È affermazione più che evidente che l’uomo nasce e vive in un contesto di relazioni; la morte stessa, in fondo, potrebbe essere definita come l’assenza di ogni relazione, indicando proprio così, a contrariis, che la vita è, nella sua essenza più profonda, rapporto e relazioni con gli altri e che, quando questi vengono meno, viene meno la stessa vita. D’altra parte, è ugualmente evidente che non tutte le relazioni sono sane, ma possono essere sfalsate, avvelenate, piegate da logiche perverse o distorte, che pure scopriamo sussistere in noi, anche se forse non lo vorremmo. Insomma, certamente l’uomo è per natura un animale politico o sociale, cioè realizza il suo fine, la sua natura proprio insieme agli altri, in quella comunità ben ordinata che è la città[1]. Ma lo stare insieme è anche fonte di continue difficoltà, contrasti, opposizioni di sensibilità, interessi, ambizioni, e non ogni città è una città ben ordinata, perché la violenza, più o meno latente nei rapporti umani, e l’ingiustizia sono fatti assolutamente reali.
Le formazioni sociali nelle quali si svolge la personalità di ognuno, secondo la bella espressione dell’articolo 2 della Costituzione italiana, dalle più immediate, come la famiglia, alle più artificiali, come lo Stato, sembrano ripetere in loro stesse, proiettandola e scrivendola, per così dire, a caratteri macroscopici, quella sorta di ineliminabile ambiguità presente microscopicamente in ognuno di noi: nati per stare insieme, possiamo abortire, come individui e come comunità, ovvero sviarci da questo fine o natura, ripiegandoci su noi stessi, nell’indifferenza agli altri, che sono sempre i diversi da noi, sfociando così nell’ostilità e nella violenza.
Il livello zero: la violenza
Nella sua forma patologica più immediata, lo stare insieme assume il triste volto della guerra di tutti contro tutti. L’altro è percepito come estraneo, e dunque come nemico: il mio bene e il suo non possono, per principio, essere concepiti se non come antitetici. Giocoforza, mors tua vita mea, «la tua morte è la mia vita».
I racconti biblici sono intrisi di questa prospettiva sfalsata e mortifera: Caino deve uccidere Abele, perché, se quest’ultimo è il preferito, eliminato lui, non ci sarà più concorrenza agli occhi di Dio, e così per forza egli diventerà il preferito[2]. L’invidia e la gelosia corrodono la possibilità stessa dello stare insieme: per la prima, quello che ha l’altro è percepito come ingiustamente sottratto a me; e per la seconda, io non accetto in alcun modo di condividere
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