva bisogno che gli si parlasse della carità. E la carità ha «l’odore delle pecore».
Pastori con l’odore delle pecore e sorrisi di padri
Papa Francesco non ha difficoltà a parlare dei «peccati dei pastori» — includendo in essi anche se stesso e la Curia — a un mondo come il nostro in cui è diminuito «il senso del peccato»[27]. Tuttavia, a ben vedere, la sua frase più emblematica sui pastori, quella che ha toccato il cuore di tutti, non è venuta dal versante dell’«etica», che si impone in modo costrittivo, ma da quello dell’«estetica», che attrae irresistibilmente. La sua frase celebre è stata: voglio «pastori con l’odore delle pecore» e «sorrisi di padri», come ha aggiunto nello scorso Giovedì santo. Questa è la figura del vescovo che Francesco ha a cuore. Ed è unica per i sacerdoti, per i cardinali e per il papa stesso. Pastori che non vogliono soltanto vestirsi con la lana delle pecore, ma sono «appassionati» a servirle[28].
Possiamo notare che qui, più che di una figura di vescovo, si tratta di un odore. Un odore che, come ogni odore forte, evoca chiaramente molte immagini; ma l’immagine principale, quella che va «letta sine glossa»[29], quella che va «annusata», senza dubbio è quella dei pastori che pascolano le pecore e non se stessi.
Assieme all’immagine del «pastore con l’odore delle pecore», la parabola del Buon Pastore, tante volte ascoltata ma poco incarnata, si è imposta a noi con la forza di una brezza fresca che ci ha risvegliati dalle fantasticherie delle ideologie e della routine e ci ha rimessi in cammino con ardore evangelico. Il pastore s’impregna dell’odore delle pecore quando è in mezzo al suo popolo. Non è possibile creare questo odore in laboratorio. E non è che il pastore se ne contagi quando sta nei pressi del suo popolo a pascolare: quello è il suo stesso odore di pecora, e gli ricorda che il popolo che pascola è lo stesso da cui è stato chiamato.
«L’odore delle pecore» riunisce i temi bergogliani dell’unzione[30], del vegliare e del custodire, del discernimento, attento ad alimentare il gregge con la sana dottrina e a difenderlo dai nemici, cioè dai lupi che si travestono da pecora, ma non possono nascondere il loro «odore di lupo». Così il senso spirituale dell’olfatto permette al vescovo di scoprire e di respingere la tentazione della mondanità spirituale, con i suoi profumi sofisticati, e gli offre un criterio di discernimento «olfattivo», per mantenere l’appartenenza al gregge da cui è stato tratto e per essere riconosciuto dalle pecore, in modo da non smarrirle.
Vescovi che pregano con il loro popolo
Nel pensiero di Papa Francesco, la preghiera personale e la preghiera liturgica del pastore non sono, come non lo è l’unzione, qualcosa che è destinato a profumare la sua persona, bensì qualcosa che «si sparge e raggiunge le periferie», come l’olio che scende dalla barba di Aronne e si diffonde fino alla frangia della sua veste[31].
Per questo la preghiera del pastore, a cui il Papa si riferisce, è sempre piena di volti; e «la nostra stanchezza» è «come l’incenso che sale silenziosamente al Cielo […], va dritta al cuore del Padre»[32] e, per riprendere l’immagine usata da Francesco nell’ultima Messa crismale, fa sentire come una carezza di Dio ai sacerdoti.
La figura del vescovo che prega può essere delineata guardando innanzitutto a come lui, centrato in Cristo, si prodiga nel servizio del suo popolo[33], per trarne alcune indicazioni di come possa essere la sua apertura a Dio, la sua santità e la sua preghiera personale: «La medesima hypomonē e parresia che [il vescovo] deve avere nell’annuncio della Parola, deve averla nella preghiera»[34].
È questa spiritualità che scaturisce dall’azione pastorale concreta che Giovanni Paolo II raccomandava insistentemente ai pastori nell’Esortazione Pastores dabo vobis[35]. Egli l’aveva già tratteggiata dodici anni prima, in un’omelia su «La spiritualità del presbitero diocesano oggi», in cui ricordava ai sacerdoti «la ragione pastorale del loro essere»: «Un sacerdote [e tanto più un vescovo] che mancasse di un qualsiasi inserimento in una comunità ecclesiale non potrebbe certamente presentarsi come modello valido di vita ministeriale, essendo essa essenzialmente inserita nel contesto concreto dei rapporti interpersonali della comunità medesima»[36].
In Pastores dabo vobis Giovanni Paolo II presenta come figura esemplare il santo vescovo Carlo Borromeo, che amava la spiritualità degli Esercizi spirituali di sant’Ignazio. Gli Esercizi propongono ai pastori di unire contemplazione e azione nel modo in cui lo intendeva san Pietro Favre: «Colui che cerca Dio spiritualmente nelle opere buone, poi lo trova meglio nell’orazione che se si fosse astenuto da quelle»[37]. Alle persone di vita attiva il santo faceva questa raccomandazione: «Sarà più conveniente tutto sommato che tu ordini le tue orazioni verso i tesori delle buone opere che non il contrario»[38]. Vale a dire, si deve guardare a ciò che c’è da fare e alle persone con cui si devono avere relazioni, e si deve pregare chiedendo le grazie necessarie per svolgere i propri compiti come vuole il Signore.
E anche san Carlo Borromeo scriveva: «Niente è così necessario a tutte le persone ecclesiastiche quanto la meditazione, che precede, accompagna e segue tutte le nostre azioni. Canterò, dice il profeta, e mediterò. Se amministri i sacramenti, o fratello, medita ciò che fai. Se celebri la Messa, medita ciò che offri. Se reciti i salmi in coro, medita a chi e di che cosa parli. Se guidi le anime, medita da quale sangue sono state lavate; e “tutto si faccia tra voi nella carità” (1 Cor 16,14)»[39].
Pertanto, la trascendenza di cui parla sempre Papa Francesco è duplice: verso Dio e i suoi santi, nella preghiera; e verso il prossimo, verso il popolo di Dio. Come diceva ai vescovi messicani: «Non dimenticate la preghiera. È il “negoziare” dei vescovi con Dio per il proprio popolo. Non lo dimenticate! E la seconda trascendenza, la vicinanza al proprio popolo»[40].
Quindi l’odore delle pecore non è soltanto l’odore delle pecore terrene, ma anche quello delle pecore che già si trovano nei pascoli celesti: è l’odore gradevole delle pecore sante, che si acquisisce frequentandole familiarmente nella preghiera e nella lettura della loro vita. Nella figura di vescovo che il Papa ha in mente, l’esempio dei santi — e in modo particolare di quelli che sono stati grandi evangelizzatori di popoli — è essenziale. I santi che il Papa sta canonizzando con la cosiddetta «metodologia equipollente» «sono figure che hanno realizzato una forte evangelizzazione e sono in sintonia con la spiritualità e la teologia della Evangelii gaudium. E per questo ho scelto queste figure»[41]. Sono donne e uomini evangelizzatori amati dal loro popolo, che si sono inculturati per inculturare il Vangelo.
Questo desiderio di inculturare il Vangelo esercita un potente influsso sulla preghiera del vescovo evangelizzatore e pastore. Bergoglio è sempre stato un vescovo che pregava i santi insieme al suo popolo, essendo incline, fin da bambino, alla pietà popolare, grazie a sua nonna Rosa, che gli «raccontava le storie dei santi» e lo «accompagnava alle processioni»[42].
L’immagine della trascendenza verso Dio nella preghiera, che il Papa propone ai vescovi, ha molto in comune con il modo di pregare e di adorare Dio proprio del popolo fedele. Il Papa vuole vescovi che preghino con il loro popolo, vescovi la cui preghiera profumi della spiritualità e della mistica popolari.
Vescovi con «odore cristologico»
L’immagine del pastore con l’odore delle pecore è un’immagine emblematica. È una di quelle immagini che, come dice Guardini, sono «primordiali», di grande potenza evocativa[43]. E sebbene sia stata citata e utilizzata fino al punto di trasformarsi in un luogo comune, può dare lo spunto per un’ulteriore, breve riflessione teorica. Si tratta soltanto di un abbozzo, di un invito a entrare nella densità teologica, antropologica e ontologica del linguaggio di Papa Francesco.
In primo luogo, occorre dare il giusto valore alle metafore usate dal Pontefice. Ci sono persone che non comprendono questo linguaggio: a loro sembra rozzo, non adatto a un papa, e persino privo di contenuto teologico. Questo fatto è davvero singolare e dà a pensare: la gente «lo capisce», mentre ci sono letterati che «lo disprezzano». Alcuni pensano che questo atteggiamento di voler toccare il cuore della gente non sia altro che «populismo». È così? Niente affatto. La fede ben illuminata non è soltanto per le persone dotte. C’è un’«illuminazione» che viene dall’unzione dello Spirito, ed è quella che viene data ai piccoli, rendendoli più sapienti dei sapienti della nostra cultura (cfr Mt 11,25-27; 1 Gv 2,26-27).
Le metafore del Papa vanno apprezzate per quello che sono: immagini che, nel mare di parole del mondo odierno, agiscono come il fischio del pastore che le sue pecore conoscono bene e da cui si lasciano guidare. Il linguaggio di Papa Francesco non è soltanto «originale» — il linguaggio di un «latinoamericano» — ma, essendo limpido, è anche vero e fa bene al cuore. E gli si può applicare quello che diceva Aristotele, che cioè riuscire nelle metafore è indice di maggiore intelligenza[44].
Se contempliamo trinitariamente la figura del pastore con l’odore delle pecore e facciamo uso liberamente del gusto che i Padri della Chiesa, come sant’Agostino, provavano nell’attribuire una qualità in maniera più propria a una delle Persone divine, l’odore delle pecore è proprio della Persona di Cristo. È «odore cristologico», odore di incarnazione e di passione, di bende e di sangue; è sudore di chi cammina con i suoi discepoli e si vede attorniato dalle folle; è odore di piedi della lavanda dei piedi, e odore delle bende di un Lazzaro che ormai puzza; è anche profumo femminile, come quello di Maria, che inonda la casa; aroma di gigli del campo e di vento di acque verso cui Gesù comanda a Pietro di remare.
Giovanni Paolo II ha affermato: «La dimensione cristologica del ministero pastorale, considerata in profondità, avvia alla comprensione del fondamento trinitario del ministero stesso. La vita di Cristo è trinitaria. Egli è il Figlio eterno e unigenito del Padre e l’unto di Spirito Santo, mandato nel mondo; è Colui che, insieme con il Padre, invia lo Spirito alla Chiesa. Questa dimensione trinitaria, che si manifesta in tutto il modo di essere e di agire di Cristo, plasma anche l’essere e l’agire del vescovo. A ragione quindi i Padri sinodali hanno esplicitamente voluto illustrare la vita e il ministero del vescovo alla luce dell’ecclesiologia trinitaria contenuta nella dottrina del Concilio Vaticano II»[45].
Questo «odore cristologico» illumina l’antropologia di Papa Francesco e ci fa pensare alla sua scelta di prendere come punto di partenza il bello, prima che il vero e il bene. È un suo discernimento riguardo a ciò di cui hanno bisogno le orecchie delle pecore di oggi, sature di definizioni dogmatiche discusse e di consigli morali inattuabili.
Con il bello, il pulchrum, entra il bene, e poi ciascuno, di cuore, desidera la verità. Questa è la pedagogia del pastore. Se viene pensato in termini filosofici, l’odore delle pecore ha a che vedere con il pulchrum: un pulchrum chiaramente cristologico, in quanto la bellezza e la gloria si manifestano sotto forma contraria, sia pure senza esagerare, dato che per il pastore l’odore delle pecore non è sgradevole.
E se riflettiamo in una prospettiva «politica», tenendo presenti i quattro princìpi di Francesco, potremmo dire che l’immagine olfattiva dell’odore delle pecore corrisponde al principio del tutto che è superiore alle parti; l’odore delle pecore è «odore di unzione», che rinvia alla totalità del popolo fedele di Dio, «santo e infallibile in credendo» (EG 119). Se c’è qualcosa che è tipico di un odore forte, è che punge e provoca o un rifiuto totale, come quando un alimento è deteriorato, o una forte attrazione, come un profumo gradevole.
Questo odore si avverte «nella vicinanza del Pastore»: vicinanza a tutti, ma in modo speciale ai malati, ai più poveri e lontani, agli esclusi e agli emarginati. Ci sono due princìpi che si risolvono soltanto nella vicinanza: quello dell’unità, che è superiore al conflitto (perché è proprio del conflitto prendere le distanze e fronteggiare), e quello della realtà, che è superiore all’idea, perché lo si sperimenta soltanto immergendosi nella realtà, toccando le piaghe, lasciandosi coinvolgere dal prossimo.
Se pensiamo al sudore del Pastore che cammina con le sue pecore, immagine di una Chiesa in uscita che è «paradigma di ogni opera della Chiesa» (EG 15; 17; 20), ci viene in mente il principio che il tempo è superiore allo spazio, perché la strada va tracciata e percorsa senza farsi bloccare dalle contrarietà e senza impossessarsi degli spazi. Come dice l’Evangelii gaudium, «dare priorità al tempo significa occuparsi di iniziare processi più che di possedere spazi» (EG 223).
Uomini di comunione e non «vescovi-pilota»
Il Pontefice non dà lezioni su come debba essere un vescovo: quando parla ai pastori, notiamo che ha un orecchio attento al Vangelo e l’altro al popolo fedele (cfr EG 154). Attraverso le sue parole, le sue pause, i suoi esempi, i suoi sorrisi e i suoi gesti, riusciamo a formarci un’immagine fortemente unitaria di ciò che è un Pastore centrato nell’amore a Gesù e che riunisce il suo popolo: un uomo di comunione.
È stato questo, nel maggio 2014, il nucleo del Discorso ai vescovi italiani. In quell’occasione Francesco ha compiuto un gesto significativo: ha regalato ai vescovi le parole con cui Paolo VI richiedeva, alla stessa Conferenza episcopale italiana, il 14 aprile 1964, «un forte e rinnovato spirito di unità», che provochi una «animazione unitaria nello spirito e nelle opere»[46]. Questa unione è la chiave affinché il mondo creda, affinché si possa essere «Pastori di una Chiesa […] anticipo e promessa del Regno», che esce verso il mondo con «l’eloquenza dei gesti» di «verità e misericordia»[47].
Questa immagine di «uomini di comunione» per dare speranza al mondo è l’ultima che indichiamo come la figura del vescovo che ci viene presentata da colui che oggi è il vescovo di Roma, la Chiesa che «presiede nella carità tutte le Chiese»[48].
Come il Pontefice ha detto ai vescovi italiani il 18 maggio scorso, essere uomini di comunione richiede una speciale «sensibilità ecclesiale». L’unione è opera dello Spirito che agisce grazie a vescovi pastori e non a «vescovi-pilota». Essi rinforzano «l’indispensabile ruolo di laici disposti ad assumersi le responsabilità che a loro competono». La loro sensibilità ecclesiale «si rivela concretamente nella collegialità e nella comunione tra i Vescovi e i loro Sacerdoti; nella comunione tra i Vescovi stessi; tra le Diocesi ricche — materialmente e vocazionalmente — e quelle in difficoltà; tra le periferie e il centro; tra le Conferenze episcopali e i Vescovi con il successore di Pietro»[49].
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[1]. Papa Francesco, Discorso alla 68a Assemblea generale della Conferenza episcopale italiana, 18 maggio 2015.
[2]. Papa Francesco/J. M. Bergoglio, In Lui solo la speranza. Esercizi spirituali ai vescovi spagnoli (15-22 gennaio 2006), Milano, Jaca Book, 2013, 14; 82.
[3]. Papa Francesco, Esortazione apostolica Evangelii gaudium, n. 271.
[4]. Dall’«accidia pastorale»: cfr EG 83.
[5]. J. M. Bergoglio, «Sorvegliare la coesione del gregge». Intervento al Sinodo su «Il vescovo: servitore del Vangelo di Gesù Cristo per la speranza del mondo», in Oss. Rom., 4 ottobre 2001, 10. Cfr Papa Francesco/J. M. Bergoglio, In Lui solo la speranza…, cit., 35.
[6]. Cfr Papa Francesco, Udienza a tutti i cardinali, 15 marzo 2013.
[7]. Agostino, s., Discorso 46, XXX, in Id., Sul sacerdozio, Roma – Milano, La Civiltà Cattolica – Corriere della Sera, 2014, 168.
[8] . Papa Francesco, Discorso alla riunione della Congregazione per i vescovi, 27 febbraio 2014.
[9] . Id., Discorso alla 66a Assemblea generale della Conferenza episcopale italiana, 19 maggio 2014.
[10]. Id., Discorso alla riunione della Congregazione per i vescovi, cit., n. 4.
[11]. Ivi.
[12]. Id., Discorso alla 66a Assemblea generale della Conferenza episcopale italiana, cit.
[13]. Id., Discorso alla riunione della Congregazione per i vescovi, cit., n. 1.
[14]. Id., Prima Benedizione apostolica Urbi et Orbi, 13 marzo 2013.
[15]. Id., Omelia nella Messa «Pro Ecclesia», 14 marzo 2013.
[16]. Id., Udienza a tutti i cardinali, cit.
[17]. Id., Omelia nella Messa del Crisma, 28 marzo 2013. Cfr Concilio Ecumenico Vaticano II, Decreto Christus Dominus (CD), nn. 12; 15; 16.
[18]. «La cura delle anime deve essere sempre pervasa da spirito missionario, cosicché si estenda, nel modo dovuto, a tutti gli abitanti della parrocchia» (CD 30).
[19]. Benedetto XVI, Discorso ai vescovi della Conferenza episcopale di Argentina in visita «ad limina apostolorum», 30 aprile 2009, n. 2.
[20]. Papa Francesco, Omelia nella Messa del Crisma, 2 aprile 2015. Giovanni Paolo II ha riportato un esempio simile: «Ripenso al rasserenante sorriso di Papa Luciani, che nel breve arco di un mese conquistò il mondo» (Giovanni Paolo II, s., Omelia del 27 settembre 2003).
[21]. C. Valenziano, Vegliando sul gregge, Magnano (Bi), Qiqajon, 1994, 16, citato in J. M. Bergoglio, Significado e importancia de la formación académica. Reunión Plenaria de la Pontificia Comisión para América Latina, 18 de febrero de 2009.
[22]. Ivi.
[23]. Ivi. Il testo di Tommaso citato, nell’originale è: Ambrosius dicit, quod caritas est forma et mater virtutum (Tommaso d’Aquino, s., De virtutibus, 2, 3, sed contra).
[24]. Benedetto XVI, Enciclica Deus Caritas est (25 dicembre 2005), n. 25. Cfr anche CD 11 e 30; LG 7.
[25]. «Come la Chiesa è missionaria per natura, così sgorga inevitabilmente da tale natura la carità effettiva per il prossimo, la compassione che comprende, assiste e promuove» (EG 179).
[26]. Benedetto XVI, Enciclica Deus Caritas est, cit., n. 25.
[27]. Cfr Papa Francesco, Omelia del 31 gennaio 2014.
[28]. Cfr D. Fares, «Pasci il mio gregge», in Agostino, s., Sul sacerdozio, cit., VI.
[29]. EG 271.
[30]. Cfr Papa Francesco, Omelia nella Messa del Crisma, 28 marzo 2013.
[31]. «I Presbiteri conseguiranno la santità nel modo loro proprio esercitando sinceramente e instancabilmente le loro funzioni nello Spirito di Cristo» (Concilio Ecumenico Vaticano II, Decreto Presbyterorum Ordinis [PO] 13).
[32]. Papa Francesco, Omelia nella Messa del Crisma, 2 aprile 2015. Cfr CD 27.
[33]. «Solo se si è centrati in Dio è possibile andare verso le periferie del mondo!» (Papa Francesco, Omelia nella chiesa del Gesù, 3 gennaio 2014). In questa omelia Francesco ha portato come esempio san Pietro Favre, con il suo desiderio di «lasciare che Cristo occupi il centro del cuore» (cfr P. Favre, s., Memorie spirituali, Roma – Milano, La Civiltà Cattolica – Corriere della Sera, 2014, 68).
[34]. Papa Francesco, Discorso alla riunione della Congregazione per i vescovi, cit., n. 7.
[35]. Giovanni Paolo II, s., Esortazione apostolica Pastores dabo vobis, 25 marzo 1992.
[36]. Id., Omelia del 4 novembre 1980.
[37]. Cfr P. Favre, s., Memorie spirituali, cit., nn. 126-127.
[38]. Ivi.
[39]. Giovanni Paolo II, s., Pastores dabo vobis, cit., n. 72. Cfr Carlo Borromeo, s., Acta Ecclesiae Mediolanensis, Milano, 1559, 1178.
[40]. Papa Francesco, Discorso ai presuli della Conferenza episcopale del Messico in visita «ad limina apostolorum», 19 maggio 2014.
[41]. Id., Incontro con i giornalisti durante il volo verso Manila, 15 gennaio 2015.
[42]. «Fin da piccolo ho partecipato alla pietà popolare» (J. Cámara – S. Pfaffen, Aquel Francisco, Córdoba, Raíz de Dos, 2014, 31 s).
[43]. R. Guardini, L’opera d’arte, Brescia, Morcelliana, 1998, 21.
[44]. Aristotele, Poetica, 1459a 5 ss. Aristotele affermava che quello di creare metafore è un «dono incomunicabile», e tuttavia tutti possono apprezzarle.
[45]. Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica Pastores gregis (16 ottobre 2003), n. 7.
[46]. Papa Francesco, Discorso alla 66a Assemblea generale della Conferenza episcopale italiana, cit.
[47]. Ivi.
[48]. Id., Prima Benedizione apostolica Urbi et Orbi, cit.
[49]. Id., Discorso alla 68a Assemblea generale della Conferenza episcopale italiana, cit.