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In occasione del cinquantesimo anniversario della Guerra dei sei giorni del 1967, combattuta tra lo Stato di Israele e i Paesi arabi limitrofi (Egitto, Siria e Giordania), è opportuno ripercorrere le vicende che hanno portato a quel conflitto, che ha modificato la storia moderna del Medio Oriente e sancito l’affermarsi di Israele come vera e propria potenza regionale. Questo fatto è stato vissuto nell’immaginario del mondo arabo come una sconfitta non soltanto militare, ma anche politica e culturale. A tale proposito si è anche parlato di «sindrome dell’infelicità araba»[1] e del rancore nei confronti dei sionisti e dei loro alleati occidentali.
Fino all’affermarsi del cosiddetto «Stato Islamico» (2014), la lotta contro il nemico sionista era stato uno dei punti centrali dei programmi dei movimenti dell’islamismo radicale e del terrorismo transnazionale (come al Qaeda). Con l’Isis questo elemento è passato in secondo piano. Ciò non significa, però, che sia cessato. Esso, infatti, può essere propagandisticamente riattivato in ogni momento dai movimenti radicali – come è avvenuto nel recente passato – per compattare le piazze arabe.
I precedenti della Guerra dei sei giorni
Nasser, all’apice della sua popolarità e del suo prestigio, si era fatto paladino della causa palestinese e difensore della «nazione» araba in funzione antioccidentale e antisraeliana. Secondo alcuni storici, quella che la dirigenza israeliana definì «Guerra dei sei giorni» – chiamata dagli arabi semplicemente «Guerra di giugno» – andrebbe compresa nel contesto delle manovre diplomatiche e militari di Nasser che facevano pensare alla preparazione di un conflitto armato.
Secondo lo storico israeliano Benny Morris, la guerra fu il risultato «di errori e fraintendimenti di entrambe le parti»[2]. Una settimana prima, il servizio segreto delle forze armate israeliane, nel suo esame della situazione strategica nazionale, aveva segnalato che «un conflitto nell’immediato futuro era altamente improbabile». Inoltre aveva affermato che per il momento non era interesse dell’Egitto intraprendere una guerra contro Israele, e che gli altri Paesi limitrofi, in particolare la Siria, non si sarebbero mossi senza l’aiuto massiccio dell’esercito egiziano[3]. E questo nonostante le iniziative egiziane contro Israele.
Il 13 maggio 1967 i sovietici informarono ufficialmente l’Egitto che Israele stava ammassando delle truppe in vista dell’invasione della Siria: si parlava di un contingente di 10-12 brigate, e del 17 maggio come probabile data dell’attacco. Lo stesso giorno il ministro della Difesa siriano, Hafiz al Asad, chiese all’Egitto di prendere misure di deterrenza nei confronti di Israele. Questi, che non aveva spostato truppe verso il confine e neppure mobilitato i riservisti, invitò l’ambasciatore sovietico a ispezionare la zona. Egli però declinò l’invito. Il capo di Stato maggiore egiziano Mohamed Fawzi fece un sopralluogo sul confine, e stilò poi una relazione, nella quale diceva: «Non ho trovato nessun dato concreto a sostegno delle informazioni ricevute. Al contrario, le fotografie aeree scattate dai ricognitori siriani non rivelavano alcuno spostamento di reparti dalla disposizione normale»[4].
Perché l’Unione Sovietica accese la miccia della contesa e, soprattutto, perché, nonostante la relazione informativa stilata da Fawzi, Nasser continuò i preparativi di guerra? Pare che il leader egiziano non volesse la guerra con Israele, e in ogni caso non in quel momento, in cui una parte del suo esercito era impegnato nel conflitto con lo Yemen (in appoggio alle forze repubblicane) al fine di contrastare l’espansione dell’Arabia Saudita nella regione.
Le dimostrazioni di forza del mese di maggio avevano, in realtà, un valore più propagandistico (interpretando i sentimenti anti-sionisti presenti nel mondo arabo) che strategico-militare. Nasser sperava che le pressioni internazionali, da una parte, e le minacce egiziane, dall’altra, avrebbero intimorito Israele e favorito una convergenza diplomatica, come era avvenuto nella crisi di Suez nel 1956[5]. Di fatto le cose andarono diversamente, perché sia l’Unione Sovietica sia gli Stati Uniti non erano intenzionati a entrare nel conflitto, sebbene Mosca facesse di tutto per «impelagare» Washington nel ginepraio mediorientale.
Il 14 maggio Nasser decretò lo stato di emergenza nazionale e ordinò l’assembramento di truppe nella penisola del Sinai. Le forze armate in assetto di guerra vennero fatte sfilare davanti all’ambasciata statunitense. Il 20 maggio Nasser chiese al segretario dell’Onu U Thant di ritirare le forze di interposizione presenti nel Sinai e a Gaza, cosa che egli fece immediatamente. La partenza dei caschi blu dall’Egitto fu interpretata dalla comunità internazionale come un segnale negativo. Gli israeliani pensavano, però, che sull’orlo del precipizio Nasser si sarebbe fermato.
La situazione si fece seria quando il 23 maggio Nasser annunciò la chiusura degli stretti di Tiran alle navi israeliane. Questi stretti mettevano in comunicazione, attraverso il golfo di Aqaba, il porto israeliano di Eilat con il Mar Rosso. Poiché essi si trovano davanti alle coste della penisola del Sinai, Nasser sosteneva che si trattava di acque territoriali egiziane, mentre gli israeliani dichiaravano che erano acque internazionali. Questa posizione era stata sostenuta già dal 1956 anche dagli Stati Uniti[6].
La reazione di Israele a questa decisione fu molto forte. Alla riunione dello Stato maggiore delle Forze di difesa israeliane (Idf), uno dei suoi capi affermò che in questo caso non si trattava di una questione di libertà di navigazione, ma della sopravvivenza stessa di Israele. «Se Israele non reagisce – disse –, perderà ogni credibilità, e l’Idf ogni potere di deterrenza; gli Stati arabi vedranno nella debolezza di Israele un’occasione per mettere in forse la sua sicurezza e la sua stessa sopravvivenza»[7].
Questa posizione era sostenuta da tutti i capi militari e politici del Paese. Gli Stati Uniti, pur avendo condannato la chiusura degli stretti, avevano comunicato a Israele la loro ferma opposizione ad ogni azione unilaterale da parte sua. Washington propose allora di formare una flotta internazionale per forzare il blocco egiziano, e quindi di portare la questione su un piano più generale. Ma per Israele il problema centrale non era questo.
Intanto Egitto e Siria stipularono un trattato di reciproca difesa, al quale il 31 maggio aderì anche il re di Giordania. Con esso il sovrano hashemita accettava che le sue forze armate passassero sotto il comando di un generale egiziano e che sul proprio territorio venissero dislocate truppe irachene e saudite.
I media mediorientali erano unanimemente orientati alla guerra, e le trasmissioni radiofoniche trasmettevano proclami bellicosi antisraeliani, richiamando tutti alla battaglia contro il «nemico sionista». Questo tipo di propaganda non lasciò indifferente la maggior parte della popolazione israeliana, che temeva di vivere un secondo Olocausto, e ciò spinse la classe dirigente e i militari ad agire. Il 1° giugno il capo del Governo, Levi Eshkol, per far fronte alla grave situazione, formò un nuovo Governo di coalizione nazionale, nominando ministro della Difesa il «falco» Moshe Dayan e come ministri senza portafoglio due esponenti dell’opposizione di destra, uno dei quali era Menachem Begin.
Il giorno successivo, in una riunione segreta tra lo Stato maggiore militare e il nuovo Governo, si optò per la guerra, ma senza fissare alcuna data precisa. Il 4 giugno il Governo autorizzò le forze armate a intervenire quando lo avessero ritenuto opportuno. Il capo del Governo, che fino a quel momento era rimasto esitante, si lasciò persuadere sulla necessità dell’attacco immediato da Meir Amit, direttore dell’agenzia di intelligence del Mossad, il quale, di ritorno da Washington, affermava che l’amministrazione statunitense avrebbe appoggiato qualsiasi operazione militare che avesse «disarcionato Nasser». I servizi segreti statunitensi, infatti, erano convinti che l’esercito israeliano sarebbe stato in grado di sconfiggere in breve tempo quello della coalizione araba. Sembra che il presidente Lyndon B. Johnson, in un primo tempo contrario alla guerra, si fosse lasciato convincere sull’opportunità dell’attacco da alcuni amici e consiglieri ebrei durante un fine settimana (31 maggio) trascorso nel suo ranch texano[8].
La Guerra dei sei giorni
Il 5 giugno mattina i caccia israeliani, con un attacco preventivo, colpirono a terra l’80% dell’aviazione da guerra egiziana, successivamente il 70% di quella siriana e quasi integralmente quella giordana. Dopo il blitz aereo ci fu l’offensiva di terra, diretta sulla Striscia di Gaza e sul Sinai[9]. L’Egitto si trovò così a combattere contro il «nemico sionista» – che seppe sapientemente coordinare gli attacchi di terra con la potente copertura aerea – con i soli mezzi corazzati disponibili.
Il 7 giugno, nel cuore della penisola del Sinai si ebbe lo scontro diretto tra i due eserciti: dopo la Seconda guerra mondiale, questa è stata la più grande battaglia di mezzi blindati (più di mille carri armati per ciascuna parte). L’indomani, l’esercito israeliano[10] raggiunse Suez e si impadronì di Sharm El Sheikh, e nello stesso tempo occupò Gaza. La mattina del 9 giugno tutto il Sinai era caduto nelle mani degli israeliani[11].
Uno dei punti di forza della strategia israeliana era che il comandante in capo dell’Idf, Moshe Dayan, aveva fatto di tutto per tenere ben distinti i diversi fronti di guerra, cioè quello egiziano, quello giordano e quello siriano. E così di fatto avvenne. Re Hussein si impegnò a fondo per difendere la Cisgiordania, e in particolare Gerusalemme Est. La battaglia di Gerusalemme fu certamente tra le più difficili per gli israeliani. Essi combatterono casa per casa, impegnando molti uomini, e senza la copertura aerea, per non distruggere la città antica. La sera del 7 giugno Gerusalemme Est era stata interamente conquistata. Il giorno successivo l’amministrazione ebraica della parte Ovest della città venne estesa anche a Gerusalemme Est, dando così luogo alla sua annessione di fatto.
Il fronte siriano rimaneva ancora aperto. Esso in realtà era quello più delicato, perché la Siria era considerata alleata di Mosca. Secondo alcuni studiosi, infatti, c’era il pericolo che un attacco alle Alture del Golan potesse scatenare una guerra ben più ampia e impegnativa. Dayan, nonostante questo rischio, di propria iniziativa (e sulla base degli ampi poteri conferitigli dal Governo), il 9 giugno iniziò i combattimenti sul Golan. Va ricordato che dal 1948 i siriani da quelle Alture lanciavano ogni tanto razzi contro Israele, mantenendo così sempre alta l’ostilità tra i due Paesi. Occupando le Alture, si voleva far cessare «lo stillicidio dei bombardamenti e ottenere così il controllo totale della più importante riserva idrica del Paese, cioè il lago di Tiberiade»[12].
Il 10 giugno il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite intimò alle parti in lotta il cessate il fuoco, che divenne praticamente operativo soltanto due giorni dopo, quando l’esercito israeliano aveva ormai conquistato le Alture del Golan.
In sei giorni, quindi, l’esercito israeliano aveva conquistato manu militari la penisola del Sinai e la Striscia di Gaza (appartenenti all’Egitto), nonché le Alture del Golan (appartenenti alla Siria) e l’intera Cisgiordania e Gerusalemme Est (appartenenti alla Giordania), aumentando di tre volte e mezzo l’estensione del Paese. La guerra aveva provocato una nuova ondata di profughi (circa 300.000), che si riversarono nei Paesi arabi limitrofi, andando così ad aggiungersi a quelli (500.000) della guerra del 1948[13]. Non è chiaro quanti fra quelli che abbandonarono il Paese furono minacciati dai soldati israeliani e quanti invece se ne andarono spontaneamente o per paura dei combattimenti. «Alcuni indizi suggeriscono – scrive Morris – che soldati israeliani muniti di megafono abbiano obbligato i residenti palestinesi a lasciare la Cisgiordania»[14].
La Guerra dei sei giorni, iniziata con un sorprendente blitz aereo e terminata in un lasso di tempo molto breve, dal punto di vista militare fu una grande vittoria per Israele, che divenne la maggiore potenza militare della regione. Ma, dal punto di vista politico, allora iniziarono per il giovane Stato i problemi legati alla difficile gestione del dopoguerra. Infatti un milione di palestinesi, che abitavano in Cisgiordania e a Gerusalemme Est, dall’oggi al domani si ritrovarono sotto occupazione militare, e Israele scoprì, come conseguenza della guerra, di essere la nazione mediorientale con il più alto numero di palestinesi al suo interno.
La guerra ebbe conseguenze disastrose nel mondo arabo. Segnò la fine della parabola nasseriana (il leaderegiziano chiese di abbandonare tutti gli incarichi pubblici, anche se le folle lo costrinsero a rimanere ancora al potere) e del cosiddetto «socialismo panarabo», che aveva caratterizzato gli anni Cinquanta e Sessanta[15]. Dopo la guerra si diffuse nel mondo arabo un senso di frustrazione e di impotenza che ebbe ricadute notevoli in ambito politico e sociale[16].
La Guerra dei sei giorni fu una sconfitta anche per l’Unione Sovietica che, dopo aver acceso la miccia del conflitto, non era intervenuta per sostenere i propri alleati. In realtà essa appoggiò gli arabi più per la logica di opposizione all’avversario (in quanto Israele era considerato alleato degli Usa) che per convinzione ideologica[17]. A partire da quel momento Mosca perse per molto tempo ogni tipo di influenza politica all’interno del mondo arabo. Gli Stati Uniti, che a quanto pare avevano incoraggiato Israele (senza però aiutarlo militarmente), dopo la guerra decisero di sostenerlo in ambito internazionale, e negli anni successivi finanziarono il suo riarmo in funzione anti-araba.
La Guerra dei sei giorni cambiò radicalmente la natura stessa dei rapporti tra arabi e israeliani. In precedenza la questione di fondo era stata l’esistenza stessa di Israele come entità statale, che Nasser aveva definito «un insanabile scandalo»; dopo la guerra le posizioni si capovolsero e la posta in gioco fu la restituzione dei territori occupati dagli eserciti israeliani. Il che, come è stato ricordato, divenne un vero problema per Israele, che era disposto a ritirarsi, tramite accordi di pace, dal Sinai, dalle Alture del Golan e dalla Cisgiordania, ma non da Gerusalemme Est, nella quale si trova il Muro del Pianto, il centro religioso del mondo ebraico. Dayan, contro il parere di molti rabbini, assicurò ai musulmani l’accesso alla Spianata delle moschee e volle che Gerusalemme rimanesse aperta a tutti i credenti delle grandi religioni monoteiste, che in quel luogo avevano i loro principali luoghi di culto.
Per quanto riguarda la Cisgiordania, Israele propose a re Hussein un progetto di spartizione, conosciuto come il «piano Allon». Questo prevedeva la cessione di gran parte del territorio conquistato alla Giordania, mentre Israele avrebbe tenuto il controllo soltanto di una fascia di terra lungo la valle del Giordano. Prevedeva, inoltre, che in Giordania fossero create colonie ebraiche per motivi di sicurezza. In questo modo Israele si sarebbe «liberato» di gran parte della popolazione palestinese che viveva nella regione e che, a suo avviso, sarebbe stata fonte di instabilità.
Il progetto, che fu di volta in volta aggiornato, da parte israeliana rimase in vigore fino al 1977; «segnò l’inizio di quel processo di colonizzazione dei Territori occupati, e divenne uno degli ostacoli più duri alla pace tra israeliani e palestinesi»[18].
La risoluzione dell’Onu n. 242 del 1967
La comunità internazionale intervenne subito per risolvere la difficile situazione che si era creata in seguito alla guerra e che vedeva schierati su fronti opposti arabi e israeliani. La risoluzione del Consiglio di Sicurezza n. 242 del 22 settembre 1967 fissò princìpi chiari, in linea con il diritto internazionale, anche se poi essi vennero interpretati in modo differente dalle varie parti. La redazione del testo fu affidata all’ambasciatore inglese all’Onu, Lord Caradon[19].
Il testo, nella parte generale, ribadiva «l’inammissibilità dell’acquisizione di territori mediante la guerra e l’esigenza di operare per una pace giusta e duratura», affinché tutti gli Stati dell’area potessero vivere in sicurezza. Nella parte dispositiva, fissava due princìpi: da un lato, imponeva a Israele «il ritiro delle forze armate dai territori occupati»; dall’altro, chiedeva il «riconoscimento della sovranità, dell’integrità territoriale e dell’indipendenza politica di tutti gli Stati dell’area e del loro diritto a vivere in pace entro confini certi e riconosciuti».
Israeliani, egiziani e giordani accettarono subito la risoluzione dell’Onu, mentre la Siria la accolse soltanto nel 1973. I palestinesi dell’Olp, invece, non l’accettarono, in quanto essa non li considerava come parte in causa: la risoluzione trattava di loro soltanto nella parte che riguardava i diritti dei profughi; in ogni caso, non riconosceva l’Organizzazione come portavoce del popolo palestinese. Soltanto con l’accordo di Oslo del 1993 (che riconosceva i diritti nazionali dei palestinesi) l’Olp di Arafat accettò integralmente la risoluzione dell’Onu del 1967[20].
Nell’agosto del 1967 gli Stati arabi si riunirono a Khartum, in Sudan, per negoziare una soluzione unitaria. In quella sede i capi arabi optarono per i famosi tre «no»: no a negoziati con il vincitore del conflitto; no al riconoscimento dello Stato israeliano; no alla pace con Israele. Ma, secondo alcuni studiosi, la posizione che essi assunsero era meno intransigente di quanto potesse apparire. Gli Stati arabi furono d’accordo sull’unificare gli sforzi per «eliminare gli effetti dell’aggressione», e non, come in passato, per sopprimere Israele.
I loro capi, inoltre, convennero di non negoziare con Israele, ma di avviare negoziati per altra via. Cosa che di fatto avvenne in base al cosiddetto «modello Rodi»[21], cioè ricorrendo alla mediazione delle grandi superpotenze. Ora, poiché l’Unione Sovietica non aveva rapporti diplomatici con Israele, di fatto soltanto gli Stati Uniti per decenni hanno avuto il ruolo di mediatori riconosciuti tra le due parti. Ciò ha accresciuto considerevolmente il peso e il prestigio politico degli Usa in tutta la regione mediorientale, rendendoli in qualche modo arbitri della situazione.
La Guerra dei sei giorni ebbe anche importanti conseguenze in ambito culturale e religioso. Secondo molti imam, la sconfitta degli eserciti arabi fu dovuta non tanto a motivi militari quanto a motivi religiosi: essa rappresentava una punizione di Dio perché lo Stato si era secolarizzato, nonché per l’apostasia dei suoi governanti, in particolare Nasser, che aveva fatto imprigionare molti Fratelli musulmani, fautori di un islam politico e sociale.
Intanto gli scritti di Sayyid Qutb, che era stato impiccato nel 1966, iniziarono a circolare dopo la guerra, ponendo le basi ideologiche del cosiddetto «islamismo radicale», che predicava il jihad contro l’Occidente. L’islamismo degli anni Settanta può essere certamente considerato come un frutto avvelenato di questo conflitto. «Caduti i miti del liberalismo – scrive Campanini –, del socialismo e del nazionalismo arabo, molti sentirono che l’autentica alternativa era l’islam, e alcuni decisero di vivere questa alternativa in modo radicale, addirittura violento»[22].
Nello stesso periodo, anche in Israele iniziò ad affermarsi, soprattutto per opera dei rabbini, un tipo di fondamentalismo ebraico che, basandosi sulla cosiddetta «teologia della terra», sosteneva che non erano state le armate dell’Idf a conquistare i Territori, ma che Dio stesso li aveva liberati per il popolo eletto, e che quindi essi non dovevano essere in nessun modo restituiti ai palestinesi. Questa posizione, fatta propria dai partiti religiosi, e in parte anche dal Likud (oggi partito di Governo), ebbe un ruolo fondamentale nel contrastare il principio «terra in cambio di pace», proposto per lungo tempo dalla dirigenza israeliana (di sinistra) per risolvere la difficile questione.
Questo principio fu posto alla base degli accordi di Oslo del 1993, che, sebbene in parte siano falliti, hanno rappresentato il tentativo più serio di riportare la pace nel conflitto israelo-palestinese. Ma tale argomento non rientra nell’oggetto di questo studio.
Conclusione
La Guerra dei sei giorni ha dato origine a tre tipi di problemi, che per decenni hanno avvelenato i rapporti tra israeliani e palestinesi: quello degli insediamenti ebraici in Cisgiordania; quello dei profughi palestinesi accolti nei Paesi arabi limitrofi (ai quali fu promesso in diverse occasioni il ritorno in patria); e quello di Gerusalemme («unita e indivisa»), dichiarata nel 1980 dal Parlamento di Israele (Knesset) «capitale eterna di Israele».
A cinquant’anni dalla guerra, tali questioni, che per decenni sono state oggetto di contesa, di lotta e di accordi internazionali, sono ancora aperte, anzi sul piano politico sembrano tuttora irrisolvibili. Fatto sta che i coloni israeliani, in questi cinquant’anni, hanno allargato i loro insediamenti con il consenso ora implicito ora esplicito dei vari Governi che si sono succeduti.
Su questa «rampante annessione» veglia l’esercito, che ha spesso il doppio ruolo di protettore e di complice. Il 7 febbraio 2017 laKnesset si è pronunciata in favore di una legge retroattiva che espropria legalmente migliaia di proprietà private palestinesi. Qualcuno ha giustificato tale iniziativa dicendo che la Corte Suprema avrebbe poi, come in passato, annullato questa decisione come anticostituzionale. Intanto la dirigenza israeliana intendeva dare un segnale politico chiaro in direzione dell’annessione delle proprietà già occupate.
Va sottolineato che questa decisione è stata resa possibile anche dall’elezione, come nuovo Presidente degli Stati Uniti, di Trump che, nel corso della campagna elettorale, si era pronunciato a favore degli israeliani[23]. Egli aveva anche annunciato di voler trasferire l’ambasciata statunitense da Tel Aviv a Gerusalemme, città ancora contesa tra israeliani e palestinesi. Ora, se Trump dovesse dare corso a tale progetto, questa decisione rinfocolerebbe in un colpo solo due conflitti, cioè quello arabo-israeliano e quello israelo-palestinese, con il rischio di conseguenze imprevedibili.
Oggi la Cisgiordania, sulla base degli accordi di Oslo, è divisa in tre zone: quella «A», che è sotto il controllo palestinese e dove si trovano le città più importanti e popolose come Ramallah e Gaza; quella «B», sottoposta a un controllo misto; e quella «C», che è la più estesa (comprende i due terzi dell’intero territorio) e nella quale è concentrata gran parte delle colonie. In questa zona vivono circa mezzo milione di coloni israeliani (altri 200.000 vivono a Gerusalemme), mentre i residenti palestinesi sono soltanto 100.000.
Secondo lo scrittore Abraham Yehoshua, il Governo israeliano dovrebbe concedere i diritti politici e civili ai palestinesi che vivono in questa zona, che peraltro sono svantaggiati rispetto ai loro connazionali che abitano nelle zone «A» e «B», dovendo subire quotidianamente le prepotenze della maggioranza israeliana. Questa proposta presenta però molti rischi sotto il profilo politico[24]: in pratica, infatti, si adotterebbe la «soluzione binazionale» (con israeliani, che per il momento sono la maggioranza, e palestinesi, che convivono in uno stesso Stato nazionale con uguali diritti e doveri) in luogo di quella dei «due Stati» indipendenti e sovrani, come – in osservanza della risoluzione dell’Onu del 1947 sulla spartizione della Palestina – è stato sempre richiesto dalla comunità internazionale.
Oggi però la situazione politica mediorientale è molto cambiata. Israele non è più isolato in Medio Oriente come lo era dopo la Guerra dei sei giorni: infatti, ha dalla sua parte l’Arabia Saudita, con la quale non ha rapporti diplomatici, anche se entrambi i Paesi sono alleati degli Stati Uniti. La contrapposizione tra mondo sunnita e mondo sciita, per conquistare la leadership del mondo islamico, ha cambiato gli schieramenti in lotta: Israele e Arabia Saudita condividono lo stesso nemico regionale, cioè l’Iran degli ayatollah[25].
Questo avvicinamento tra Israele e il mondo sunnita, secondo alcuni osservatori, potrebbe favorire la soluzione della questione israelo-palestinese. Secondo fonti non ufficiali, l’Arabia Saudita infatti starebbe spingendo per la soluzione dei «due Stati» che, se divenisse effettiva, «toglierebbe all’Iran – ha dichiarato un funzionario vicino ai Sa’ud – qualunque pretesto per fornire aiuti economici ai gruppi terroristici della regione»[26], in particolare agli hezbollah. Questi ultimi, foraggiati fino a poco tempo fa dalle ricche monarchie del Golfo, sono tra i vincitori nella lotta contro lo Stato Islamico e contro l’Isis.
Insomma, la situazione è più complessa di quanto alle volte appaia e la risoluzione del conflitto israelo-palestinese, soprattutto a motivo degli insediamenti nei Territori, sembra purtroppo sempre più difficile da raggiungere in sede negoziale.
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[1]. Cfr S. Kassir, L’infelicità araba, Torino, Einaudi, 2006, 48 s.
[2]. B. Morris, Vittime. Storia del conflitto arabo-sionista 1881-2001, Milano, Rizzoli, 2003, 382.
[3]. Di fatto, i rapporti tra Siria e Israele si fecero sempre più tesi, anche a motivo della recrudescenza, a partire dal 1965, degli attentati terroristici contro obiettivi israeliani. In varie occasioni missili siriani vennero lanciati dalle Alture del Golan verso il territorio di Israele, che rispondeva con azioni di ritorsione soprattutto nei confronti della Giordania. Il 7 aprile 1967, nel corso di una breve battaglia aerea sul lago di Tiberiade, l’aviazione israeliana abbatté sei Mig 21 siriani. La Russia accusò Israele di voler colpire il regime filosovietico di Damasco, mentre l’Egitto, strategicamente, non intervenne, e questo fatto non fu certo gradito dai Paesi coinvolti nel conflitto. Diverse circostanze spinsero subito dopo Nasser ad agire con forza nei confronti dei «sionisti», al fine di riaffermare la sua leadership sul mondo arabo.
[4]. B. Morris, Vittime…, cit., 415.
[5]. Cfr M. Campanini, Storia del Medio Oriente 1798-2005,Bologna, il Mulino, 2006, 146.
[6]. Cfr J. L. Gelvin, Il conflitto israelo-palestinese. Cent’anni di guerra,Torino, Einaudi, 2007, 222.
[7]. B. Morris, Vittime…,cit., 382.
[8]. Cfr ivi, 393.
[9]. Intorno alle 7,30 della mattina 183 caccia israeliani si alzarono in volo e si diressero verso il Mediterraneo; dopo 18 minuti di volo, facendo una inversione a U, volarono il più basso possibile per non essere intercettati dai radar egiziani, prendendo di mira 11 basi aeree egiziane. Furono bombardate innanzitutto le piste di atterraggio, rendendole inutilizzabili; subito dopo furono colpiti i Mig allineati sulle piste o ancora chiusi negli hangar, distruggendone 189, più 8 in scontri aerei. La seconda ondata, che partì qualche ora dopo, ne distrusse altri 107. In tutto furono colpiti 304 aerei da guerra egiziani, su un totale di 419, mentre l’Idf ne perse soltanto 9. La terza ondata, intorno alle 12,45, attaccò la Siria, la Giordania e l’Iraq, i cui aerei avevano iniziato a colpire obiettivi israeliani. L’intera aviazione di guerra giordana fu distrutta (28 caccia): mentre di quella siriana ne fu colpita la metà (53 caccia). Verso le 11,00, Ezer Weizman, capo delle operazioni dello Stato maggiore, telefonò alla moglie e le disse: «Abbiamo vinto la guerra». Cfr ivi, 402.
[10]. L’esercito israeliano (Idf) comprendeva circa 250.000 uomini, dei quali tre quarti erano riservisti e un quarto coscritti. Gli eserciti arabi (formati da professionisti) erano di gran lunga più numerosi, ma con uno scarso livello di addestramento e di meccanizzazione. Tra i due schieramenti, secondo Morris, c’era un’indiscutibile differenza di motivazione: mentre i soldati arabi combattevano per il loro Paese contro Israele, quelli israeliani combattevano non solo per la sopravvivenza dello Stato, ma anche per quella delle loro famiglie e di ciò che avevano di più caro. Cfr ivi, 393.
[11]. Cfr E. Barnavi, Storia d’ Israele. Dalla nascita dello Stato all’assassinio di Rabin,Milano, Bompiani, 2002, 183.
[12]. M. Emiliani, Medio Oriente. Una storia dal 1918 al 1991,Bari – Roma, Laterza, 2012, 172.
[13]. Cfr I. Pappé, La pulizia etnica della Palestina, Roma, Fazi, 2008, 227.
[14]. B. Morris, Vittime…,cit., 451.
[15]. Cfr A. Gresh, Israele, Palestina. Le verità su un conflitto,Torino, Einaudi, 2004, 85.
[16]. Al fine di riconquistare i territori perduti nella Guerra dei sei giorni, l’Egitto e la Siria nel 1973, in occasione della festa ebraica dello Yom Kippur, lanciarono contro Israele un attacco congiunto (6-25 ottobre) dal Sinai e dalle Alture del Golan. Dopo i primi successi la situazione volse a favore dell’esercito israeliano, colto di sorpresa dall’attacco e numericamente inferiore. In ogni caso, l’Egitto riuscì a riprendere il controllo del canale di Suez, il che non era poca cosa. Gli accordi di Camp David del 1978 portarono in seguito alla normalizzazione dei rapporti tra Israele ed Egitto. L’Egitto è stata la prima nazione araba a riconoscere l’esistenza dello Stato israeliano.
[17]. Cfr M. Campanini, Storia del Medio Oriente 1798-2005,cit., 151.
[18]. M. Emiliani, Medio Oriente. Una storia dal 1918 al 1991,cit., 184.
[19]. Cfr T. G. Fraser, Il conflitto arabo-israeliano, Bologna, il Mulino, 2004, 93 s.
[20]. Cfr A. Gresh, Israele, Palestina. Le verità su un conflitto,cit., 94; H. Laurens, La Question de la Palestine. I. L’invention de la Terre Sainte,Paris, Fayard, 1999.
[21]. Cfr J. L. Gelvin, Il conflitto arabo-palestinese. Cent’anni di guerra,cit., 229.
[22]. M. Campanini, Storia del Medio Oriente 1798-2005,cit., 152.
[23]. Prima che scadesse il suo mandato, Obama aveva lasciato che il rappresentante statunitense al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite non ponesse, come di solito, il veto (ma scegliesse l’astensione) a una risoluzione che condannava l’occupazione di nuove aree abitative nei Territori palestinesi da parte del Governo Netanyahu. Questi ha «gridato» al complotto del Presidente uscente contro Israele, mentre Trump ha immediatamente twittato che con la sua presidenza le cose sarebbero cambiate.
[24]. Cfr B. Valli, «Palestina. Cinquant’anni dopo la guerra dei Sei giorni lo Stato e la pace restano un’illusione», ne la Repubblica, 14 febbraio 2017, 12.
[25]. Cfr ivi, 13.
[26]. «La strana alleanza tra Arabia Saudita e Israele», in www.internazionale.it | 26 luglio 2016.