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«Il Vangelo mi spaventa […]. Nessuno più di me amerebbe un’esistenza sicura e tranquilla […]. Niente di più dolce che scrutare il tesoro divino […]. Invece predicare, rimproverare, correggere, edificare, darsi da fare per ognuno è un gran peso, un grave fardello, una dura fatica. Chi non rifuggirà da questa fatica? Ma mi spaventa il Vangelo»1. Intorno all’anno 400, Agostino ripensa spregiudicatamente alla sua missione pastorale e conclude che la fatica di essere pastore è ardua e la responsabilità del Vangelo lo atterrisce. Il termine «fardello», in latino sarcina, ricorre spesso nei suoi scritti, quando l’anniversario della consacrazione lo provoca a riflettere sull’episcopato.
L’episcopato: un pesante fardello
Qualche anno dopo, questo pensiero ritorna: «La mia carica mi tormenta, da quando questo fardello [sarcina] mi è stato imposto sulle spalle»2. Il termine sarcina sembra essere particolarmente congeniale ad Agostino: esso indica la bisaccia che contiene il necessario per un viaggio, il bagaglio del pellegrino o lo zaino del soldato. Agostino precisa pure che quel fardello sono i fedeli: «Che cos’è questo mio fardello [sarcina] se non voi stessi?»3.
Non doveva essere facile il compito di vescovo in una città come Ippona, in Africa, all’inizio del V secolo: una città commerciale, nel cui porto sbarcava gente da ogni parte, dove si incontravano venditori e compratori, contadini dell’entroterra e personaggi illustri, cattolici e donatisti, un popolo religiosamente e socialmente diviso… Agostino è vescovo di questa città, un vescovo singolare e di eccezione. Per quanto paradossale questo possa sembrare, egli non ha mai amato l’episcopato, anche se lo ha accettato per obbedienza e lo ha esercitato con amore. Tuttavia, da quando è diventato vescovo, la sua vita si è radicalmente trasformata: ora la passione per i fedeli è la sua ragione di vita, ed egli prega il Signore che gli dia la forza di amarli fino all’eroismo, «o col martirio, o con l’affetto»4.
Di fronte a tali espressioni si rimane sorpresi. La sincerità e l’immediatezza di Agostino sono disarmanti. Come valutare queste affermazioni? Non è facile rispondere; e non è nemmeno semplice dire chi sia il «pastore» in Agostino. A differenza di altri Padri, egli non ha dedicato alcun trattato al sacerdozio o all’episcopato; e tuttavia, nelle opere e nelle omelie che documentano il suo rapporto quotidiano con i fedeli si trovano lunghi passi incentrati sulla sua missione. Alcuni ne parlano chiaramente, come il discorso De pastoribus, altri invece accennano solo marginalmente al ministero sacerdotale, ma non per questo sono meno suggestivi. I fedeli di Ippona non si aspettavano alcun trattato sull’episcopato, ma che egli parlasse e scrivesse da vescovo. Agostino lo ha fatto; e ci ha lasciato anche molte pagine introspettive dedicate al tema, alcune delle quali sono tra le più affascinanti da lui scritte5.
Il primo accenno
La prima opera in cui compare il significato dell’essere pastore è forse il libro delle Confessioni, redatto tra il 397 e il 401. Vi è una singolare richiesta al vescovo da parte dei fedeli, i quali desiderano conoscere «la confessione del suo intimo»6: ora che Agostino è pastore, data la sua vita passata, come può dominare le passioni? E come contrasta le tentazioni che sono inevitabili in ogni uomo?
Agostino accetta questa domanda imbarazzante, ma raccoglie pure lo spirito che vi è sotteso: esso rivela un rapporto umano, vivo, personale, confidenziale, forse anche indiscreto, tra i fedeli e il pastore. Certo, il rapporto è segnato non da una curiosità morbosa, bensì dallo Spirito di Dio. Perciò Agostino si chiede se la confessione sincera davanti a Dio non possa avere una qualche utilità per i suoi fratelli. Essa può renderli partecipi del suo itinerario interiore, dove il bene chiesto nella preghiera, nonostante la sua miseria, è divenuto realtà. In ogni caso, egli chiede ai fedeli comprensione e carità nei propri confronti.
La risposta rivela il cuore del vescovo. Siamo fatti per la felicità, siamo creati per amare: «Io amo te, Signore, bellezza così antica e così nuova. Tardi ti amai!»7. Poi il vescovo di Ippona acconsente al particolare che i fedeli desiderano, e parla delle passioni e dei piaceri passati: «Sopravvivono nella mia memoria […] le immagini di questi diletti, che vi ha impresso la consuetudine. Vi scorrazzano fievoli mentre sono desto; però durante il sonno non solo suscitano piaceri, ma addirittura consenso e qualcosa di simile all’atto stesso»8. Ma è diverso — continua Agostino — il tempo della veglia da quello del sonno, e lo distinguono la grazia e la misericordia del Signore, che donano pace e serenità. Al vescovo interessa la confessione di lode per il prodigio che è stato realizzato nella propria vita: una condivisione singolare che qualifica il suo essere pastore.
«Per voi sono vescovo, con voi sono cristiano»
Nel 410 circa, Agostino descrive positivamente la missione del vescovo nella Chiesa: «Se mi spaventa ciò che sono per voi, mi conforta ciò che sono con voi. Per voi sono vescovo, con voi sono cristiano»9. Non si tratta soltanto di una confidenza, ma di una confessione. Agostino ha citato Mt 11,30 («Il mio peso è leggero») e l’apostolo Paolo, Gal 6,2 («Portate i pesi gli uni degli altri: così adempirete la legge di Cristo»), e poi commenta: «Sorreggetemi comunque anche voi perché, secondo il precetto dell’Apostolo, portiamo a vicenda i nostri pesi e così adempiamo la legge di Cristo. Se lui non li porta con noi, veniamo meno; se non ci porta, cadiamo»10. Infine riassume: l’episcopato è il titolo di un incarico ricevuto, l’essere cristiano invece è una grazia; perciò quello è un pericolo, questo è la salvezza.
Il concetto ritorna nel De pastoribus: «Noi siamo insigniti di due dignità: […] la dignità di cristiani e quella dei vescovi. La prima, cioè l’essere cristiani, è per noi; l’altra, cioè l’essere vescovi, è per voi […]. Nel fatto di essere vescovi, ciò che conta è esclusivamente la vostra utilità»11. Agostino ne deduce che la sua disponibilità alla missione ricevuta ha il segno di una donazione totale: «Secondo il comandamento del Signore, m’impegnerò a essere vostro servo […]. Al servizio di tutti […]. Perché il Signore dei signori non disdegnò di farsi nostro servo»12. Ecco la missione del pastore: il servizio dei fedeli dietro l’esempio del Maestro. «Siamo capi e siamo servi: siamo capi, ma solo se siamo utili»13.
Il servizio umile è una preoccupazione costante di Agostino. «La cattedra di Cristo è in cielo, perché prima la sua croce fu sulla terra. Egli ci insegnò la via dell’umiltà, col discendere dal cielo per poi ascendere, col visitare chi giaceva in basso e col sollevare chi voleva essere unito a lui». Agostino termina: «Così deve essere il buon vescovo: se non sarà così, non sarà vescovo»14.
«Essere pastore»
Alcuni discorsi, come il 46 (De pastoribus) e il 47 (De ovibus), possono ben definirsi un trattato sul ministero sacerdotale15. Nella tradizione dell’Antico Testamento, l’immagine del pastore designa i capi di Israele e riunisce sia il tratto dell’autorità sia quello della vigilanza sul gregge; nel Nuovo Testamento essa è applicata a Pietro e ai presbiteri16, ma vi si aggiunge l’abnegazione totale al seguito di Cristo, che è il «vero» pastore che dà la vita per le sue pecore (Gv 10,11). Da lui Pietro e gli altri pastori ricevono il compito di pascere il gregge e di vigilare su di esso. In questa prospettiva, Agostino commenta il capitolo 34 di Ezechiele, in cui il profeta denuncia i cattivi pastori e li destituisce per lasciare il posto al Signore. Egli è il pastore che riunisce il gregge, lo guida ai pascoli e lo separa dai montoni e dalle capre turbolente.
Il tono movimentato di Ezechiele ben si presta, per Agostino, a un avvio vivace del discorso: i cattivi pastori pascolano se stessi e non le pecore, bevono il loro latte e si coprono della loro lana; non si curano del gregge e lo abbandonano, trascurano le pecore malate e quelle che si perdono, sono capaci perfino di ucciderle per se stessi17. Davanti a un comportamento così assurdo, Agostino cita l’esempio di Paolo, il quale, pur avendo il diritto di farsi mantenere dalla comunità, vi rinuncia in modo categorico e si mantiene con il lavoro delle proprie mani18.
I due discorsi sono rivolti ai donatisti, perché salvaguardino l’unità della Chiesa di Cristo: chi lacera la comunità è fuori della Chiesa e non può essere pastore; è piuttosto un lupo rapace travestito da pecora19.
Il «vero pastore»
Dai cattivi pastori si risale al vero pastore. Agostino riprende il comando dato da Gesù risorto a Pietro e ne deduce che il pastore non cura le proprie pecore, ma quelle del Signore, perché è lui il vero pastore, anzi il pastore dei pastori, pastor pastorum, e i molti pastori appartengono a lui20. «Nell’atto di affidare a Pietro, come a persona distinta, le proprie pecore, Cristo volle immedesimarlo con sé, sicché, consegnando a lui le pecore, il Signore restasse sempre il capo e Pietro rappresentasse il corpo, cioè la Chiesa, e tutt’e due, come lo sposo e la sposa, fossero due in una sola carne»21.
In Cristo quindi il pastore è chiamato a vigilare sul gregge affidatogli e a servirlo. Di per sé il termine «vescovo» etimologicamente significa «sovrintendente», chi vigila e provvede all’occorrenza22, ma la sua missione non è quella di dominare o di avere potere. Praeesse — per Agostino — significa prodesse: chi è il capo ha il compito di essere «servo di Cristo e, nel suo nome, servo dei suoi servi»23.
Il servizio del pastore è pascere il gregge e, dato che le pecore non sono sue, egli le pasce in Cristo, poiché è il Signore che le nutre. Quindi, quando egli le porta al pascolo, è Cristo stesso che le guida e le nutre24. Per Agostino, il nutrimento del gregge è la Parola di Dio; il Vangelo è il testo con cui sfamare, sostenere, confortare i fedeli: non dovrà essere mai un pretesto per camuffare la ricerca di un tornaconto personale. I pastori si aspettino dal Signore soltanto la ricompensa delle loro fatiche25. L’apostolo Paolo «non cercava il proprio vantaggio, ma quello di Gesù Cristo» (Fil 2,21). Di qui la preghiera: «Dio ci dia la forza di amarvi fino al punto di poter morire per voi sia con il nostro corpo sia con il nostro cuore»26. «Sia dunque impegno di amore pascere il gregge del Signore»27.
Ecco la radice da cui scaturisce la forza del servizio: l’amore del pastore. Agostino amava tutti, ma soprattutto i lontani e gli erranti, anche se loro non volevano essere amati: «Ebbene, sarò importuno quanto vi pare, ma con coraggio debbo dirvi: Tu vuoi camminare nell’errore e andare alla perdizione? Io non lo voglio»28.
L’amore del pastore è disinteressato, perché le pecore che gli sono state affidate e che cura con amore vanno condotte al Signore. Il suo ministero — sottolinea più volte Agostino — è per il perfezionamento dei credenti29. Proprio la dedizione al gregge distingue il pastore dai mercenari: costoro, quando arriva il pericolo, fuggono, perché non sono le loro pecore, e le lasciano in balìa del lupo.
La vita del pastore quindi deve essere un modello: perché egli imita il Signore, di modo che chi lo segue diventi a sua volta discepolo30. Come lui, il suo amore è umile, perché è consapevole che la salvezza viene da Cristo, ed è testimoniata dal suo essere cristiano, cioè dall’essere consacrato — in greco, «unto con il crisma» — al servizio di un così grande Signore31.
L’elezione del Signore
L’incarico di pastore non è dovuto alle doti o ai meriti personali, ma all’elezione del Signore. Perciò il vescovo è luce che illumina e dispensa la Parola di verità, il maestro che insegna, la sentinella che richiama al dovere e riconduce gli erranti. Egli ha il compito di indirizzare i fedeli a Cristo, che è la roccia su cui essi devono fondarsi e in cui riporre la loro speranza32.
L’elezione del Signore pone il pastore di fronte alle sue responsabilità: il gregge appartiene a colui che provvidamente pasce Israele, a Cristo che l’ha redento. Agostino è consapevole di dover rendere conto del proprio ministero al Pastore dei pastori. Le parole di Dio a Ezechiele lo fanno tremare, perché l’episcopato, prima di essere un onore, per lui è sarcina33.
«Ci sono pastori che amano essere chiamati pastori mentre si rifiutano di adempiere l’ufficio di pastori»34. Essi non sono pastori! E come ci sono i buoni, così ci sono anche i cattivi pastori, e questi purtroppo non mancheranno mai nella Chiesa. Il dottore di Ippona allora ricorda ai fedeli le loro responsabilità: «Qualunque sia il comportamento di chi vi sta a capo, cioè di noi, voi state sempre al sicuro per la sicurezza che vi ha donato il Pastore d’Israele. Dio non abbandona le sue pecore: sicché i cattivi pastori sconteranno le loro colpe, mentre le pecore conseguiranno i beni loro promessi»35.
Agostino fa una chiosa interessante sul «senso critico» che i fedeli devono avere nei confronti del vescovo. Essi riconoscono la voce del pastore e l’ascoltano; ma non devono in alcun modo appoggiarsi irresponsabilmente a lui, né dire: «Noi stiamo tranquilli, perché seguiamo i nostri vescovi […]. Di noi renderanno conto i nostri pastori!». Certo, i pastori renderanno conto rigorosamente al Signore di ciò che fanno, ma i fedeli devono ricordare la Parola del Signore: «Fate ciò che essi vi dicono, ma non ciò che loro stessi fanno»36.
L’annuncio del Vangelo
Il primo servizio del pastore è l’annuncio del Vangelo. Allo studio del testo sacro Agostino si è dedicato con uno sforzo continuo di approfondimento. Nelle Confessioni aveva espresso il desiderio di dedicarsi tutto alla Sacra Scrittura, «sua unica delizia»37. Divenuto sacerdote, per completare la propria formazione, egli si è immerso nello studio della Bibbia e dei Padri, ma per volere del vescovo ha esercitato subito il ministero della predicazione38. Una volta consacrato vescovo, il servizio della Parola è stato il suo principale dovere. In realtà, anche se ciò era ostacolato da altre mansioni pertinenti all’episcopato39, si può dire che l’intera vita di Agostino sia caratterizzata dalla predicazione: mediante la sua voce il Signore nutre le anime, fa gustare loro il tesoro e la ricchezza del Vangelo40.
Agostino lo aveva ricordato anche nelle Confessioni, dove l’attività pastorale è riassunta in due compiti principali: annunciare la Parola di Dio e dispensare il sacramento, verbum et sacramentum41. In queste pagine egli non si diffonde a spiegare la missione, perché è già nota ai lettori. Ma per non tacere quello che rappresenta gran parte della sua vita, si ferma a spiegare le prime pagine del libro della Genesi, che gli danno occasione di «confessare» a Dio e ai fratelli la sua scienza e la sua ignoranza, gli albori della sua illuminazione e i residui delle sue tenebre, la sua debolezza inghiottita dalla forza del Signore. E, per quanto ciò possa essere imbarazzante, lo fa con gioia, perché il servizio della Parola ai fratelli costituisce il primo dovere di un vescovo42.
Il pastore vero predica Cristo, non per un vantaggio personale, ma per la ricerca della verità. Se ciò che dice viene dal Signore, chiunque lo affermi, è il Signore che pasce, perché in lui si rivela la carità di Cristo43. I pastori parlino un unico linguaggio e non abbiano voci che siano discordanti44.
Il dottore di Ippona definisce la predicazione un servizio di cuore e di parola45, cioè un modo di comunicare svolto con il cuore e con sincerità, con affetto e con proprietà di linguaggio. Per lui l’annuncio della Parola è così importante da rinunciare perfino allo studio, che è la sua prima e vera passione. Quando predica al popolo, deve farsi comprendere: perché la predicazione non è un insegnamento formale, ma la condivisione della propria esperienza spirituale. Il pastore dispensi la sapienza della Parola di verità, spieghi la Scrittura a chi è lento a capire e così lo salverà: in lui sono presenti la voce e la carità di Cristo46.
Dal 420 in poi, Agostino matura sempre più la modalità di predicare il Vangelo adattando il proprio linguaggio alle capacità dell’interlocutore (il sermo humilis)47. Come al malato si dà una medicina a poco a poco, e come si mangia il pane a pezzetti, così egli annuncia il Vangelo, lasciandosi guidare dalla massima di Paolo: «La lettera uccide, lo Spirito invece dà vita» (2 Cor 3,6). Se non si commisura la Parola divina alle capacità reali di chi la riceve, si può far danno al fedele, si può perfino ucciderlo spiritualmente48.
Ancora una volta Agostino ribadisce la responsabilità dei pastori: «Se i predicatori per guadagnarsi il favore della moltitudine tacessero le severe esigenze del Vangelo, dicendo non le parole di Cristo, ma le proprie, sarebbero pastori che pascolano se stessi, non le pecore»49. Anche le verità più amare non vanno taciute, perché «se taccio, mi vedo esposto, non dico a un grande rischio, ma a una rovina senza rimedio»50.
Ci sono poi i pastori che non insegnano il Vangelo e che si astengono dal predicare, oppure che non vivono come dovrebbero. Agostino ricorda la tentazione della ricchezza, che genera anche l’avarizia, e quella della vanità, che rende perfino ridicoli. In tali circostanze, come ci si deve comportare? Qualora il pastore si rifiuti di insegnare o si comporti male, il fedele ascolti la voce del vero pastore, che è Cristo51. La speranza dei fedeli non si fonda sull’uomo, ma sul Signore52.
Il servizio dei sacramenti
C’è poi il servizio dei sacramenti, che ha il suo culmine nell’Eucaristia. Un cenno interessante, al termine delle Confessioni, ripercorre l’esperienza spirituale che ha condotto Agostino all’episcopato. Ritorna di nuovo il termine sarcina, questa volta riferito alle occupazioni che lo assorbono e lo trattengono quotidianamente53. E tuttavia c’è un rinvio alla positività di quel «fardello». Atterrito dalla propria peccaminosità, il vescovo accarezza l’idea di fuggire nel deserto per dedicarsi alla preghiera, lontano da tutti.
Il Signore però glielo impedisce, perché l’ha riscattato con il suo corpo e il suo sangue: quel corpo e sangue di cui Agostino stesso si nutre, e che ha l’incarico di donare ai fratelli nonostante la propria miseria. Poiché è Cristo che si dona per suo mezzo e si fa pane per dare vita, l’essere ministro dell’Eucaristia gli fa superare il timore e la coscienza di non esserne degno. Mentre compie il servizio episcopale e consacra l’Eucaristia, anch’egli, Agostino, desidera saziarsi di lui. Et manduco et bibo et erogo: mentre si nutre di Cristo, lo dona ai fedeli, esercitando così il ministero episcopale in comunione con quanti si nutrono e si saziano del Signore54.
Tra i compiti del pastore c’è quello di esercitare con dolcezza il ministero della misericordia55. Il Signore, il grande medico, è venuto a guarire il nostro orgoglio: «Come un medico egli manda i suoi assistenti a prestare le cure più semplici, […] a guarire la superbia»56. I pastori hanno il dovere di compiere il loro ufficio di misericordia con umiltà: «Bisogna riprendere gli inquieti, incoraggiare i timidi, confutare gli oppositori, guardarsi dagli insidiatori, istruire gli ignoranti, scuotere i pigri, calmare gli ostinati, reprimere gli orgogliosi, soccorrere i poveri, liberare gli oppressi, approvare i buoni, sopportare i cattivi, amare tutti»57.
Inoltre i pastori non devono risparmiare le pecore sbandate, ma nemmeno assecondarle, perché non si attacchino alle cose mondane e vuote. Infine, occorre sorreggere e rendere forti i deboli che soffrono nelle prove e nelle umiliazioni della vita, aiutarli a partecipare alla croce di Cristo; è importante anche adoperarsi per evitare liti e discordie58.
Il ministero di comunione e di amore
Agostino chiede spesso ai fedeli di pregare per lui. La richiesta è pressante soprattutto nelle omelie sul ministero sacerdotale. Il discorso Sui pastori esordisce con l’invito a pregare per il vescovo che sta iniziando l’omelia59. Se l’esortazione ritorna varie volte in altri discorsi60, è presente in modo insistente nell’anniversario della propria ordinazione episcopale61. È chiaro che il servizio pastorale non ha senso se privo di una vita di preghiera che ne sia la sorgente. Perciò Agostino di continuo si appella alla preghiera dei fedeli, perché il ministero sia fruttuoso. E cita anche l’apostolo Paolo, il quale desiderava ardentemente di essere raccomandato a Dio, perché gli aprisse la porta della Parola per annunciare il Vangelo. Perciò nella Lettera ai Colossesi scrive: «Perseverate nella preghiera e vegliate in essa, rendendo grazie. Pregate anche per noi»62.
A proposito della preghiera, il cardinale Michele Pellegrino, studioso attento e rigoroso delle opere di Agostino, nota il singolare rapporto che il vescovo di Ippona ha saputo instaurare con i fedeli: «Nella reciproca preghiera del pastore verso il gregge e del gregge per il pastore si celebra il trionfo della carità», che è la caratteristica essenziale del suo ministero episcopale63. La comunione con il Signore ha il segno della fraternità: pregando, ci si unisce al Signore, e quell’unione rinsalda i fedeli e li fa diventare amici e fratelli. Per questo egli ripropone il dovere che fonda la vita del vescovo: pregare per i suoi fedeli, averli sempre nel cuore64. E, senza citarla, egli riecheggia la Lettera ai Romani, dove per ben due volte Paolo afferma che il suo ministero consiste nella preghiera e nell’annuncio evangelico65.
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La santità del pastore
Le qualità del vescovo convergono in un punto luminoso: la santità del pastore66. La sua vita testimonia il Vangelo, in unione con il Signore Gesù, per avere «la forza di amare i fedeli fino al punto di poter morire per loro»67. Riecheggia la tensione spirituale che attraversa le Confessioni fin dalla prima pagina: «Il nostro cuore è inquieto: non ha posa finché non riposa in Te»68. Predicando per la consacrazione di un vescovo, Agostino ribadisce con vigore ciò che distingue il vero presbitero: non l’autorità, né il prestigio, e nemmeno i meriti personali, ma la ricerca appassionata della verità, l’umiltà più grande, una particolare dedizione al sacrificio, il fervore della preghiera; in una parola, la santità.
Nell’ambiente di Ippona, dove i donatisti si erano separati dalla grande Chiesa, la santità era un segno di comunione: essi ritenevano che lo stato di grazia del sacerdote fosse condizione necessaria per la validità di un sacramento, e perciò denunciavano i pastori indegni. Agostino rifiuta energicamente tale dottrina, perché il sacramento è efficace per opera di Cristo e non dipende dall’irreprensibilità di chi lo amministra. E tuttavia non rinuncia a proclamare che il vero sacerdote si qualifica per la santità. Al vescovo che viene ordinato egli ricorda le seduzioni del potere: i figli di Zebedeo che pretendono i primi posti, gli apostoli presi dalla smania di essere grandi; il vescovo è colui che ama, ma è servo com’è stato servo Cristo, è umile come il Signore Gesù, è cristiano come i suoi fedeli69. Se si guarda alla vocazione cristiana di ogni persona, tra lui e loro non ci sono differenze, perché il sacerdote è membro del gregge e, sotto la guida del vero pastore, è chiamato a vivere il Vangelo: «Per voi sono vescovo, con voi sono cristiano».
* * *
Ecco allora chi è il «pastore» per Agostino: il pastore è l’uomo di Dio e l’amico degli uomini. Il suo compito è guidare il gregge: un impegno di amore. Non solo perché dove maggiore è l’amore, minore è la fatica, ma perché i fedeli sono amati dal pastore come figli, e perciò lo riamano come padre70. Dunque un rapporto basato sull’amore reciproco, che è il fondamento di una Chiesa unita. Il vescovo poi conclude: «È nostro dovere amare tutti: Omnes amandi». La massima sintetizza la vita di Agostino «pastore».
Papa Francesco si è riferito varie volte al Discorso 46, De pastoribus, ricordando sia il profeta Ezechiele sia sant’Agostino: nell’omelia per la Messa crismale del Giovedì santo del 2013 ha esortato i pastori a essere secondo il cuore di Dio e ad «avere l’odore delle pecore». Ha menzionato spesso il documento finale di Aparecida (del 2007), il cui messaggio ai presbiteri «mira all’identità genuina di “pastore del popolo”, e non a quella adulterata di “chierico di Stato”»71.
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1. «Terret me Evangelium»:Agostino, s., Serm. 339,4; il discorso è stato pronunciato da Agostino verso il 400, nell’anniversario della sua ordinazione episcopale. I discorsi sono raccolti, con testo latino a fronte, nelle Opere di sant’Agostino. Nuova Biblioteca Agostiniana, a cura della Cattedra Agostiniana presso l’Augustinianum di Roma, diretta dal p. Agostino Trapé, Roma, Città Nuova, dal 1965 al 2013. In particolare, per i Discorsi,cfr i volumi 29-34.
2. Agostino, s., Serm. 340,1, dove «fardello» ricorre quattro volte nel primo paragrafo e dove si sottolinea la necessità dell’aiuto di Cristo per poterlo sostenere.
3. Ivi.
4. Traduciamo così il gioco di parole del Serm. 296,4-5: aut effectu, aut affectu.
5. Cfr A. Pincherle, Vita di sant’Agostino, Roma – Bari, Laterza, 1980, 238-250.
6. Agostino, s., Conf. X, 3,3-4.
7. Ivi, X, 27,38.
8. Ivi, X, 30,41.
9 . Id., Serm. 340,1. Si tratta di un altro anniversario della consacrazione episcopale.
10. Ivi.
11. Id., Serm. 46,2; il discorso risale al 409-410. La formula ritorna anche nel discorso seguente De ovibus, Serm. 47,2.
12. Id., Serm. 340,1.
13. Id., Serm. 340/A,3. Cfr M. Jourjon, «L’évêque et le peuple de Dieu selon saint Augustin», in Id., Saint Augustin parmi nous, Le Puy – Paris, Xavier Mappus, 1954, 157-162.
14. Agostino, s., Serm. 340/A,4.
15. Cfr Id., Sul Sacerdozio. Pagine scelte dai Discorsi, a cura di G. Ceriotti, Roma, Città nuova, 19932,121-180 e 181-230.
16. Cfr Gv 21,15-17; At 20,28-29; 1 Pt 5,2-3.
17. Cfr Agostino, s., Serm. 46,9.
18. Cfr 1 Cor 9,12-15; 2 Ts 3,8-9; i passi sono citati nel Serm. 46,3-7.
19. Cfr Agostino, s., Serm. 46,31.
20. Cfr Id., Serm. 138,5: Unum caput, unum corpus, unus Christus. Ergo et pastor pastorum, et pastores pastoris, et oves cum pastoribus sub pastore. Cfr Serm. 46,30; 47,20.
21. Id., Serm. 46,30.
22. Id., Enarr. in Ps. 126,3.
23. Id., Ep. 217.
24. Cfr Id., Serm. 47,10.12. 20; 46,9.30.
25. Cfr Id., Serm. 46,5-6.
26. Id., Serm. 296,4.5.
27. Id., In Io. Ev. tr. 123,5. Il testo prosegue: «Coloro che pascono le pecore di Cristo con l’intenzione di legarle a sé, non a Cristo, dimostrano di amare se stessi, non Cristo, spinti come sono dalla cupidigia di gloria o di potere o di guadagno, non dalla carità che ispira l’obbedienza, il desiderio di aiutare e di piacere a Dio».
28. Id., Serm. 46,14.
29. Cfr Id., Conf. XIII, 34,49.
30. Cfr Id., Serm. 47,12, con rinvio a 1 Cor 4,16.
31. Cfr Id., Serm. (Dolbeau) 10,2: Discorsi nuovi, in Nuova Biblioteca Agostiniana 35/1, Roma, Città Nuova, 2001, 184 s.
32. Cfr Id., Serm. 46,2.4. 20.10-11. La citazione è da 1 Cor 10,4. Nella Città di Dio Agostino spiega: «Solo i vescovi e i presbiteri sono considerati sacerdoti. A causa però dell’unzione sacramentale consideriamo tutti i fedeli unti del Signore» (De civ. Dei 20,10).
33. Id., Serm. 46,2; Ep. 86; cfr A. Trapé, Agostino. L’uomo, il pastore, il mistico, Roma, Città Nuova, 2001,169.
34. Agostino, s., Serm. 46,1.
35. Ivi, 2.
36. Cfr Mt 23,3; Agostino, s., Serm. 46,21. Nel commento al Vangelo di Giovanni, Agostino afferma che si può ascoltare la voce del pastore anche dalla bocca del mercenario (In Io. Ev. tr. 46,6).
37. Id., Conf. XI, 2,3.
38. Nell’uso africano, il compito della predicazione era dovere soprattutto del vescovo: cfr Id., Ep. 21.
39. Spettava al vescovo anche essere defensor civitatis, cioè dirimere le questioni civili, difendere i cittadini dalle pretese del fisco e dagli abusi curiali. Agostino non voleva avere a che fare con i pubblici poteri: il suo incarico era la predicazione della Parola di Dio che abbraccia, come tale, tutta la realtà umana, ma non è una forza di contrattazione a livello di potere (Agostino, s., Serm. 302,19; cfr V. Grossi, «Nota sulla dimensione agostiniana di un vescovo del tardoantico», in Greci Christi ministrantes. Studi di Letteratura cristiana antica in onore di Pietro Meloni, Cagliari, PFTS, 2013, 78-89).
40. Cfr Agostino, s., Serm. 46,2.23.27-30.
41. Id., Conf. XI, 2,2. Cfr M. Pellegrino, Verus sacerdos. Il sacerdozio nell’esperienza e nel pensiero di sant’Agostino, Fossano (Cn), Esperienze, 1965, 20; 50; 64.
42. Cfr Id., Conf. XI, 2,3.
43. Non occasione, sed veritate:Id., Serm. 137,9.11. L’espressione riprende Fil 1,18.
44. Cfr Id., Serm. 46,2.22.30.
45. Ministerium cordis et linguae nostrae: Id., Serm. 313/E,7.
46. Cfr Id., Serm. 46,5.13.10-11.30.
47. Cfr Id., De praed. sanct. 1,2. Il linguaggio di alcuni discorsi non è quello delle Confessioni o della Città di Dio (si veda un esempio nei Serm. 46 e 47 sopra citati).
48. Cfr V. Grossi, «Nota sulla modalità dell’evangelizzazione: indicazioni teologiche da S. Agostino», in Lateranum63 (1997) 555-568.
49. Agostino, s., Serm. 46,2.8.
50. Id., Serm. 17,2: il commento riguarda il Sal 49, ma si cita Ez 33,8-9. E Agostino conclude con le parole: «Non voglio essere salvo senza di voi».
51. Cfr Id., Serm. 46,20.
52. Cfr Id., Enarr. in Ps. 75,8.
53. Cfr Id., Conf. X, 40,65.
54. Cfr Sal 21,27; Agostino, s., Conf. X, 43,70.
55. Cfr Id., Serm. 340/A,4.
56. Ivi, 5.
57. Id., Serm. 340,1.
58. Cfr Id., Serm. 46,7.10.13.18.
59. Cfr Ivi, 2.14.
60. Cfr Id., Serm. 137,15,293; 152,1; 153,1; 163/B,2; 305/A,10; 313/E,7; 355,7; Id., Enarr. in Ps. 38,6; Id., Ep. 27,4 a Paolino.
61. «Mi sostengano le vostre preghiere»; «Pregate sinceramente per me»; «Aiutateci con la preghiera e l’obbedienza» (Id., Serm. 340,1).
62. Col 4,2-3. Cfr Agostino, s., Serm. 340,2.
63. Cfr M. Pellegrino, «S. Agostino pastore d’anime», in Recherches Augustiniennes 1 (1958) 338.
64. Cfr Agostino, s., Enarr. in Ps. 126,3.
65. Cfr Rm 1,9 e 15,16: Paolo ribadisce che l’apostolato è una «funzione cultuale», una liturgia in cui l’apostolo prega e offre gli uomini a Dio.
66. Cfr Agostino, s., Serm. 47,2; 46,23. Cfr M. Pellegrino, Verus sacerdos…, cit., 121-146.
67. Agostino, s., Serm. 296,5.
68. Id., Conf. I, 1,1.
69. Cfr Id., Serm. 340/A,1-5.
70. Cfr Id., Serm. 340,1.
71. Cfr Omelia del Santo Padre Francesco per la Messa del Crisma di Giovedì santo, 28 marzo 2013; «Quando i pastori diventano lupi», in Papa Francesco, Omelie del mattino nella Cappella della Domus Sanctae Marthae, Città del Vaticano, Libr. Ed. Vaticana, 2013, 159-161;«Un testo di J. M. Bergoglio: Pastori del popolo, non chierici di Stato», in Civ. Catt. 2013 IV 3-13. Si veda anche Papa Francesco, Evangelii gaudium, nn. 117, 125, 171.