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Il bollettino della Sala Stampa della mattina di Pasqua era stato chiaro: «Il Papa non tiene l’omelia poiché alla Messa fa seguito la Benedizione “Urbi et Orbi” con il Messaggio pasquale». Francesco però ha deciso comunque di dire alcune parole. E lo ha fatto a braccio, lentamente, meditando i pensieri e le parole. Seguendo un percorso più simile a una confessione personale a tu per tu che a un’omelia davanti a una piazza gremita di fedeli.
«E anche noi, sassolini per terra, in questa terra di dolore, di tragedie, con la fede nel Cristo Risorto abbiamo un senso, in mezzo a tante calamità. Il senso di guardare oltre, il senso di dire: “Guarda, non c’è un muro; c’è un orizzonte, c’è la vita, c’è la gioia, c’è la croce con questa ambivalenza. Guarda avanti, non chiuderti. Tu, sassolino, hai un senso nella vita, perché sei un sassolino presso quel sasso, quella pietra che la malvagità del peccato ha scartato”. Cosa ci dice la Chiesa oggi davanti a tante tragedie? Questo, semplicemente. La pietra scartata non risulta veramente scartata. I sassolini che credono e si attaccano a quella pietra non sono scartati, hanno un senso e con questo sentimento la Chiesa ripete dal profondo del cuore: “Cristo è risorto”». Queste le parole di papa Francesco.
Il Papa: «Tu, sassolino, hai un senso nella vita»
Il Papa era provato e stava evidentemente meditando a voce alta su un mondo fratturato e ferito. Lo avrebbe detto dopo, nella benedizione «Urbi et Orbi», appunto, elencando le terre ferite. Ma lui in questa omelia ha preferito soffermarsi sul caso di un ragazzo che aveva sentito al telefono: «Ieri ho telefonato a un ragazzo con una malattia grave – un ragazzo colto, un ingegnere – e parlando, per dare un segno di fede, gli ho detto: “Non ci sono spiegazioni per quello che succede a te. Guarda Gesù in croce, Dio ha fatto questo col suo Figlio, e non c’è un’altra spiegazione”. E lui mi ha risposto: “Sì, ma ha domandato al Figlio e il Figlio ha detto di sì. A me non è stato chiesto se volevo questo”. Questo ci commuove, a nessuno di noi viene chiesto: “Ma sei contento con quello che accade nel mondo? Sei disposto a portare avanti questa croce?”. E la croce va avanti, e la fede in Gesù viene giù».
Raccogliendo questa esperienza personale, il Papa si mette dalla parte di quel ragazzo, veste i suoi panni. Non offre risposte facili. Offrire «un segno di fede» per lui significa dire: «Non ci sono spiegazioni per quello che succede a te». Ma aggiunge subito: «Guarda Gesù in croce». Davanti alla tragedia Francesco fa come Gesù con i discepoli di Emmaus: non si rifugia in formule, ma assume l’esperienza di chi gli sta davanti. Gli fa compagnia, cammina con lui. Assume la sua inquietudine e indica Cristo.
La sua fede fa dire al Papa solamente: «Fèrmati, Gesù è risorto!». Fèrmati! La fede nel Risorto, davanti alle tragedie personali e ai drammi del mondo, chiede ai nostri pensieri di fermarsi, perché Gesù, pietra scartata, è fonte di vita. C’è un senso, un al di là del sepolcro che rimbomba nel silenzio della morte. Francesco può dirlo solamente facendo scontrare due significati della parola «pietra»: la pietra del sepolcro è rimossa, e così la pietra scartata, che è Cristo morto, è diventata fondamenta di vita.
Nel suo parlare a braccio il Papa, visibilmente, appare compreso dall’immagine che ha appena usato e spontaneamente comincia a parlare di noi come di «sassolini per terra» che, pur in mezzo al dolore e alle calamità, abbiamo un senso: «Tu, sassolino, hai un senso nella vita», dice Francesco con candore evangelico. E il senso viene dall’essere attaccati alla pietra, alla roccia che è Cristo. Noi, sassolini attaccati alla roccia di Cristo, non abbiamo davanti «un muro», ma «un orizzonte».
Il Matto: «Questo sasso a qualcosa deve servire»
« – Io sono ignorante, ma ho letto qualche libro. Tu non ci crederai, ma tutto quello che c’è a questo mondo serve a qualcosa. Ecco, prendi quel sasso lì, per esempio.
– Quale?
– Questo… Uno qualunque… Be’, anche questo serve a qualcosa: anche questo sassetto.
– E a cosa serve?
– Serve… Ma che ne so io? Se lo sapessi, sai chi sarei?
– Chi?
– Il Padreterno, che sa tutto: quando nasci, quando muori. E chi può saperlo? No, non so a cosa serve questo sasso io, ma a qualcosa deve servire. Perché, se questo è inutile, allora è inutile tutto: anche le stelle. E anche tu, anche tu servi a qualcosa, con la tu’ testa di carciofo».
Sono queste le parole che il Matto – l’attore Richard Basehart – rivolge a Gelsomina – l’indimenticabile Giulietta Masina – nel film La strada di Federico Fellini[1].
La trama del film è nota: il girovago Zampanò, uomo forzuto e mangiafuoco che si esibisce nelle fiere di paese, aveva comprato, per diecimila lire, la mite Gelsomina, povera, bruttina e ignorante. La poveretta gli fa da serva, da cuoca e da amante. Il contrasto tra Gelsomina, sensibile e tesa al mistero, e Zampanò, emblema di violenza e brutalità, non potrebbe essere maggiore. Ma un giorno entra nella loro vita un funambolo e suonatore di violino, il Matto, appunto. In maniera ironica, leggera e simpatica, l’equilibrista si fa beffe di Zampanò, stuzzicandolo furbescamente. A Gelsomina insegna il valore della vita. L’irascibile Zampanò accidentalmente spaccherà la testa al Matto, lasciandolo morire in mezzo a un prato. Gelsomina impazzisce e Zampanò se ne va, abbandonandola al suo destino.
Anni dopo, tornando in quei luoghi, egli viene casualmente a sapere che Gelsomina è morta. E lui, ubriaco, in riva al mare comprende per la prima volta la propria piccolezza e solitudine e la grandezza dell’universo. E piange. Il terribile Zampanò scoppia in singhiozzi sulla spiaggia, davanti al mistero della natura e della vita, con un vagito che sembra annunciare una rinascita, una risurrezione.
«La strada», il film preferito da Francesco
Il Papa conosce bene la pellicola felliniana. Nell’intervista apparsa su La Civiltà Cattolica nel settembre 2013 aveva detto: «La strada di Fellini è il film che forse ho amato di più. Mi identifico con quel film, nel quale c’è un implicito riferimento a san Francesco»[2].
Ma il Papa ama in particolare proprio quella che potremmo chiamare la «filosofia del sassolino» professata dal Matto. Lo sappiamo perché, incontrando nel novembre del 2013 in Vaticano il regista argentino Pino Solanas, aveva citato questa celebre scena della pellicola felliniana. Quindi il Papa chiaramente intende indossare i panni del Matto, facendo ai fedeli il discorso del sassolino che il Matto ha fatto a Gelsomina, malinconica suonatrice di tromba, per redimerla dalla violenza di Zampanò. E il vero significato del film di Fellini è proprio in quella «predica notturna» – come è stata definita – del Matto a Gelsomina: qualunque essere vivente ha un senso ben preciso, e nessuna sofferenza è vana. Se non ha senso un sassolino, non ha senso niente[3].
Il Matto al di là del «clown»
Papa Francesco vuol fare il Matto, dunque. Del resto, in una sua omelia a Santa Marta, il 16 maggio 2013, aveva fatto riferimento alla follia per Dio, dicendo che «lo zelo apostolico ha qualcosa di pazzia, ma di pazzia spirituale, di sana pazzia. E Paolo aveva questa sana pazzia».
La persona che incarna questa pazzia è l’uomo di fede: «Noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani» (1 Cor 1,23), scrive Paolo. E ancora: «Ciò che nel mondo è stolto, Dio l’ha scelto per confondere i sapienti» (1 Cor 1,27) e «noi siamo stolti a causa di Cristo» (1 Cor 4,10)[4].
Il «folle di Dio» è il custode di un messaggio che porta con sé il senso della vita e della «terra di dolore». Il messaggio, in questo caso, è che il «sassolino» è «presso quel sasso» che è Cristo. C’è una solidarietà, un’appartenenza, una compagnia profonda tra il «sassolino» e il «sasso» – insieme pietra di scarto e roccia – che svela il senso e fa vivere.
Questo non toglie la domanda. È anzi proprio Francesco a sollevarla: «Come mai succedono tante disgrazie, malattie, traffico di persone, tratte di persone, guerre, distruzioni, mutilazioni, vendette, odio? Ma dov’è il Signore?». È pure il Papa a certificare tragicamente il «cuore chiuso dalla tristezza, la tristezza di una sconfitta». «Sono stanca di vivere. Che cosa ci faccio al mondo?», si chiede Gelsomina. E Francesco qui assume la voce di Gelsomina e la sua inquietudine. Non propone soluzioni e, anzi, compie una mesta litania, facendosi interprete non del predicatore di risposte, ma del poveraccio che si interroga e geme: «Pensiamo un po’, ognuno di noi pensi, ai problemi quotidiani, alle malattie che abbiamo vissuto o che qualcuno dei nostri parenti ha; pensiamo alle guerre, alle tragedie umane».
Ma proprio davanti a questa litania triste, il Papa annuncia, «semplicemente, con voce umile»: «Non so come va questo, ma sono sicuro che Cristo è risorto, e io ho scommesso su questo». L’annuncio della Risurrezione è dato in mezzo al naufragio proprio dal naufrago. E questo è il paradosso cristiano che Francesco incarna perfettamente indossando i panni del Matto.
Sin da Søren Kierkegaard la teologia ha già metabolizzato e previsto che il teologo possa essere considerato un clown. Ma questa metafora ha comunque un valore tragico, inquadrando il teologo come un pagliaccio che grida davvero «al fuoco!» per un vero incendio, provocando tuttavia solamente le risate fino alle lacrime degli astanti. Nessuno lo prende sul serio.
Con l’omelia pasquale a braccio di Francesco – che fa comunque riferimento a una figura circense – il clown cede il passo a un acrobata matto, che invece è assolutamente credibile e convincente. E in filigrana leggiamo la figura dell’indimenticabile principe Myškin, l’«idiota», tanto amato da Bergoglio nella sua bellezza e tragicità, e Don Chisciotte. E nel Matto felliniano tutto questo converge: convivono candore e tragedia, bellezza e umorismo.
Non il clown riesce a predicare il Vangelo, venendo ascoltato, ma il Matto, che fa della propria libertà dagli schemi e della caduta di ogni maschera la propria cifra.
Il Matto è un acrobata: il senso della vita è un rischio, come quello rappresentato dal filo teso in alto con il quale egli si confronta. Però è anche un sognatore, che non sa fare i conti con la violenza di Zampanò, eppure sa neutralizzarla. Ci vuole un matto per risvegliare in noi il senso del mistero. E la fede nella Risurrezione.
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[1]. L’opera è disponibile in molti formati. Fondamentale è leggere a questo punto l’intervista, apparsa sulla nostra rivista, al grande maestro del cinema: V. Fantuzzi, «Fellini “ai raggi X”», in Civ. Catt. 1990 I 58-71. Qui, proprio in riferimento alla sequenza citata, si parla di un «cristianesimo elementare» (p. 64).
[2]. A. Spadaro, «Intervista a Papa Francesco», in Civ. Catt. 2013 III 472. Successivamente il Papa aveva fatto implicito riferimento alla colonna sonora del film nel discorso ai partecipanti al Giubileo dello Spettacolo Viaggiante, il 16 giugno 2016.
[3]. Non è forse senza significato un retroscena, svelato di recente da p. Virgilio Fantuzzi, scrittore della nostra rivista: il dialogo tra Gelsomina e il Matto è stato messo a punto dal regista insieme a un gesuita, noto esperto di cinema, il p. Eugenio Bruno, durante un incontro presso la Residenza del Gesù, a Roma, in via degli Astalli. L’occasione di questa confidenza è stato il funerale di Gian Luigi Rondi, celebrato da p. Fantuzzi nella chiesa di Sant’Anselmo, sull’Aventino, il 24 settembre 2016.
[4]. Già l’allora padre Bergoglio lo aveva ricordato in un suo scritto, citando Le catechesi di San Cirillo di Gerusalemme. Cfr J. M. Bergoglio, Nel cuore di ogni padre. Alle radici della mia spiritualità, Milano, Rizzoli, 2014, 305. Più volte Bergoglio da Papa ha fatto appello alla «sana follia», mettendo anche in guardia dalla follia negativa che spinge l’uomo al male o allontana dagli altri. Parlando ai giornalisti durante il volo di ritorno da Rio de Janeiro, il 28 luglio 2013, sul tema della sicurezza ha detto: «Fare uno spazio di blindaggio tra il vescovo e il popolo è una pazzia, e io preferisco questa pazzia: fuori, e correre il rischio dell’altra pazzia. Preferisco questa pazzia: fuori. La vicinanza fa bene a tutti». Rievocando un episodio accaduto in Argentina, ha definito «pazzia» una condizione che ha spinto un uomo a un gesto di fede grande e disperata: una bimba di sette anni si era ammalata e i medici le avevano dato poche ore di vita; il papà, un elettricista, «uomo di fede», è «diventato come pazzo e in quella pazzia» ha preso un autobus per andare al Santuario mariano di Lujan, lontano settanta chilometri (cfr Omelia a Santa Marta, 20 maggio 2013.