FILM
a cura di V. FANTUZZI
Il tempo che ci rimane (Palestina – Francia 2009). Regista ElIA SULEIMAN. Interpreti principali: E. Suleiman, S. Bakri, S. Qudha Tanus, S. Bajjali, T. Qubti, Z. A. Hanna, A. Espanioli, B. Zidani, L. Mouammar.
Nazaret ieri e oggi. Sulla città attuale incombe la mole architettonica della basilica dell’Annunciazione. Nazaret è la città dove il regista Elia Suleiman, autore del film Il tempo che ci rimane, è nato nel 1960, figlio di palestinesi che, a differenza di tanti loro connazionali che hanno lasciato la propria terra a partire dal 1948, hanno deciso di rimanere nel luogo dove sono nati e cresciuti. Etichettati come «arabi israeliani», vivono da stranieri nella loro patria. Il film narra, per tappe successive, la storia di una famiglia, quella dello stesso Suleiman, il quale, nella parte finale della pellicola, interpreta il proprio ruolo da adulto, affidando ad altri lo stesso ruolo nelle parti in cui appare come bambino (Zuhair Abu Hanna) e come adolescente (Ayman Espanioli). La famiglia di Elia si compone di una madre, interpretata da Samar Qudha Tanus (nel decennio 1970-80) e da Shafika Bajjali (oggi) e di un padre, Fuad (Saleh Bakri), che nel film appare come il personaggio più consistente. Il materiale narrativo è ricavato dai diari di Fuad, scritti a partire da quando si è unito alla Resistenza nel 1948, e dalle lettere inviate dalla madre del regista ai familiari che furono costretti a lasciare il Paese.
La prima parte del film si svolge a Nazaret nel 1948, quando la regione fu occupata dai membri dell’Haganah (un’organizzazione paramilitare ebraica), e Fuad militò nella Resistenza. Nazaret, a dire il vero, non fu investita direttamente dai «colonizzatori». Ben Gurion, che guidava le operazioni militari da Tel Aviv, aveva ordinato di «scavalcare» la città di Maria e Giuseppe per non urtare la sensibilità dei cristiani sparsi in tutto il mondo. Diversa fu la sorte riservata ai villaggi della regione circostante. Ne furono rasi al suolo più di 500 con i bulldozer, per costruire al loro posto kibbutzim e moshavim secondo un piano predisposto e attuato con determinazione. Mentre i membri dell’Haganah erano stati addestrati come un esercito regolare dagli inglesi, la resistenza palestinese era composta da gente comune, priva di addestramento militare e sprovvista di mezzi adeguati.
La descrizione delle azioni di guerra è impostata secondo criteri che possono essere considerati antitetici rispetto a quelli sui quali si basano i film spettacolari di argomento bellico. Il regista ha voluto presentare il caos della guerra come una sorta di danza in cui la violenza è suggerita, ma non esibita. «La violenza di quel periodo è stata estrema — dice Suleiman —, ma il mio obiettivo era di alludervi, non di rappresentarla».
Alcune situazioni assurde danno luogo a vere e proprie gag degne di un Buster Keaton o di un Jacques Tati. È il caso di un soldato iracheno, venuto a dare man forte ai fratelli palestinesi, il quale non sa da che parte andare. Alcuni partigiani palestinesi, male in arnese, gettano a terra la kefiah e fuggono a gambe levate al primo segnale di pericolo. Gli israeliani che sopraggiungono indossano i foulard gettati dagli altri e, camuffati da palestinesi, catturano i nemici senza colpo ferire. Il lento saccheggio di una casa palestinese è visto da lontano con atroce ironia. Gli episodi successivi del film coincidono con tappe fondamentali nella vita di Elia, prima bambino e poi adolescente. Ai momenti di intimità familiare, rievocati con nostalgia, si avvicendano situazioni di pace non meno paradossali di quelle di guerra.
Il coro femminile di una scuola elementare per arabi israeliani, frequentata da Elia, vince un concorso cantando con entusiasmo inni in onore della nuova «patria». Elia è rimproverato dal preside per aver detto che l’America è un Paese imperialista e colonialista. Non è facile per Fuad e per i suoi vicini di casa abituarsi alle nuove condizioni di vita. Si giunge così, passo dopo passo, ai nostri giorni quando si vede un palestinese che esce di casa per buttare la spazzatura seguito dalla canna di un enorme carro armato che staziona nel vicino crocevia. Durante un viaggio disagiato da Nazaret a Ramallah, Suleiman immagina di scavalcare il muro di cemento, eretto fra i Territori occupati e lo Stato di Israele, con un balzo degno di un campione di salto con l’asta.
Come il precedente film di Suleiman, Intervento divino (cfr Civ. Catt. 2002 IV 634 s), anche questo è stato girato in economia. «Ogni giorno, quando arrivavo sul set — ricorda il regista —, il mio amico e partner Avi Kleinberger mi presentava la lista di quello che non eravamo riusciti ad avere, in modo da poterci adattare a quello che avevamo a disposizione. Ho dovuto fare pratica di sobrietà, imparare a ottenere il massimo con il minimo. È un’esperienza che travalica l’aspetto cinematografico e aiuta a diventare migliori. Sono stato co-stretto ad adottare un’attitudine monastica. È stata una lezione di vita, dalla quale ho imparato il vero senso della generosità. D’ora in avanti starò più attento alle piccole cose, a quei dettagli essenziali che, alla fine, sono quello che conta di più nel cinema e non soltanto nel cinema».