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Tutti abbiamo avuto modo di vedere quanti migranti vengano recuperati dal mare: uomini, donne e bambini che sono annegati durante il loro viaggio. In molte scuole, poi, vi sono classi con dei rifugiati: bambini e giovani che, grazie a Dio, ce l’hanno fatta. Ma anche moltissime persone nate nei nostri Paesi hanno un passato di migrazione. Motivi sufficienti per riflettere sulla fuga e sulle migrazioni. Uno sguardo alla storia dell’umanità mostra fino a che punto siamo tutti dei migranti. Nella Bibbia possiamo vedere con quanta intensità gli esseri umani pensassero alla fuga e alla migrazione già più di due millenni fa[1].
Gli esseri umani come migranti
Il genere umano, quando giunse in Europa 40.000 anni fa, proveniva dal continente africano, avendo non soltanto avuto lì le sue origini, ma anche compiuto lì il suo processo di evoluzione per 100.000 anni. Gli esseri umani furono costretti ad essere dei viaggiatori, per seguire le mandrie di animali, e dei corridori, per sopravvivere agli altri mammiferi. Erano capaci di inseguire le gazzelle fino allo sfinimento e di dare loro il colpo di grazia con dei sassi. Soltanto quando i deserti del Nord Africa e dell’Arabia cominciarono a fiorire essi attraversarono il rift, la fossa tettonica continentale, verso l’India, poi verso l’Australia, e solo in seguito alla volta dell’Europa. L’Homo sapiens vagabondò ancora più lontano, al termine dell’ultima era glaciale, attraverso la Siberia verso l’America. Ed è in quanto migranti che gli esseri umani scoprirono il mondo.
Nelle civiltà evolute, gli esseri umani si organizzarono in moltitudini, partirono alla conquista di nuove terre e costrinsero i popoli a fuggire o li fecero prigionieri. Già nei tempi antichi molte migliaia di persone furono esiliate con la forza. In tempo di pace, fu la fame che costrinse le popolazioni a spostarsi verso nuove parti della terra. Coloro che cercavano migliori opportunità divennero rifugiati economici, sottraendosi così al rigido inverno europeo. Quelli che noi ora chiamiamo «americani» erano per lo più emigranti e rifugiati economici provenienti dall’Europa. Gli abitanti del Nord trasportarono milioni di persone dall’Africa verso l’America, spingendo nel frattempo gli abitanti originari nei più remoti angoli del continente.
Adattandosi – se costretta, forzata o indotta con lusinghe – alla propria esistenza con le ricerche e con i viaggi, l’umanità raffigura la sua grande mobilità anche nei miti, vagando per il Mediterraneo nell’Odissea, attraverso il mare e il deserto nell’esodo biblico. E anche la Bibbia è una piccola biblioteca da portare nel bagaglio a mano, scritta da e per dei migranti.
Adamo, cacciato dal Paradiso: all’origine dell’umanità
Adamo, «uomo», ed Eva, «vita», devono lasciare la loro prima dimora, il Paradiso, dopo che la tentazione alla disonestà li ha sopraffatti, costringendoli a un codardo gioco a «nascondino» (cfr Gen 3,8), e dopo che la vergogna per la vulnerabilità del loro essere nudi li ha indotti a nascondersi (cfr Gen 2,25; 3,10). Questa storia delle origini nella Genesi sembra scandagliare le profondità psichiche della natura irrequieta e agitata del genere umano. Ha qualcosa a che vedere con la diffidenza, con un’incomprensibile paura che non consente all’uomo di stare in piedi al cospetto di Dio in libertà e verità.
Questo appare evidente non appena la colpa assume forme tangibili e drammatiche. Caino uccide suo fratello Abele, e presto, dopo un breve periodo di insolente, arrogante rimozione – «Non lo so. Sono forse io il custode di mio fratello?» (Gen 4,9) –, viene sopraffatto dalla paura: «Troppo grande è la mia colpa per ottenere perdono. Ecco, tu mi scacci oggi da questo suolo e dovrò nascondermi lontano da te; io sarò ramingo e fuggiasco sulla terra e chiunque mi incontrerà mi ucciderà» (Gen 4,13-14). Così come Dio ha vestito Adamo ed Eva con del pellame (cfr Gen 3,21), allo stesso modo protegge Caino con un segno (Gen 4,15) per rendere la sua vita più sopportabile.
Il resto del libro della Genesi pullula anch’esso di episodi di fuga e di migrazione. Soltanto la famiglia di Noè sopravvisse al diluvio. Stipato nell’arca sul monte Ararat, il genere umano ricomincia tutto daccapo sotto il segno dell’arcobaleno (8,13-9,16). La costruzione della Torre di Babele, con la quale il genere umano desiderava forgiarsi un nome, ha come risultato la divisione per lingua e per territorio (11,1-9). Abramo, il patriarca d’Israele, proviene da Ur, nel sud dell’attuale Iraq, ed emigra con suo padre Terach a Harran, nel nord della Siria (11,31). In seguito è la chiamata da parte di Dio che lo conduce a una nuova terra (12,1). Ma la sua famiglia deve fuggire nuovamente. La carestia costringe lui e più tardi l’intera famiglia di Giacobbe (Israele) verso l’Egitto (12,10; 46,6).
Le grandi storie della Bibbia, come quelle di Giuseppe e i suoi fratelli e di Noemi e Rut, si sviluppano su palcoscenici stranieri. In una terra straniera e malsicura, le relazioni raggiungono una drammatica profondità. In terra straniera avviene la riconciliazione tra Giuseppe e i fratelli (cfr Gen 45,1); lì si manifesta la fedeltà assoluta nelle due donne (libro di Rut). Sulla base di conflitti risolti, la famiglia d’Israele cresce in Egitto fino a diventare un popolo (cfr Es 1,1-7); e il re Davide proviene dalla fedeltà di Rut (cfr Rt 4,22). È in terra straniera, dall’esilio e dalla diaspora, che vengono messe in risalto la saggezza di Daniele, la forza di Ester e la religiosità di Tobia.
È mentre sono in fuga o in viaggio che Giacobbe (cfr Gen 28; 32,25-33), Elia (cfr 1 Re 1,1-7) e Giona incontrano Dio, particolarmente vicino, soverchiante e sorprendente. In mezzo ai pericoli del viaggio Tobia sperimenta la protezione dell’angelo Raffaele, per poi diventare a sua volta un guaritore. Innumerevoli racconti della Bibbia sviluppano quello che la Genesi mostra come la storia dell’origine dell’umanità: il viaggio è lo scopo del genere umano, così profetico e così pieno di sviluppi, perché apre sempre nuove prospettive.
Esodo: mito fondatore ed «ethos» fondamentale
Davanti al roveto ardente, in mezzo al deserto, di fronte al monte Sinai dal granito marrone rossiccio, a piedi nudi e con il volto coperto, Mosè chiede a Dio qual è il suo nome. Dio gli risponde: «Io sono colui che sono», o: «Io sarò colui che sarò» (Es 3,14). A tal punto è misterioso il significato del nome Yhwh al roveto ardente, e in modo così tangibile si presenta il carattere proprio di Dio. Yhwh è apparso a Mosè perché ha ascoltato le grida degli Israeliti in Egitto (cfr Es 2,23-25; 3,7.9), perché desidera impegnarsi con loro senza compromessi e liberarli dal potere del Faraone (cfr Es 3,8.15-22). La fuga attraverso il mare dei Giunchi (cfr Es 14) conduce, di fatto, alla nascita di un popolo. È come popolo di rifugiati che Israele diventa il popolo di Dio.
Quello che può sembrare un mito romantico e un racconto di suspense si rivela essere, al più tardi al monte Sinai, un importante principio di etica sociale. Perché, nel concludere l’alleanza al Sinai (cfr Es 19-24), Dio richiede dal suo popolo liberato un impegno che è connesso alla sua liberazione: «Non opprimerai il forestiero: anche voi conoscete la vita del forestiero, perché siete stati forestieri in terra d’Egitto» (Es 23,9). Il Dio della Bibbia è un Dio di liberazione, un Dio dei migranti.
Le leggi per la protezione degli stranieri attraversano tutto il Pentateuco e aumentano come in un crescendo sinfonico. Se il Libro dell’Alleanza (cfr Es 21-23) si era limitato a proibire l’oppressione degli stranieri, il Codice di santità va ben oltre: «Il forestiero dimorante fra voi lo tratterete come colui che è nato fra voi; tu l’amerai come te stesso, perché anche voi siete stati forestieri in terra d’Egitto. Io sono il Signore, vostro Dio» (Lv 19,34). Se il Codice di santità raccomanda l’amore umano nei confronti dei forestieri, Mosè rincara la dose nel Deuteronomio. È Dio stesso che «rende giustizia all’orfano e alla vedova, ama il forestiero e gli dà pane e vestito. Amate dunque il forestiero, perché anche voi foste forestieri nella terra d’Egitto» (Dt 10,18-19). Questa frase fondamentale attraversa come un ritornello le leggi del Pentateuco. L’esperienza dell’esodo fatta da Israele è la base per il suo ethos (carattere particolare), come viene spiegato nella Torah, già all’inizio del Decalogo (cfr Es 20,2; Dt 5,6), e nell’insegnamento dato ai figli (cfr Dt 6,20-25). L’esperienza della libertà reca con sé un impegno.
Il trauma dell’esilio e il sogno di avere una patria
Se il Pentateuco, dal momento in cui Abramo si mette in marcia fino alla morte di Mosè, aveva indirizzato il nostro sguardo verso la Terra promessa (cfr Gen 12,1; 13,14-15; Dt 34,1-4), che Israele infine raggiunge sotto la guida di Giosuè, il resto della storia (deuteronomica) del popolo precipita verso la perdita di quella stessa terra. Verso il 720 a.C. gli Israeliti del Regno del Nord vengono deportati dagli Assiri in Mesopotamia (cfr 2 Re 17), e lo stesso destino tocca a Gerusalemme e a Giuda verso il 587 a.C. sotto i Babilonesi (cfr 2 Re 25). Coloro che non sono costretti ad andare a Babilonia fuggono in Egitto (cfr 2 Re 25,26): è l’anti-esodo, proibito da Dio (cfr Dt 17,16; Ger 42,13-19), ma già lasciato intravedere da Mosè (cfr Dt 28,68). La storia si conclude così. Il motivo della catastrofe è – secondo i deuteronomisti – la collera di Dio, in fin dei conti la colpa dei re e del popolo (cfr 2 Re 24,20). Già Mosè aveva predetto, nelle sue peggiori maledizioni, gli orrori dell’assedio e dello straniero (cfr Dt 28,48-68).
Nel discorso di Mosè, tuttavia, viene espressa anche la speranza per il futuro: «Quando tutte queste cose che io ti ho posto dinanzi, la benedizione e la maledizione, si saranno realizzate su di te e tu le richiamerai alla tua mente in mezzo a tutte le nazioni dove il Signore, tuo Dio, ti avrà disperso, se ti convertirai al Signore, tuo Dio, e obbedirai alla sua voce, tu e i tuoi figli, con tutto il cuore e con tutta l’anima, secondo quanto oggi io ti comando, allora il Signore, tuo Dio, cambierà la tua sorte, avrà pietà di te e ti raccoglierà di nuovo da tutti i popoli in mezzo ai quali il Signore, tuo Dio, ti aveva disperso. Quand’anche tu fossi disperso fino all’estremità del cielo, di là il Signore, tuo Dio, ti raccoglierà e di là ti riprenderà» (Dt 30,1-4). La scelta tra la vita e la morte dipende dall’obbedienza alla Torah (cfr Dt 30,15-20), che comunque è molto facile da osservare, perché è vicina al fedele, «nella tua bocca e nel tuo cuore» (Dt 30,14). La Torah, messa per iscritto da Mosè (cfr Dt 31,9), diventa, per quelli che vivono nella diaspora come pure per coloro che erano ritornati alla Terra promessa, la parola di vita mandata a memoria (cfr Dt 32,46).
Canti di lamentazione e libri di consolazione
Tuttavia il trauma per la distruzione di Gerusalemme non è stato dimenticato. «Lungo i fiumi di Babilonia, là sedevamo e piangevamo ricordandoci di Sion» (Sal 137,1). Le Lamentazioni illustrano dettagliatamente il dolore in poemi organizzati alfabeticamente dalla A alla Z. Esse culminano in una richiesta disperata: «Facci ritornare a te, Signore, e noi ritorneremo, rinnova i nostri giorni come in antico. Ci hai forse rigettati per sempre, e senza limite sei sdegnato contro di noi?» (Lam 5,21-22).
I grandi profeti sono stati segnati profondamente dall’esilio e dalla fuga. Ezechiele si ritrova tra gli esuli sull’Eufrate (cfr Ez 1,1-3). Geremia scompare tra coloro che fuggono in Egitto (cfr Ger 43-44). Il libro di Isaia è come se fosse diviso in due: tra l’annuncio dell’imminente esilio (cfr Is 39) e la predizione della sua fine (cfr Is 40) si spalanca un abisso. Un dolore inesprimibile ha fatto scaturire calde parole di consolazione, che richiamano di nuovo alla mente i temi dominanti dell’esodo. «Consolate, consolate il mio popolo – dice il vostro Dio. Parlate al cuore di Gerusalemme e gridatele che la sua tribolazione è compiuta […]. Una voce grida: “Nel deserto preparate la via al Signore, spianate nella steppa la strada per il nostro Dio”» (Is 40,1-3). L’esperienza della prigionia si trasforma in una chiamata alla libertà. «Io, il Signore, ti ho chiamato per la giustizia e ti ho preso per mano; ti ho formato e ti ho stabilito come alleanza del popolo e luce delle nazioni, perché tu apra gli occhi ai ciechi e faccia uscire dal carcere i prigionieri, dalla reclusione coloro che abitano nelle tenebre» (Is 42,6-7).
Geremia è colui che più inesorabilmente annuncia e sviluppa la catastrofe dell’esilio. Ma nella parte centrale della sua monumentale accusa contro Israele c’è un brano di consolazione (cfr Ger 30-31), variamente espresso in immagini maschili e femminili: «Ma tu non temere, Giacobbe, mio servo – oracolo del Signore –, non abbatterti, Israele, perché io libererò te dalla terra lontana, la tua discendenza dalla terra del suo esilio. Giacobbe ritornerà e avrà riposo, vivrà tranquillo e nessuno lo molesterà […]. Ti ho amato di amore eterno, per questo continuo a esserti fedele. Ti edificherò di nuovo e tu sarai riedificata, vergine d’Israele. Di nuovo prenderai i tuoi tamburelli e avanzerai danzando tra gente in festa» (Ger 30,10; 31,3-4). L’affermazione di Geremia del ritorno a casa culmina nella promessa della «nuova alleanza» (Ger 31,31), che ha conferito il suo nome al Nuovo Testamento.
«Le volpi hanno le loro tane… Andate e fate discepoli tutti i popoli»
La fuga d’Israele in Egitto e l’esodo riecheggiano nella primissima infanzia di Gesù di Nazaret, come ci viene narrato da Matteo (cfr Mt 2,13-21). Gesù stesso, quando inizia la sua missione, diventa irrequieto. È al Giordano – nel rift continentale, la rotta di transito del genere umano, dove Israele entrò nella Terra promessa – che Gesù riceve il battesimo (cfr Mt 3,13). Egli diviene un predicatore errante, non ha una tana come le volpi e non ha un nido come gli uccelli (cfr Mt 8,20; Lc 9,58). I suoi discepoli vanno in giro per il mondo con lui. Nel corso della sua vita egli li invia in villaggi e città della Palestina (cfr Mt 10; Lc 10). Dopo la sua risurrezione egli estende la sua missione al mondo intero: «Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli» (Mt 28,19).
Coloro che hanno intrapreso questo viaggio arrivano a conoscere tutti i pericoli della vita errabonda: la xenofobia, la rapina, il naufragio (cfr 2 Cor 11,25-27). La Chiesa primitiva prende l’avvio dai viaggi di missione, come ci narrano gli Atti degli Apostoli. Non a caso, i più antichi documenti del cristianesimo sono lettere: scritti scanditi dalle soste effettuate da Paolo, nati per sollecitudine nei confronti di coloro che sono rimasti indietro. L’ostinazione politicamente sovversiva dei cristiani, i quali rifiutavano di inchinarsi davanti alle statue degli imperatori romani, li rese nuovamente profughi. Per coloro che non fuggirono, i cristiani speravano in un ultimo viaggio: quello verso la Gerusalemme celeste (cfr Ap 21-22).
Siamo tutti dei migranti, con la Bibbia nel nostro bagaglio a mano
Proveniamo tutti dal continente africano. Gli esseri umani sono migranti per natura: a partire dalla Genesi, sono sempre stati in fuga. Adamo, cacciato dal Paradiso, rimane irrequieto, tormentato dal sudore e dall’ansia. La storia della diaspora ebraica e della missione cristiana si è incrociata con l’espansione islamica, con le carovane, le vie della seta, la colonizzazione, con la scoperta di nuovi mondi. La storia della religione è anch’essa inserita nella storia della mobilità dell’essere umano.
Quale enorme contrasto esiste tra la storia piena di speranza della liberazione dal mare dei Giunchi e la fuga attraverso il mar Mediterraneo, che è diventata un «racconto dell’orrore» dei nostri tempi! Il Mediterraneo, che fin dai tempi dei Fenici collegava Africa, Asia ed Europa in un’unica area culturale, e che consentì a Roma di diventare un impero mondiale su tre continenti, è diventato un fossato per la «Fortezza Europa». Il mito fondatore giudeo-cristiano ci rammenta il suo ethos fondamentale. Il mondo intero è affidato in custodia all’umanità nel suo complesso. Non abbiamo altra alternativa che coltivare insieme questo immenso tesoro.
Siamo sempre stati dei migranti sulla strada verso l’eternità. Siamo degli ospiti sulla Terra, e portiamo con noi, nel nostro bagaglio a mano, la Bibbia – la saggezza accumulata da millenni –, insieme ad altri grandi libri. Solo sulla nostra bocca e nel nostro cuore essa diventa la parola di vita. Il modo in cui noi viaggiamo e siamo ospiti, il modo in cui andiamo incontro ad altri migranti, mostra quale sia il nostro atteggiamento nei confronti della nostra misteriosa origine e destinazione.
[1]. Questo articolo è una versione leggermente modificata del nostro scritto «Flucht und Migration! Was sagt die Bibel dazu?», in Religion lehren und lernen in der Schule 17/2 (2017) 4-7.
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THE BIBLE: A LIBRARY WRITTEN BY MIGRANTS
The public opinion and governments position are confronted with the drama and the cyclically returning challenge of mass migrations; but a look at the history of humanity shows that we are all migrants. The Bible turns out indeed to be an infinite library of migrant stories written for a migrant people, the people of God, from Adam to Jesus and the apostles. The way we travel and are guests, the way we welcome other migrants, shows us what our attitude to humanity and our mysterious origins and destiny are.