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Non è difficile, leggendo le cronache che commentano l’attuale crisi politico-militare derivante dagli attentati terroristici alle Torri Gemelle di New York e al Pentagono di Washington, imbattersi nella categoria storico-interpretativa di «civiltà o cultura mediterranea». Tale definizione era stata messa in circolazione nell’ambito della cultura storica di inizio anni Cinquanta dallo studioso francese F. Braudel (1). Utilizzando la «prospettiva storica di lungo periodo», egli metteva in evidenza, oltre agli elementi di diversità e di distanza, anche quelli di continuità e di persistenza, che esistevano (e continuano tuttora a esistere) nelle culture che sono nate e si sono sviluppate nel bacino del Mediterraneo. Culture, scrive Braudel, che nel corso dei secoli hanno dato vita «all’unità di un sistema coerente, dove tutto si mischia e si ricompone in una unità originale» (2). Questa capacità di creare nuove sintesi di civiltà rappresenta il segreto e la grandezza della cultura mediterranea — basti pensare, ad esempio, alla sintesi greco-romana che si era formata prima dell’avvento del cristianesimo — da sempre fondata sugli scambi reciproci, non soltanto economici, e su un indeterminato «sistema di convivenze», nella pratica non sempre funzionante, ma in ogni caso presente tra i diversi gruppi umani.
Alcuni studiosi, anche cattolici, non accettano tale categoria interpretativa. Essi infatti — contrapponendo un preteso «Occidente cristiano» a un altrettanto preteso «Oriente-arabo-musulmano» — tendono a sottolineare in modo forse eccessivo ciò che separa o divide queste due civiltà, mentre soltanto di passaggio o superficialmente fanno cenno alla lunga esperienza di convivenza e di scambi culturali che per secoli c’è stata tra le due opposte, ma non troppo distanti, sponde del Mediterraneo. Altri studiosi all’opposto, partendo dalla fondamentale intuizione dello storico francese sull’esistenza di una comune cultura mediterranea, interpretano questo fenomeno secondo lo schema della coabitazione interculturale e interreligiosa tra popoli e razze diverse. Qualche anno fa un saggio di Andrea Riccardi, recentemente ristampato, ha divulgato nell’ambiente storico italiano questo importante concetto che, soprattutto dopo i recenti tragici fatti, ci sembra di grande interesse e attualità. Tale categoria può essere utilizzata per capire meglio alcuni aspetti di quella storia comune, che, in qualche modo, ha legato tra loro cristiani, ebrei e musulmani (3).
È soprattutto, però, il rapporto tra mondo islamico e mondo europeo occidentale che ci interessa, oltre che per i fatti accennati, anche in riferimento all’importanza tutta speciale che esso ha avuto e continua ad avere per la storia dell’umanità. Il confronto tra questi due modelli di civiltà è durato per secoli: esso è stato un incontro-scontro, diremmo, alla pari tra le due opposte rive del Mediterraneo. Ma a partire dalla Rivoluzione francese molte cose sono cambiate in questo confronto: soprattutto negli ultimi due secoli l’Europa ha imposto la propria superiorità in campo sia politico-sociale sia economico e tecnologico, sfruttando a proprio vantaggio la debolezza del mondo islamico, fino ad arrivare all’occupazione politico-militare del suo territorio. Questo fatto ha stimolato l’orgoglio delle popolazioni islamiche e ha fatto sorgere un desiderio di riscatto e di rivincita politica, nel quale ha trovato alimento l’attuale terrorismo islamico antioccidentale. Questa situazione rischia di incrinare irrimediabilmente nel Mediterraneo il rapporto tra mondo islamico e mondo europeo occidentale, di tradizione sia cristiana sia ebraica. Alcuni storici — tra questi l’americano Samuel Huntington — da anni sostengono che le differenze culturali condurranno inevitabilmente a uno scontro «epocale», a un clash of civilizations, tra civiltà islamica e civiltà occidentale e cercano anche di interpretare quanto stiamo vivendo in questi terribili mesi secondo tale schema (4). Noi respingiamo tale idea e pensiamo che tutti insieme — musulmani, cristiani ed ebrei — possiamo e dobbiamo lavorare per evitare tale insensato «scontro di civiltà» e ripensare un nuovo modello di convivenza pacifica nel Mediterraneo, pur nel riconoscimento e nel rispetto delle diversità culturali e religiose.
La cultura della coabitazione nel Mediterraneo
Quando si parla di «coabitazione mediterranea» si fa riferimento alle tre grandi religioni sopra citate, le quali hanno dato vita ad altrettanti mondi culturali, nati e sviluppatisi, in un complesso intreccio di relazioni e contrapposizioni, nel bacino del Mediterraneo. Per lunghi secoli e fino agli inizi del Novecento, l’esperienza della coabitazione tra le tre grandi religioni monoteiste esisteva soltanto nella sponda sud del Mediterraneo, mentre nella sponda nord (5) dalla fine del XV secolo, cioè con la reconquista da parte dei «re cattolicissimi» della città di Granada (1492) — per secoli capitale di un potente emirato arabo comprendente quasi tutta la penisola iberica — non c’è più traccia di coabitazione tra cristiani e musulmani. La Spagna visigotica e cristiana, conquistata a partire dal 711 dalla dinastia islamica degli Omayyadi, è stata per lungo tempo il luogo privilegiato dove le tre religioni monoteiste si sono incontrate, sviluppando una cultura della convivenza, del dialogo e dello scambio. Attraverso gli arabi ispanici l’Europa cristiana conobbe gli scritti aristotelici e una parte della cultura greco-romana, che vi veniva ancora studiata su testi originali. La Spagna musulmana, fino alla caduta di Granada, è stata, per così dire, un ponte tra le due rive del mare nostrum. In essa si sviluppò per prima in Occidente una cultura della tolleranza e del dialogo interreligioso; qui l’islamismo conobbe, e riconobbe per la prima volta, l’umanesimo cristiano, e sperimentò una comunanza di esperienze di fede fra le tre religioni monoteiste, mentre il cristianesimo, oltre che con la filosofia e la scienza araba, assai sviluppata, venne a contatto con la grande tradizione mistica dell’islàm, scoprendo anche la comune origine abramitica delle religioni del libro.
Dopo la riconquista della penisola iberica da parte dei cristiani, l’unico «straniero» che abitò la riva nord del Mediterraneo, cioè la terra cristiana, fu l’ebreo che, pur non avendo uno statuto proprio all’interno della società cristiana, la quale a quel tempo si concepiva ancora nello schema della comunione di fede, vi era tuttavia tollerato: egli non solo non godeva dei diritti riconosciuti ai sudditi cristiani, ma era assoggettato a pesanti oneri pecuniari e a forme di discriminazione tendenti a sottolinearne la differenza. L’ebreo, benché accolto, era tuttavia parte estranea del corpo sociale cristiano, che qualche tempo dopo si sarebbe diviso, dando vita al fenomeno più importante della storia moderna: la nascita degli Stati nazionali, con confini precisi, con territori e popolazioni proprie e con una religione ufficiale o di Stato, che era poi la religione del principe. Queste separazioni o distinzioni intracristiane — le quali dettero vita poi in Occidente a guerre sanguinosissime e interminabili per motivi politici e religiosi — non interessarono quasi per nulla il mondo islamico, per il quale il mondo cristiano, nonostante tali divisioni, continuò a essere considerato come una realtà unitaria.
Mentre sulla riva nord del Mediterraneo il «convivente» musulmano a partire dal Cinquecento era scomparso definitivamente, sulla riva sud invece da secoli nasceva una particolarissima esperienza di coabitazione tra musulmani, cristiani ed ebrei. L’impero ottomano — che comprendeva quasi tutto il mondo di fede islamica e si estendeva dai Balcani fino al Medio Oriente, passando per l’Africa settentrionale — inglobava al suo interno etnie, razze e religioni diverse (sebbene la grande maggioranza fosse musulmana) e per governare questo mosaico di popoli differenti aveva favorito e sviluppato un singolare sistema di convivenze, in modo da facilitare la coabitazione di questi mondi culturali e religiosi. Non sempre tuttavia tali convivenze furono facili o indolori; non sempre, inoltre, la Sublime Porta difese i cristiani e gli ebrei conviventi dalle frequenti violenze e soprusi imposti loro dalla maggioranza musulmana.
Sta di fatto, comunque, che all’interno dei vasti confini dell’impero ottomano le tre grandi religioni monoteiste sono vissute una a fianco dell’altra. Per quanto riguarda l’elemento cristiano, esso era composito e fortemente eterogeneo al suo interno: si trattava di cristiani «antichi» e «nuovi». I cristiani «antichi» erano gli indigeni sopravvissuti all’islamizzazione, il più delle volte forzata, di quelle terre cristiane a partire dal VII secolo: essi comprendevano tre dei quattro patriarcati protocristiani (Gerusalemme, Antiochia e Alessandria). In questi «luoghi santi» del cristianesimo vivevano ancora — e ciò è durato fino ai primi decenni del Novecento — comunità cristiane di antichissima fondazione, sebbene ridotte numericamente. I cristiani «nuovi» erano invece piccole comunità di europei installatesi nell’impero ottomano per motivi commerciali, di rappresentanza diplomatica o altro. Questi erano protetti sulla base del sistema delle «capitolazioni», che erano accordi stipulati dai Governi europei con la Sublime Porta. Ricordiamo che fino alla prima guerra mondiale la protezione dei cattolici (sia latini sia armeni) che vivevano nell’impero ottomano era attribuita all’ambasciatore francese presso la Porta; mentre a partire dalla fine del Settecento lo zar iniziò a considerarsi il naturale protettore degli ortodossi che vivevano «sotto il giogo del sultano».
Le comunità ebraiche che vivevano nell’impero ottomano erano quelle antichissime della diaspora romana, le quali avevano sviluppato una singolarissima cultura della coabitazione (come per esempio gli ebrei sefarditi), facendo propri anche alcuni elementi della civiltà islamica, come la poligamia, o frequentando luoghi di culto comuni non soltanto ai musulmani ma anche ad alcuni gruppi di cristiani.
Dal «dhimmi» al sistema ottomano del «millet»
La posizione dei cristiani all’interno dell’impero ottomano era quella degli antichi imperi omayyadi di Damasco e abbaside di Baghdad: in quanto appartenenti, come gli ebrei e i sabei, alle «genti del libro», essi erano dhimmi, cioè «protetti». L’impero musulmano accordava loro la propria protezione; in cambio imponeva l’obbligo di sottomettersi al sistema musulmano, al quale dovevano pagare un’imposta di «capitazione» (jizya) e un’imposta sulla terra (kharaj) (6). Essi potevano esercitare liberamente la propria religione, ma entro limiti ben precisi e a condizione che la pratica non fosse troppo visibile (ad esempio, innalzare croci o fare processioni all’esterno delle chiese o portare simboli religiosi). L’edificio di culto cristiano, inoltre, doveva essere di dimensioni modeste, più piccolo di tutti gli edifici religiosi musulmani dei dintorni. I «protetti» inoltre non potevano fare proselitismo, né testimoniare in tribunale, né partecipare al governo della città, rivestendo cariche pubbliche, né far parte dell’esercito. Nello Stato musulmano essi erano cittadini di seconda categoria, sottoposti a certe «umiliazioni» (come prescrive il Corano) e «tollerati». Questo termine va inteso secondo il diritto islamico, nel senso cioè di persone che sono «accettate» nella società musulmana pur senza averne tutti i diritti, a differenza di coloro che non sono «tollerati», cioè non accettati, come i fedeli di religioni non appartenenti a quelle del «libro», e come i miscredenti, gli atei e gli agnostici (7). Tuttavia, pur restando nella condizione di dhimmi, nell’impero ottomano i cristiani ebbero una maggiore istituzionalizzazione della loro realtà comunitaria e quindi una maggiore integrazione nello Stato. Ciò avvenne con il sistema del millet.
Con questo termine si designavano le varie comunità religiose, o «nazioni», non musulmane che vivevano all’interno dell’impero ottomano. Secondo alcuni studiosi, tale sistema sarebbe nato soltanto nel secolo XIX, a partire dalle riforme amministrative del 1839; per cui il sistema dei millet, tanto decantato per la sua tolleranza, sarebbe in realtà un fatto tardivo, proiettato anacronisticamente in un contesto storico più antico (8). Tale teoria è però negata dalla maggior parte degli studiosi di questa materia, secondo i quali il sistema dei millet sarebbe nato dopo la conquista ottomana di Costantinopoli (1453), accogliendo elementi di un antico diritto (o tradizione) preottomano che disciplinava il rapporto tra musulmani e cristiani (9). È vero però che a partire dalle riforme imperiali del 1839 esso assunse una configurazione giuridica più specifica. In base a tale sistema i «protetti» potevano liberamente praticare la propria religione e disciplinare i rapporti interpersonali (matrimonio, diritto familiare ed ereditario) sulla base del proprio diritto. Tutto questo era loro assicurato a titolo di «concessione imperiale», per cui ogni millet doveva essere riconosciuto con un «firmano» del sultano e dietro il pagamento di una tassa. Responsabile dei singoli millet presso la Sublime Porta era il capo religioso della comunità (patriarca o rabbino capo): era lui, infatti, che raccoglieva la tassa dei dhimmi (la sua entità era commisurata al numero dei protetti) e la assicurava all’amministrazione centrale.
È ancora controversa tra gli studiosi la configurazione giuridica di questo complicato sistema di protezione. Secondo alcuni il millet, a motivo della larga autonomia in materia civile e religiosa (si parla anche di autogoverno) concessa ai «protetti», sarebbe una sorta di sub-Stato senza confini, che però non si identificava con un territorio particolare, ma con una diaspora (10), insomma un vero e proprio Stato nello Stato. Secondo altri studiosi, invece, i diversi millet non costituivano entità politiche autonome all’interno dell’amministrazione ottomana. Secondo L. A. Missir, la struttura teocratica dell’impero ottomano comportava che i singoli millet fossero parte essenziale, costitutiva dell’impero, ma non uno Stato nello Stato. Tant’è vero, secondo lo studioso, che ai dhimmi si riconosceva lo statuto di veri e propri «sudditi» del sultano (al pari di quelli di fede musulmana) e i loro capi religiosi erano considerati dall’amministrazione come funzionari imperiali. Egli rende bene l’idea dell’appartenenza dei singoli millet al sistema imperiale facendo riferimento all’immagine dell’arancia composta di tanti spicchi: alcuni di questi sarebbero appunto i millet, mentre la totalità dell’arancia sarebbe l’impero ottomano nel suo complesso, costituito, cioè, da sudditi di religione musulmana, cristiana o ebraica. Secondo Missir, inoltre, in un impero così costituito la diversa appartenenza religiosa non era motivo di discriminazione. A questo proposito egli scrive: «Se è vero che c’era qualche norma umiliante per i non musulmani, ciò non è sufficiente per dire che i cristiani fossero considerati, rispetto ai musulmani, cittadini di seconda categoria» (11). Ciò era forse vero dal punto di vista del diritto, ma nei fatti — come è sottolineato da altri studiosi — la condizione di cittadino non musulmano era di «seconda categoria»; altrimenti non si capirebbero le numerose e frequenti proteste portate dai capi religiosi dei «protetti» presso la Sublime Porta, contro soprusi o violenze subite e, soprattutto a partire dai primi decenni dell’Ottocento, la continua richiesta di «garanzie» e di protezione che i millet greci o armeni chiedevano attraverso l’intermediazione degli Stati cristiani d’Occidente al sultano.
In un primo tempo i soli millet cristiani riconosciuti erano due: Rûm milleti, cioè tutti i cristiani che si richiamavano al Credo del Concilio di Calcedonia del 451 (vale a dire greci, bulgari, moldavi, serbi, albanesi, croati, siro-libanesi e altri) e gli Ermeni milleti, quelli cioè che non riconoscevano il Credo calcedonese, tra i quali ricordiamo soprattutto gli armeni gregoriani, gli assiri, i copti e gli etiopi. Col passare del tempo furono sempre più numerose le comunità cristiane, sia calcedonesi sia non calcedonesi, che — formando a loro volta Chiese autocefale, sotto l’impulso dell’ideologia nazionalista — chiesero alla Sublime Porta di essere riconosciuti come millet autonomi. Il primo millet cattolico fu riconosciuto con firmano del sultano il 3 gennaio 1831 in favore degli armeni legati a Roma. Dal 1836 i cattolici latini ebbero il loro rappresentante ufficiale presso il sultano nella persona del cosiddetto «console latino», che era il rappresentante francese presso la Porta. All’inizio del XIX secolo i millet riconosciuti erano 14, compreso quello molto antico degli ebrei, Yahûdî milleti. Mentre l’Europa cristiana, al fine di assicurare una certa pace tra i suoi popoli, si riorganizzava ponendo come fondamento dei nuovi Stati nazionali, nati dalla dissoluzione della societas christiana, il principio fissato ad Augusta nel 1555, cuius regio, eius religio, promotore, però, dell’intolleranza religiosa da cui sarebbe nata qualche secolo dopo l’ideologia laica e a volte antireligiosa del «nazionalismo», sulla riva del sud del Mediterraneo si era col tempo sviluppato un sistema pluralistico di coabitazione, fondato (almeno formalmente) su una certa «tolleranza» religiosa, capace di assicurare una convivenza pacifica tra sudditi che professavano fedi diverse, ma al prezzo della discriminazione verso i non-musulmani (12).
La crisi del sistema di coabitazione
Come e perché questo sistema di coabitazione tra mondi e culture diverse, che si era andato lentamente sviluppando all’interno dell’impero ottomano, entrò in crisi, a partire dal XIX secolo, fino poi a sparire del tutto? I motivi sono molti, anche se due ci sembrano i principali. Il primo concerne l’ideologia nazionalista, che riuscì ad alimentare aspirazioni di indipendenza nazionale e nuovi modelli di aggregazione politico-sociale. L’idea nazionalista entrò nel mondo della coabitazione religiosa come un fenomeno sconvolgente «e rimise in discussione le identità tradizionali modellatesi nella coabitazione multireligiosa, non senza sofferenza, ma in un equilibrio secolare» (13). Il processo di disgregazione degli antichi ordinamenti ottomani iniziò nei Balcani. Dietro la bandiera della lotta per l’indipendenza greca si mobilitò tutto l’Occidente, tanto malato di romanticismo quanto avido di estendere la propria influenza politica sul Vicino Oriente. Un poco alla volta le altre etnie balcaniche (bulgari, rumeni, bosniaci, macedoni e altri) scoprirono la propria identità nazionale e combatterono per liberarsi dal giogo turco. Gli antichi millet cristiani, in particolare quelli di fede calcedonese, rivendicarono, sul modello occidentale, il diritto ad avere un territorio proprio assicurato da confini certi, dove si parlasse la stessa lingua e si professasse la stessa religione, ad essere cioè uno Stato nazionale. Al nazionalismo balcanico seguì poi quello arabo e ultimo, una volta distrutto l’impero ottomano, quello turco. Subito dopo la prima guerra mondiale fu così ridisegnato il quadro delle unità nazionali (sia cristiane sia islamiche) che per la prima volta si affacciavano sul Mediterraneo (14).
Un secondo motivo che contribuì a frantumare questa antica convivenza e a mettere in crisi l’ormai anacronistico sistema dei millet va identificato nella continua ingerenza delle potenze occidentali — che si intensificò sempre più a partire dagli inizi del XIX secolo — nella politica interna dell’impero ottomano, considerato «il grande malato», di cui esse (Francia e Gran Bretagna) intendevano garantire la sopravvivenza soltanto per non avvantaggiare altre potenze rivali (come la Russia) nella spartizione delle spoglie. In ogni caso queste potenze (la Francia, l’imperatore asburgico o lo zar) facevano a gara nell’atteggiarsi a protettori delle comunità cristiane che vivevano sotto il dominio del sultano e a chiedere a questi, a volte minacciosamente, maggiore tutela e garanzie per i suoi sudditi cristiani. Per la pressione delle potenze occidentali la Sublime Porta si decise infatti, ma controvoglia, a introdurre nel 1839 riforme in favore dei millet cristiani. Tali protezioni furono però guardate con sospetto dall’amministrazione centrale, poiché era chiaro che gli occidentali intendevano sfruttare tale pretesto per tenere sotto controllo la politica ottomana. Questo fatto, come è noto, ha nuociuto moltissimo ai cristiani ottomani, ormai guardati con diffidenza e sospetto non soltanto dai musulmani, ma anche dal millet ebraico. Su questo sfondo si comprendono meglio le molte stragi e violenze sofferte dai cristiani ottomani da parte dei musulmani lungo tutto il XIX secolo. Basti ricordare soltanto — perché furono i maggiori — i massacri di cristiani in Libano e a Damasco del 1860, nonché quelli del 1894-96 contro gli armeni gregoriani in Turchia, considerati fino a quel momento i più fedeli sudditi del sultano-califfo.
Il sistema delle protezioni fu evidentemente denunciato anche da fonti ottomane. In un documento ufficiale si legge a questo riguardo: «La protezione straniera fu soltanto menzogna e fumo negli occhi. Non ha mai avuto risultati positivi. Ha forse potuto evitare massacri atroci e abominevoli? Al contrario i cristiani hanno raccolto massacri, attentati, odi seminati, progettati, voluti, sollecitati dalle Potenze. Sappiamo bene che esse non hanno risparmiato proteste e reclami in favore delle minoranze. Ma abbiamo la prova di quanto illusorie siano state tali garanzie. Esse producono in realtà l’effetto contrario. Conducono a una separazione sempre maggiore musulmani e cristiani, che invece avrebbero interesse a unirsi e ad essere solidali in difesa del patrimonio comune. Il settarismo ha di fatto dominato in Oriente, grazie alla politica nefasta delle Potenze» (15).
Inoltre, l’azione paziente ma penetrante dei missionari occidentali (cattolici, ortodossi e protestanti) che lavorarono in terra ottomana costruendo scuole, ospedali e altre opere di assistenza e di catechesi non fu senza impatto sulla coabitazione tra musulmani, cristiani ed ebrei sulla sponda sud del Mediterraneo. In queste istituzioni, per lo più controllate dalle potenze occidentali (quelle cattoliche erano sottoposte all’ambasciatore francese), si formò la maggior parte dell’intellighentia cristiana d’Oriente. I cristiani che entravano a contatto con queste istituzioni si sentivano parte di una cristianità ben più ampia di quella che sperimentavano in situ, per lo più ridotta in condizione di servitù. Tale orizzonte di «cristianità europea», nella quale le minoranze cristiane cominciavano a collocarsi idealmente, in realtà non esisteva più nelle scelte politiche operate dagli occidentali (la Francia dopo la prima guerra mondiale abbandonò la Cilicia e l’Anatolia, dove si erano rifugiati molti cristiani, senza curarsi troppo del loro futuro); ma i cristiani ottomani, come anche i musulmani, credevano ancora, illudendosi, all’esistenza di una cristianità che abbracciasse tutto l’Occidente europeo. Per molti islamici infatti era difficile (e lo è ancora oggi) capire a fondo il concetto, occidentale e cristiano, della laicità dello Stato, cioè della separazione, senza opposizione, tra sfera politica e sfera religiosa. In ogni caso il cristiano orientale finì per sentirsi diverso dal musulmano, «quasi appartenente a un altro mondo che aveva il suo riferimento nell’Occidente» (16). Caso tipico fu quello libanese, dove l’istruzione offerta dalle scuole dei missionari ebbe un ruolo decisivo nel favorire l’insofferenza dei cristiani maroniti verso il regime ottomano. Attraverso queste scuole, insomma, passò un modello di civiltà che era diverso e a volte anche antitetico a quello orientale.
A partire dalla fine della prima guerra mondiale alcune importanti città orientali che avevano in passato conosciuto una discreta presenza cristiana gradatamente si andarono svuotando di questo elemento e furono completamente «islamizzate»: tra esse Antiochia, Alessandria e diverse altre località della Siria. Il fondamentalismo islamico di questi ultimi decenni, poi, ha contribuito a portare a termine quanto iniziato, forzatamente o meno, a partire dai primi decenni del Novecento. L’esperienza dei massacri di cristiani armeni (sia gregoriani, sia cattolici o altri) perpetrata dai Giovani Turchi durante la prima guerra mondiale pose fine quasi definitivamente a questa secolare coabitazione. «L’idea di fondo diffusa tra i cristiani d’Oriente dopo il 1918 a seguito dell’esperienza dei massacri e della diffusione delle idee nazionaliste, è che non si può più coabitare con i musulmani. Solamente uno Stato non musulmano può garantire la sopravvivenza cristiana» (17). Su questo presupposto nacque il moderno Stato libanese, sul quale si concentrarono gran parte delle speranze delle minoranze cristiane sopravvissute ai massacri della prima guerra mondiale o che, semplicemente, avevano continuato a vivere in Oriente durante il periodo dei «mandati» occidentali. Lo Stato libanese, dopo il 1948, si presentava come uno Stato multietnico e multireligioso; «l’organizzazione della sua vita politica e le sue strutture statali conserveranno numerosi tratti del sistema politico ottomano classico nel suo pluralismo tollerante» (18). Purtroppo in tempi vicini ai nostri esso è stato teatro di ferocissime guerre civili e tra arabi e israeliani e ciò ha favorito l’emigrazione in Occidente di molti libanesi, penalizzando fortemente la presenza dei cristiani, che oggi nel Libano sono minoritari rispetto agli islamici.
Dopo la seconda guerra mondiale il vecchio sistema delle coabitazioni nel bacino mediterraneo fu sconvolto. In Europa scomparve il coabitante di sempre, l’ebreo, programmaticamente e scientificamente eliminato dalla barbarie del regime nazista. Quell’Europa che si proclamava laica e civile operava, nell’indifferenza di molti, la tremenda liquidazione dello «straniero», che la vecchia societas christiana non avrebbe potuto neanche concepire. Sull’altra sponda del Mediterraneo al contrario fu il coabitante cristiano, calcedonese o non calcedonese, a sparire progressivamente, ora perché cacciato, deportato, massacrato, ora perché — stanco di sopportare antiche angherie o nuovi soprusi, o semplicemente perché attirato dalla prospettiva di un maggior benessere economico — si era materialmente trasferito, insieme alla sua numerosa famiglia, in Occidente o nelle Americhe. A causa del diverso tasso di natalità, oltre che dell’emigrazione, la proporzione tra maggioranza islamica e minoranza cristiana sulla sponda sud del Mediterraneo si è in questi ultimi decenni alterata profondamente a vantaggio della prima. Con la costituzione dello Stato di Israele nel 1948 c’è stata inoltre una migrazione massiccia di ebrei, di cultura e tradizione sefardita, dalle diverse regioni ex ottomane verso il nuovo Stato appena ricostituito su mandato delle Nazioni Unite e riconosciuto dalla comunità internazionale. Questo ha ulteriormente contribuito a «islamizzare» la riva sud del Mediterraeneo.
La nuova coabitazione in Italia
In questi ultimi decenni, sempre sul versante della coabitazione, è avvenuto, quasi inavvertitamente, nella storia dell’Europa moderna un fenomeno assolutamente nuovo: il vecchio coabitante musulmano, cacciato una volta per tutte dalla riva nord del Mediterraneo alla fine del XV secolo, è ritornato, e questa è storia recente, a risiedervi ora come cittadino, ora come profugo o come lavoratore con regolare permesso di soggiorno, ora semplicemente come clandestino. Il problema della coabitazione insomma si sposta oggi sulla sponda nord del Mediterraneo, e questa volta si presenta con caratteristiche nuove, più complesse che nel passato: esse sollecitano, dal punto di vista sia individuale sia sociale, nuove e inedite forme di convivenza.
Quali sono le cause che a partire dagli anni Ottanta hanno messo in movimento masse imponenti di emigrati musulmani verso il nord del Mediterraneo? Sono prevalentemente politiche ed economiche. Alcuni emigrano in Europa per sfuggire a regimi totalitari e repressivi, cercando quindi una sicurezza di vita «sotto l’ombrello» delle tolleranti democrazie occidentali. La maggior parte, però, abbandona la sponda sud per motivi economici, alla ricerca di una migliore prospettiva di vita. Il divario sempre più grande tra il Sud del Mediterraneo povero e il Nord ricco tende a spingere verso l’Occidente masse sempre più consistenti di diseredati, desiderosi di migliorare le loro precarie condizioni di vita. Se l’economia globale non riuscirà nei prossimi anni a inglobare nel suo programma di sviluppo anche l’altra sponda del Mediterraneo, il flusso di questi «diseredati» diventerà forse incontenibile, mettendo a rischio non soltanto il nostro modello economico, ma anche il nostro sistema di convivenza sociale.
Per quanto riguarda l’Italia, in cui l’emigrazione musulmana è più recente e meno numerosa che in altri Paesi europei, ci sembra di dover osservare anzitutto che l’immigrazione musulmana non dev’essere vista unicamente, e neppure principalmente, sotto il profilo economico (come per esempio l’immettere nel mercato nuova manodopera non qualificata, necessaria al nostro sviluppo economico), o della sicurezza pubblica e della repressione dei reati (come l’ingresso illegale di «abusivi» o quello del traffico dei clandestini), ma anche sotto il profilo umano legato alla cultura dell’accoglienza e della coabitazione. Questo non significa, però, che la comunità «accogliente» — come recentemente in sporadici casi è accaduto — debba abdicare al proprio stile di convivenza o alle proprie tradizioni culturali, civili e religiose.
Per quanto riguarda gli immigrati musulmani, s’impone la necessità di integrazione nel nostro Paese, integrazione che comporta l’accettazione e il rispetto delle leggi italiane, anche per quanto concerne i rapporti personali: matrimonio, uguaglianza tra uomo e donna, diritti ereditari, libertà religiosa per i figli. C’è in alcuni musulmani — in particolare nelle organizzazioni che li rappresentano — la tendenza a fare dei loro immigrati una specie di millet islamico, cioè un gruppo separato dalla popolazione italiana, che si regge con la legge coranica e quindi vive una propria vita non solo sotto il profilo religioso, ma anche civile e legale. Ora, è chiaro che in un Paese democratico come l’Italia c’è, come in ogni Paese moderno, un’unica legge uguale per tutti i cittadini, valida anche per i residenti. Il fatto che l’Italia sia ormai — e lo sarà sempre di più nel futuro — un Paese multietnico e multireligioso non deve comportare la perdita della propria specificità politica e culturale e della propria unità di nazione democratica ed europea. Se dunque da parte italiana dev’esserci spirito di accoglienza e di rispetto nei riguardi degli immigrati musulmani, da parte di questi ultimi ci dev’essere uno sforzo per la loro integrazione nella vita italiana. Soltanto così la coabitazione sarà pacifica e arricchente sia per gli italiani sia per gli immigrati islamici.
In questo scambio interculturale pensiamo che il cristiano possa dare molto al musulmano «coabitante», così come anche quest’ultimo al cristiano, il quale può comunicare al coabitante islamico il valore dell’umanesimo cristiano, il significato che la nostra cultura — fondata, lo si voglia o no, sulla tradizione giudaico-cristiana — attribuisce ai diritti della persona umana e ai diritti civili e politici. Anche il mondo islamico può condividere molte sue ricchezze con quello cristiano, come il valore «sacro» che esso attribuisce ai rapporti interpersonali, alla comunità e al dovere dell’accoglienza e dell’ospitalità, cose tutte che possono arricchire le nostre convivenze spesso così fredde e fondate sull’interesse. L’islàm ci può trasmettere, inoltre, la sua ricca tradizione culturale, nonché la sua profonda sensibilità religiosa, dalla quale anche noi cristiani possiamo trarre esempio. Tale rispettosa coabitazione che non appiattisce le differenze, ma si arricchisce della mutua comprensione e tolleranza, pensiamo sia oggi il modo più convincente per combattere sia l’integralismo islamico (che minaccia anzitutto la tradizione e la fede musulmana), sia il terrorismo che semina paura e crea soltanto ostacoli alla convivenza pacifica degli uomini, sia l’orrore mai troppo deprecato della guerra.
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(1) Cfr F. BRAUDEL, Civiltà e imperi del Mediterraneo all’epoca di Filippo II, Torino, Einaudi, 1953.
(2) Ivi, 34.
(3) Cfr A. RICCARDI, Mediterraneo. Cristianesimo e islam tra coabitazione e conflitto, Milano, Guerini e Associati, 2001. Anche lo scrittore ebreo A. Y. Yehoshua utilizza spesso nei suoi commenti la definizione di «cultura della convivenza mediterreanea» per indicare il «rapporto di parentela» che esiste tra ebrei e arabi: «Arabi ed ebrei sefarditi — egli scrive — hanno molti punti in comune, come tradizioni, mentalità, stile di vita: in altre parole il modo di essere mediterraneo» (in la Repubblica, 22 novembre 2001). Si veda anche B. LEWIS, Il linguaggio politico dell’Islam, Bari – Roma, Laterza, 1995; ID., I musulmani alla scoperta dell’Europa, ivi, 1991.
(4) Cfr S. P. HUNTINGTON, «The Clash of Civilizations», in Foreign Affairs, Summer 1993, 22-49
(5) A parte la parentesi siciliana tra IX e X secolo. Su questa materia si veda M. AMARI, Storia dei musulmani in Sicilia, Catania, Giannotta, 1977.
(6) Cfr S. K. SAMIR, «Le comunità cristiane, soggetti attivi della società araba nel corso della storia», in Comunità cristiane nell’islam arabo, Torino, Fondazione G. Agnelli, 1996, 77-81.
(7) Ivi.
(8) Cfr B. BRAUDE, «Foundation Myths of the Millet system», in B. BRAUDE – B. LEWIS, Christians and Jews in the Ottoman Empire, vol. I, New York – London, Holmes & Heier, 1982, 69-88.
(9) Cfr M. O. H. URSINUS, Millet, Istanbul, 1917, 33; V. POGGI, «Millet, da religione a nazione», in Da Roma alla Terza Roma. Seminari internazionali di studi storici, Roma, Herder, 1994.
(10) Cfr B. BRAUDE – B. LEWIS, Christians and Jews in the Ottoman Empire, cit.
(11) L. A. MISSIR, Eglises et Etat en Turquie et au Proche Orient, Bruxelles, Missir, 1973, 38.
(12) Cfr J.-P. ROUX, Histoire des Turcs: deux mille ans du Pacifique à la Méditérranée, Paris, Fayard, 1984, 33.
(13) A. RICCARDI, Mediterraneo…, cit., 28.
(14) Tali rivendicazioni iniziarono già nei primi decenni dell’Ottocento, quando i «nazionalisti» cominciarono a chiedere alla Sublime Porta un millet proprio, indipendente dal Patriarcato ecumenico, ritenuto eccessivamente filo-ottomano, e quindi costituendosi in Chiese autocefale. Queste nuove unità nazionali possedevano al loro interno alcune minoranze etnico-religiose non desiderate. Il problema fu subito risolto ricorrendo alla «pulizia etnica», ora col massacro di queste popolazioni, ora con la loro deportazione. Come si vede, i recenti fatti della ex Iugoslavia non sono altro che una macabra riedizione di pratiche già utilizzate in quei territori fin dall’inizio dell’Ottocento. Insomma fu il nazionalismo, concepito secondo il modello occidentale, che fece miseramente crollare un secolare equilibrio di coabitazione tra etnie e religioni diverse, conviventi nella medesima sponda sud del mare nostrum.
(15) A. CHAHLA, L’extinction des Capitulations en Turquie et dans les Régions Arabes, Paris, Picard, 1924, 183.
(16) A. RICCARDI, Mediterraneo…, cit., 25.
(17) Ivi, 32.
(18) G. CORM, Géopolitique du conflit libanais, Paris, la Découverte, 1986, 89. Lo Stato libanese, definito «la Svizzera araba», ebbe l’indipendenza nel 1941.