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Ottant’anni fa, l’11 febbraio 1929, tra lo Stato italiano e la Santa Sede venivano firmati i Patti Lateranensi, i quali comprendevano un Trattato internazionale, che riconosceva lo Stato della Città del Vaticano, per assicurare al Pontefice nell’esercizio delle sue alte funzioni quell’indipendenza e autonomia dalle autorità secolari che la legge italiana delle Guarentigie del 1871 non era in grado di garantire, e un Concordato, attraverso il quale si regolavano i rapporti tra Stato e Chiesa in Italia. Inoltre, tra i due ordinamenti sovrani venivano riallacciati regolari rapporti diplomatici, interrotti nel lontano 1855, dopo le leggi di secolarizzazione promulgate dallo Stato piemontese.
In questo articolo non esamineremo i problemi concernenti la stipulazione di tali Patti, di cui esiste un’abbondante e ricca letteratura storica (e le cui fonti sono ormai disponibili agli studiosi), ma le vicende che prepararono e indirizzarono nel senso voluto dalla Santa Sede, sul piano sia dei princìpi sia della materia, la successiva Conciliazione[1]. Momenti significativi di tale lungo e faticoso percorso furono certamente gli studi e i progetti di parte governativa sulla nuova regolamentazione della disciplina ecclesiastica, di cui abbiamo parlato in un altro articolo[2], e il progetto «conciliatorista», fatto «circolare» informalmente negli ambienti interessati alla questione, e non senza un implicito assenso delle autorità vaticane, dal senatore cattolico Carlo Santucci. Nonostante tali lodevoli tentativi di parte governativa e cattolica, l’atteggiamento della Santa Sede e, in particolare, del «granitico» Pio XI in tale delicata materia fu di aperto rifiuto dell’impostazione di fondo del problema, affrontato secondo la vecchia tradizione liberale, in forza della quale soltanto lo Stato era considerato ordinamento originario e sovrano (la «Chiesa è nello Stato», si diceva), per cui spettava soltanto ad esso regolamentare unilateralmente la materia di diritto ecclesiastico, o dare, a modo suo, soluzione all’annosa e difficile «questione romana», vera spina nel fianco dello Stato risorgimentale-unitario, in quanto — considerate le reiterate «proteste» dei Pontefici a tale riguardo — indeboliva l’autorità e l’immagine dell’Italia sul piano internazionale.
Il progetto del senatore Santucci
Nei primi mesi del 1925 il senatore C. Santucci, amico personale del cardinale P. Gasparri, Segretario di Stato vaticano, e molto vicino agli ambienti della Curia romana, sapendo che il Governo Mussolini sembrava interessato a risolvere una volta per tutte la questione romana e ad instaurare rapporti amichevoli con la Santa Sede, «volle redigere — si legge in una lettera del senatore all’amico Serralunga — uno schema di progetto come suo studio privato e personale, naturalmente non destinato ad alcuna pubblicità»[3]. Il progetto Santucci aveva per titolo Alcuni ritocchi e chiarimenti al 1° Titolo della legge 13 maggio 1871 n. 214 sulle Guarentigie Pontificie[4]. Esso portava la data del 21 marzo 1925 ed era diviso in nove punti; partiva dalla premessa dell’immutabilità, dal punto di vista politico e giuridico, del regime delle Guarentigie e della posizione creata alla Santa Sede dalla presa di Roma e dai «fatti legislativi» conseguenti ad essa[5].
Tale schema si muoveva — come del resto tutte le iniziative poste in essere fino ad allora per risolvere la «questione romana», a partire dai colloqui parigini tra l’on. V. E. Orlando e mons. B. Cerretti — entro i binari della vecchia tradizione liberale, ispirata alla politica dei «fatti compiuti», secondo la quale sarebbe di competenza dell’autorità statale legiferare sulla materia ecclesiastica e assicurare al Romano Pontefice quella piena libertà e indipendenza che il suo alto ministero richiedono. Sulla base di questo principio, Santucci preparò una riforma della legge delle Guarentigie, che secondo lui avrebbe dovuto accompagnare e integrare quella della legislazione ecclesiastica, avviata dal Governo nei primi mesi del 1924 e già in dirittura di arrivo[6]. Essa, tenendo fermo l’accennato principio, cercava di conciliare il punto di vista vaticano con quello statale sulla materia in questione e, in particolare, si sforzava di andare incontro ai desiderata della Santa Sede, così come erano stati proposti dai negoziatori vaticani nei decenni precedenti.
Tale operazione, anche se non fu «commissionata» dalle autorità vaticane o statali, non si svolse certamente a loro insaputa: Santucci infatti era pienamente al corrente dei lavori della «Commissione Mattei Gentili», e lo stesso sottosegretario di Stato agli affari di culto, on. A. Giannini, che fu il maggiore sostenitore e artefice del progetto di riforma della legislazione ecclesiastica, gli inviò gli schemi preparatori della legge per avere da lui suggerimenti e, allo stesso tempo, perché con il suo autorevole giudizio sensibilizzasse le autorità vaticane sui lavori svolti. Inoltre, da una lettera del card. Gasparri, sappiamo che il giudizio di Santucci su tale materia era molto apprezzato in Vaticano, e anzi si auspicava un suo intervento per migliorare la legge sulla riforma ecclesiastica in corso[7]. Ciò però non significa che Pio XI avrebbe accettato in quel momento una semplice regolamentazione unilaterale, cioè di parte statale, sia della materia ecclesiastica, sia della stessa questione romana secondo la proposta Santucci. Troppo distante era tale impostazione dalla concezione che Pio XI aveva sia in ordine alla soluzione della «grande pregiudiziale», sia alla regolamentazione dei rapporti tra Stato e Chiesa e del ruolo che questa avrebbe dovuto svolgere all’interno della società. Per l’Italia, nazione cattolica, come per Roma, centro del papato, non avrebbe certamente accettato il punto di vista governativo, in quanto questo contraddiceva il principio concordatario al quale era ispirata la sua azione di politica ecclesiastica nei confronti degli Stati.
Ritornando al progetto Santucci, dalle fonti risulta che esso fu inviato per conoscenza sia al card. Gasparri sia al ministro guardasigilli, A. Rocco, che si dimostrarono «soddisfattissimi» di esso e «disposti quasi a farlo proprio se la opportunità si presentasse». Anzi il card. Gasparri nell’estate del 1925, al ritorno dal suo soggiorno a Montecatini, lo sottopose all’attenzione del Papa; questi «ebbe a dire — si legge nella lettera di Santucci all’amico Serralunga — che quel progetto lo aveva vivamente interessato, ma che egli lo considerava di così difficile attuazione, che preferiva lasciare al suo successore la soluzione del gravissimo problema».
Tale affermazione di Pio XI è stata dagli storici interpretata in modo diverso. Per alcuni sarebbe erroneo sottovalutare l’interessamento che il Papa mostrò, a detta del Segretario di Stato, nei confronti del progetto Santucci. Secondo F. Margiotta Broglio, la Santa Sede, non ancora sicura nel 1925 della linea politica da adottare per la definitiva soluzione della questione romana, credeva opportuno cercare la soluzione delle questioni circa i rapporti tra Stato e Chiesa «valendosi dell’opera degli ultimi esponenti della tradizione conciliatorista […] ormai lontani dagli iniziali postulati del cattolicesimo liberale, ma sempre concordi nell’accettazione dei “fatti compiuti” e nell’aspirazione alla conciliazione, in un certo senso, di quei “conservatori nazionali”, già protagonisti delle riunioni in casa Campello»[8]. E il senatore Santucci era appunto uno degli ultimi epigoni di tale tradizione: di fedeltà sia all’ideale unitario, quindi all’accettazione pura e semplice dei «fatti compiuti», sia alla causa papale e agli interessi della Santa Sede[9].
Secondo De Felice, invece, il rifiuto della Santa Sede di prendere in considerazione in questo periodo sia il progetto Santucci sia il disegno di legge elaborato dalla commissione Mattei Gentili andrebbe spiegato non con l’esistenza di una precisa pregiudiziale del Papa, ma piuttosto «in base a considerazioni d’ordine politico contingente»[10]. A suo parere, per la Santa Sede in quel momento firmare un accordo, o qualcosa di simile, con il Governo fascista avrebbe voluto dire esporsi politicamente oltre il dovuto; ciò sarebbe stato avvertito, da quei cattolici che militavano nel Partito Popolare o in molte associazioni di Azione Cattolica, come un cedimento da parte dell’autorità ecclesiastica al fascismo, che proprio in quei mesi (in particolare nell’estate del 1925) aveva ripreso la sua campagna di violenza e di devastazione contro le sedi del Ppi e delle associazioni cattoliche. Oltre il fatto — aggiunge De Felice — che in quel momento appariva ancora insicuro il futuro del Governo Mussolini e c’era ancora da temere la possibilità di un capovolgimento politico in favore dell’ala più radicale del partito, quella più movimentista e anticlericale, rappresentata dall’allora segretario del partito fascista, R. Farinacci, ispiratore di tante azioni di violenza contro gli oppositori del regime, e quindi anche contro i cattolici[11].
A nostro avviso, tali motivazioni anche se importanti non sono sufficienti a spiegare la posizione della Santa Sede nei confronti dei due progetti a cui abbiamo accennato; essa fu ispirata anzitutto, anche se non esclusivamente, da considerazioni di ordine dottrinale e di politica ecclesiastica. Interessante, e in parte anche condivisibile, ci sembra a tale riguardo la posizione di Gabriele De Rosa sul progetto Santucci. Egli infatti interpreta l’atteggiamento del Papa di fronte alla possibile attuazione dello schema accennato come se «Pio XI considerasse di così difficile attuazione il progetto Santucci proprio perché gli appariva troppo lontano dalla pregiudiziale che in effetti egli pose l’anno appresso per l’inizio dei negoziati: che la legge delle Guarentigie si dovesse abrogare perché atto unilaterale e insufficiente». Secondo De Rosa, tale principio era pienamente conforme alla mentalità di Pio XI, «che considerava il risorgimento con le sue leggi ecclesiastiche peggio di un errore, qualcosa di brutto e deforme, da cui nulla di buono poteva ricavarsi»[12].
Dalla documentazione vaticana risulta chiaramente che la posizione di Pio XI rispetto a tali questioni fu fin dall’inizio improntata a princìpi ben chiari, per cui sarebbe inesatto affermare che vi sarebbe stato un cambiamento di rotta da parte della Santa Sede su tale materia in risposta al nuovo corso della politica mussoliniana. Poi i cosiddetti «fatti nuovi», che impressero una direzione diversa ai rapporti tra Stato e Chiesa in Italia, avvennero soltanto dopo che l’autorità governativa divenne pienamente consapevole che il cammino da essa intrapreso nel riordino della materia ecclesiastica non avrebbe mai incontrato il gradimento della Santa Sede, e che per arrivare a una certa intesa sarebbe stato necessario cambiare direzione; impostare cioè i rapporti tra le due autorità, quella civile e quella religiosa, su un piano bilaterale e paritetico: ciò che avvenne soltanto nei primi mesi del 1926.
Il cammino verso la Conciliazione
Il 26 dicembre 1925 papa Pio XI aveva ricevuto in udienza privata il sottosegretario ai culti Giannini, dal quale desiderava essere informato sul progetto di riforma della legislazione ecclesiastica, fatto pervenire cinque giorni prima in forma del tutto riservata in Vaticano. Di tale incontro non c’è traccia nelle fonti vaticane; ne tratta però con dovizia di particolari lo stesso Giannini in un suo libro di memorie. L’udienza durò più di un’ora e fu, scrive l’autore, abbastanza vivace; in quell’occasione si parlò non soltanto della riforma ecclesiastica, ma anche di una possibile conciliazione tra Stato e Chiesa in Italia. «Cominciò col dirmi che sapeva quanto avevo lavorato […] perché il progetto nella sostanza e nella forma riuscisse bene, e del progetto […] non aveva, in fondo, nulla da dire. Doveva invece rilevare che si era errato nel metodo»[13]. La Chiesa — disse il Papa — non può tollerare che si legiferi in materia ecclesiastica senza il suo concorso diretto e ufficiale, cosicché se il progetto fosse andato in porto la Santa Sede sarebbe stata costretta a protestare energicamente. Occorreva perciò cambiare direzione: «Fare la conciliazione o il Concordato e quindi le nuove leggi. Quali erano le vedute del Governo italiano?».
Alle domande del Papa, il sottosegretario rispose con estrema franchezza: disse che per quanto riguardava la questione del metodo gli sembrava «sollevata ormai tardivamente»; occorreva farla presente, aggiunse, «quando si parlò di commissione mista e del concorso dei tre ecclesiastici». Per quanto riguardava le altre questioni, da buon liberale egli rispose che «lanciare a bruciapelo» la Conciliazione, il Concordato e dopo questi fare la riforma della legislazione ecclesiastica significava instaurare la pace religiosa con «metodo rivoluzionario». Si romperebbe in tal caso — continuava — un equilibrio che dura ormai da più di mezzo secolo, e questo, secondo il sottosegretario, sarebbe oltremodo dannoso sia per la Chiesa sia per lo Stato. «La pace religiosa va preparata in modo che segua senza scosse e senza sussulti. Né conviene tornare indietro. Avrei preferito pertanto che il progetto avesse corso, anche se preceduto e seguito da una protesta pontificia, giuridicamente e politicamente giustificata e comprensibile»[14].
Circa la domanda posta dal Pontefice su che cosa il Governo avrebbe fatto se la Santa Sede dopo la promulgazione della legge avesse elevato una pubblica protesta, il sottosegretario rispose di non avere informazioni particolari su tale questione e, inoltre, di ignorare «se il Governo italiano intendesse affrontare la questione romana, e in quel momento». Parlando di questa, Pio XI non entrò nei particolari, ma fece comprendere al suo interlocutore che in sostanza si era ancora al punto in cui la questione era stata posta qualche anno prima, cioè al tempo dell’incontro parigino tra l’on. Orlando e mons. Cerretti. «Conclusi pertanto — scrive Giannini — che avrei cercato di sapere se il Governo era disposto a esaminare il problema. Vidi infatti subito dopo il Guardasigilli, il quale riconobbe che certamente il Santo Padre aveva, dal suo punto di vista, ragione nel voler seguire la via maestra, risolvendo prima la questione politica e procedendo quindi a un concordato. Si dichiarò pronto a parlare della questione al Capo del Governo, ma voleva che prima si facesse sapere se si potevano impiantare le discussioni su tre punti concreti»[15]. Pochi giorni dopo Giannini fece comunicare i desiderata governativi[16] alla Santa Sede, sottolineando che la questione del cosiddetto «sbocco al mare», sul quale si insisteva molto da parte vaticana, presentava per lo Stato difficoltà insormontabili, ma che si sarebbe potuto concedere, in sostituzione di questo, «uno sbocco aereo» anche in territorio italiano. La risposta della Santa Sede, secondo la testimonianza di Giannini, fu in un primo momento un poco elusiva, anzi «diplomaticamente» cauta, come di chi è certo che le cose stanno finalmente muovendosi per il verso giusto. Si sottolineò cioè che soltanto una «soluzione territoriale» della nota questione avrebbe soddisfatto le giuste richieste della Santa Sede, «in quanto soltanto la sovranità territoriale dà l’evidenza della libertà ed indipendenza della Chiesa». Invece, quanto all’estensione del territorio, per il momento non si avanzò nessuna proposta, ma si insistette sulla necessità, come si è detto, di uno sbocco al mare.
L’iniziativa di riprendere in mano la materia ecclesiastica, questa volta però «sopra basi più larghe», e di dare soluzione alla questione romana partì dallo stesso Mussolini proprio il giorno della pubblicazione sull’Osservatore Romano della lettera di Pio XI al Segretario di Stato sulla materia in questione[17]. Da una Nota del 24 febbraio 1926 inviata dal card. Gasparri al Pontefice, veniamo a sapere che il capo del Governo il giorno precedente aveva contattato il cugino dello stesso cardinale, il senatore C. Silj, incaricandolo, riservatamente, di presentare alle autorità vaticane una proposta di soluzione della questione romana e di tastare il terreno sulla loro disponibilità a intavolare trattative su tale delicata materia. La Nota dice: «Beatissimo Padre. Cesare, il mio cugino senatore, venne da me ieri sera. Mussolini lo aveva pregato di passare da lui a mezzogiorno; e Cesare venne da me per riferire l’importante colloquio. Mussolini, punto scontento della lettera della Santità Vostra, gli disse che anche egli riteneva le ultime parole della lettera come un ulteriore invito a dare finalmente alla Santa Sede la situazione che le è dovuta, informa a risolvere la questione romana; che egli aveva sempre accarezzato questa idea e che perciò aderiva all’invito. Tenendo presenti i postulati della Santa Sede in questa gravissima materia egli era disposto: 1) a riconoscere alla Santa Sede la proprietà dei Palazzi Apostolici con tutto ciò che ivi li contiene, musei, biblioteca ecc.; 2) ad aggiungere ai Palazzi Apostolici del territorio da determinarsi di comune accordo (egli usò la parola “dipendenze”); 3) ad ammettere la extraterritorialità di tutto ciò che appartiene alla Santa Sede; 4) a riconoscere Palazzi e territorio come Stato indipendente, e far sì che come tale sia riconosciuto anche dalle altre nazioni. Su queste basi lo incaricò di tastare prudentemente il terreno presso di me, riservandosi, se l’accoglienza non era addirittura negativa, di fare altri passi in proposito. Cesare tornerà questa sera, ma io posso facilmente dilazionare la risposta»[18]. Il Papa scrisse a matita sullo stesso documento la risposta che il Segretario di Stato avrebbe dovuto comunicare a suo cugino, il senatore Silj. «La prima e per ora l’unica risposta che si deve fare avere è quella scritta a padre Tacchi Venturi». La risposta a cui fa riferimento il Papa in questo appunto e che fu comunicata all’autorità governativa attraverso il p. Tacchi Venturi è quella stessa di cui il sottosegretario Giannini fa cenno nei suoi ricordi sulla Conciliazione e di cui abbiamo precedentemente parlato: insomma per Pio XI condizione indispensabile perché potessero iniziare contatti bilaterali per la soluzione della questione romana era che la libertà e l’indipendenza del Romano Pontefice potessero apparire pienamente e incondizionatamente «agli occhi del mondo», e che soltanto la concessione di una sovranità territoriale avrebbe potuto garantire al Papa tale stato di cose. Punto di vista del resto pienamente condiviso sia da Mussolini sia dal ministro Rocco[19].
Mussolini, da politico accorto qual era, si rese conto che era ormai arrivato il momento di fare un passo decisivo nella direzione indicata dalla Santa Sede. Il 4 maggio 1926 egli indirizzò al Ministro Guardasigilli una Nota riservata che diceva: «La Santa Sede […] reputa cha una sistemazione soddisfacente dei rapporti tra la Chiesa Cattolica e lo Stato in Italia non possa conseguirsi, se non per via di accordo bilaterale, e che un accordo di tale fatta presuppone risoluto, d’intesa tra le due potestà, il problema della sistemazione giuridica della Santa Sede […]. Il regime fascista, superando in questo, come in ogni altro campo, le pregiudiziali del liberalismo, ha ripudiato così il principio dell’agnosticismo religioso dello Stato, come quello di una separazione tra Chiesa e Stato, altrettanto assurda quanto la separazione tra spirito e materia»[20]. Poco tempo dopo il ministro Rocco, durante la discussione alla Camera del bilancio della Giustizia e dei Culti, dichiarò, commentando la lettera di Pio XI, che essa aveva mutato i termini del problema, e che il Governo non poteva non tenerne conto, per cui questo si proponeva di riprendere a tempo opportuno la trattazione del grave argomento «sopra basi più larghe»[21].
Tali espressioni furono accolte nel Paese con stupore e, allo stesso tempo, con soddisfazione; crearono invece un certo malumore in alcuni ambienti, e non solo fascisti, ligi alla vecchia prassi delle «linee parallele» instaurata in Italia dopo le leggi delle Guarentigie. La Santa Sede le accolse con prudente compiacimento. Va ricordato però, come si è visto, che a quel tempo i primi contatti tra le due autorità, sebbene del tutto informali, c’erano già stati. La Conciliazione muoveva nell’ombra i suoi primi significativi passi. Le parole del Guardasigilli diedero ulteriore conferma alla Santa Sede che da parte governativa c’era buona disposizione a iniziare trattative sulla nota questione senza pregiudizi di sorta. Fu sulla base del contenuto di questi accordi riservati in realtà — e non sul progetto-Santucci — che pochi mesi dopo si allacciarono i primi contatti tra il rappresentante o intermediario vaticano, avv. Francesco Pacelli, e quello governativo, il consigliere di Stato prof. Domenico Barone, per discutere le numerose e gravi questioni pendenti tra le due autorità. Ma questa è la storia della Conciliazione, che non rientra nell’oggetto di questo saggio.
Tra il progetto Santucci, di cui si è parlato, e la proposta avanzata informalmente da Mussolini per risolvere la questione romana, sebbene ancora molto generica, esiste una differenza sostanziale di non poco conto: questa volta non era lo Stato che disciplinava unilateralmente la materia ecclesiastica, o che graziosamente concedeva alla Chiesa privilegi particolari come era accaduto fino ad allora, ma sulla base di accordi regolati dal diritto internazionale l’autorità statale si misurava su un piano di parità con un’altra autorità, quella religiosa, per regolamentare bilateralmente le delicate materie di interesse comune. Nei rapporti tra Stato e Chiesa in Italia era iniziata un’epoca nuova, quella appunto della Conciliazione, che porrà fine, con la firma del Trattato e del Concordato lateranensi del febbraio 1929, a mezzo secolo di contrapposizione (e di rottura dei rapporti diplomatici ufficiali) tra Stato unitario e Santa Sede. Tale nuovo corso fu valutato dalla Gerarchia e da gran parte dei cattolici italiani in modo positivo, da alcuni anzi in modo entusiastico; diverso fu invece il giudizio degli eredi del cosiddetto cattolicesimo politico (cioè gli aderenti o simpatizzanti del disciolto Partito Popolare), che videro nei Patti lateranensi una sorta di riconoscimento o legittimazione (sul piano sia interno sia internazionale) del fascismo da parte della Chiesa. Nel breve periodo tale lettura poteva sembrare anche vera e in qualche modo legittima; nel lungo periodo, invece, essa si rivelò in qualche modo miope, schiacciata sul presente e un poco partigiana. In realtà, Pio XI, più di altri, ebbe il merito di capire che tale accordo non riguardava né il fascismo né Mussolini, ma soprattutto il bene e l’indipendenza della Chiesa in Italia. Gli sviluppi futuri del rapporto tra Stato e Chiesa in Italia, anche in momenti difficili e tragici per la vita nazionale, gli avrebbero dato pienamente ragione.
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[1] Sulla Conciliazione la letteratura è abbastanza vasta. Ricordiamo qui, fra gli altri, C. A. Biggini, Storia inedita della Conciliazione, Milano, Garzanti, 1942; A. Giannini, Il cammino della Conciliazione, Milano, Vita e Pensiero, 1946; E. Pucci, La pace del Laterano, Firenze, Lef, 1929; F. Pacelli, Diario della Conciliazione, a cura di M. Maccarone, Città del Vaticano, Libr. Ed. Vaticana, 1959; F. Margiotta Broglio, «Il Fascismo e la Conciliazione», in ISAP, Congresso celebrativo del centenario delle leggi amministrative di unificazione, Vicenza, N. Pozza, 1965; Id., Italia e Santa Sede dalla grande Guerra alla Conciliazione, Bari, Laterza, 1966; A. C. Jemolo, Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni, Torino, Einaudi, 1948; F. Fonzi, «Documenti per la storia dei Patti Lateranensi. Due relazioni di Domenico Barone del 1928», in Rivista di storia della Chiesa in Italia, luglio-dicembre 1965; A. Martini, Studi sulla questione romana, Roma, Cinque Lune, 1963; P. Scoppola, La Chiesa e il fascismo. Documenti e interpretazioni, Bari, Laterza, 1971; G. Spadolini (ed.), Il cardinale Gasparri e la questione romana (con brani della memorie inedite), Firenze, Le Monnier, 1972; R. De Felice, Mussolini il fascista, vol. II, Torino, Einaudi, 1968; F. Traniello, «L’Italia cattolica nell’età fascista», in Storia dell’Italia religiosa, vol. III: L’età contemporanea, Roma – Bari, Laterza, 1995.
[2] Cfr G. Sale, «La progettata riforma della legislazione ecclesiastica al tempo di Mussolini», in Civ. Catt. 2006 III 218-231.
[3] Gabr. De Rosa, I conservatori nazionali, Brescia, Morcelliana, 1962, 220.
[4] Ivi, 195 s.
[5] L’introduzione dello schema Santucci diceva: «I punti più meritevoli di attenzione sono secondo me i seguenti: 1. Proprietà dei Palazzi Apostolici. 2. Extraterritorialità dei medesimi. 3. Possibile ampliazione od estensione della attuale residenza pontificia. 4. Personalità giuridica della S. Sede; ossia capacità di essa di acquistare e possedere. 5. Dotazione della S. Sede. 6. Titoli nobiliari e onorificenze cavalleresche. 7. Internazionalizzazione della legge sulle Guarentigie Pontificie. 8. Relazioni tra la S. Sede e il Governo Italiano. 9. Modo di procedere» (ivi, 196). Dopo la presentazione dei titoli il progetto passa ad analizzarli uno per uno. Una sintesi di questi punti è anche riportata nella lettera di Santucci all’amico Serralunga. Tra i punti principali ricordiamo i seguenti: «1. Sovranità personale del Sommo Pontefice piena ed intera nel senso della completa, notoria ed inviolabile indipendenza del Papa e della S. Sede in qualsiasi altro potere sovrano. 2. Proprietà piena del Papa dei Palazzi Apostolici e della Basilica di S. Pietro ed altre basiliche Patriarcali che la legge delle Guarentigie gli attribuiva solo in uso e godimento perpetuo. 3. Incontestabile extraterritorialità del Vaticano che non fu compreso nella resa di Roma, né occupato dalle armi italiane […] 6. Riconoscimento al Papa, per proprio diritto inerente alla sua sovranità, della facoltà di conferire senza controllo titoli nobiliari ed onorificenze cavalleresche. 7. Esenzione dalle imposte e da ogni vincolo di espropriazione per pubblica utilità dei Palazzi della Cancelleria […] ed altri destinati permanentemente a servizio della S. Sede quasi come un’appendice dei Palazzi Apostolici. 8. Scambievole rappresentanza diplomatica tra la S. Sede e il Governo Italiano per la trattazione delle reciproche relazioni . 9. Rinvio ad altra sede di un concordato per regolare meglio in Italia le relazioni tra lo Stato e la Chiesa»: ivi, 232-240.
[6] Mussolini, basandosi sulla legge del 3 dicembre 1922 n. 1601, che affidava al capo del Governo il compito di aggiornare la legislazione italiana rendendola più funzionale alle nuove finalità dello Stato fascista, procedette, su consiglio di alcune personalità vicine alla Chiesa e al regime, alla riforma della legislazione ecclesiastica, ormai obsoleta e ispirata a una concezione dei rapporti tra Stato e Chiesa che riteneva superati. Della commissione preparatoria, istituita a tale scopo — la cui direzione fu affidata al deputato clerico-fascista P. Mattei Gentili — facevano parte, «a titolo personale», senza cioè impegnare l’autorità della Santa Sede, anche tre ecclesiastici. La commissione fu insediata ufficialmente il 12 febbraio 1925, e i suoi lavori si protrassero, sotto la supervisione del sottosegretario di Stato Giannini, per tutto l’anno. L’ultima riunione si tenne il 30 dicembre 1925. Tale progetto, come è noto, non divenne mai legge dello Stato; il lavoro svolto dalla commissione fu però molto utile nella messa a punto del Concordato lateranense del 1929. Cfr G. Sale, «La progetta riforma della legislazione ecclesiastica al tempo di Mussolini», cit.
[7] Cfr ARCHIVIO SEGRETO VATICANO – AFFARI ECCLESIASTICI STRAORDINARI (ASV – AEESS, Italia, 628, 56, 119).
[8] F. Margiotta Broglio, Italia e Santa Sede dalla grande guerra alla conciliazione, cit., 148.
[9] Anche se, sottolinea al contempo Margiotta Broglio, il sopraggiungere, in quei mesi, di «fatti nuovi» indusse la Santa Sede a prendere le distanze dai due progetti (quello governativo e quello del senatore Santucci) e ad iniziare trattative segrete e dirette con Mussolini «per una sistemazione della questione romana e per una sistemazione pattizia dei rapporti tra Stato e Chiesa e della posizione della Chiesa in Italia»: ivi, 131.
[10] R. De Felice, Mussolini il fascista, cit., 108. Di questo avviso è anche P. Scoppola, La Chiesa e il fascismo. Documenti e interpretazioni, Bari, Laterza, 1971, 106; Id., «Patti Lateranensi», in Dizionario del fascismo, vol. II, Torino, Einaudi, 2003, 342-347.
[11] Si sa che Mussolini in quel difficile momento di transizione non poteva fare a meno della protezione della fazione più intransigente del fascismo (dopo la crisi Matteotti). Per mantenere rapporti cordiali con la Chiesa e per stringere accordi con essa, era però necessario che il clima di violenza e di illegalità diffuso nel Paese cessasse e che il fascismo mostrasse il suo volto rassicurante di partito autoritario, preoccupato soprattutto della pace sociale e del bene comune. Sappiamo che la Santa Sede intervenne più volte attraverso il p. Tacchi Venturi presso Mussolini, mentre erano in corso i lavori di riforma della legislazione ecclesiastica, per far cessare le azioni di violenza fascista contro le associazioni cattoliche
[12] Gabr. De Rosa, I conservatori nazionali, cit., 141.
[13] A. Giannini, Il cammino della Conciliazione, cit., 60.
[14] Ivi, 61.
[15] Ivi, 62.
[16] I tre punti proposti dall’autorità governativa alla Santa Sede erano: «1. riconoscimento della sovranità del Sommo Pontefice sul territorio dei palazzi apostolici, ampliato in una zona retrostante, non abitata, dove potranno sorgere le sedi delle rappresentanze diplomatiche ecc. 2) le due parti, d’accordo, deferiscono allo Stato italiano la giurisdizione civile e penale per fatti avvenuti in detto territorio. 3) nel territorio stesso la Santa Sede potrà impiantare una stazione radiotelegrafica propria ed un campo di aviazione, con garanzia della libertà di tenerlo sul territorio italiano»: ivi.
[17] In una lettera del 30 gennaio 1926 indirizzata al Papa il card. Gasparri, commentando il progetto di legge governativo, affermava che «la progettata riforma contiene notevoli miglioramenti sulla legislazione vigente» e che qualche altro miglioramento si sarebbe potuto ottenere ancora «dal ministro Rocco, se gli venisse suggerito», naturalmente sempre in via riservata e ufficiosa. Secondo il cardinale non sarebbe conveniente che la Santa Sede «con un atto pubblico preventivo» impedisse l’approvazione della progettata riforma, poiché facendo ciò impedirebbe il miglioramento della stessa e assumerebbe davanti all’opinione pubblica e al clero una grave responsabilità. Sarebbe perciò opportuno, suggeriva, che la Santa Sede una volta reso pubblico il progetto di legge, «emettesse una protesta con cui ribadisse la sua esclusiva competenza nel legiferare in materia ecclesiastica […], pur riconoscendo le buone intenzioni del Governo nel migliorare alquanto la vigente legislazione ostile verso la Chiesa e il clero, ma lamentando che la riforma non sia completa, come dovrebbe essere, e non si occupi della situazione fatta dai Governi passati alla Santa Sede» (ASV-AAEESS, Italia, 628, 57, 119). Come aveva suggerito il Segretario di Stato, quando ormai il testo messo a punto dalla Commissione incaricata fu reso di dominio pubblico, il Papa intervenne per esprimere il suo dissenso sul contenuto del progetto di riforma e per condannare il «modo» in cui esso era stato condotto dall’autorità governativa, che la Chiesa non poteva in nessun modo accettare, poiché considerava tale ambito (cioè quello religioso) di esclusiva competenza dell’autorità ecclesiastica. Pio XI manifestò il suo pensiero in una lettera del 18 febbraio 1926 indirizzata al cardinale Segretario di Stato e che era stato poi pubblicata sull’Osservatore Romano il 23 dello stesso mese. «Ora che le proposte vogliono tradursi in legge — scriveva il Papa — e si vuol quindi per necessità di cose legiferare su materie e persone che sottostanno […] alla sacra potestà di Dio a Noi affidata, Ci impone il debito del ministero apostolico […] di dire e dichiarare che su tali materie e persone non possiamo riconoscere ad altri diritti e potestà di legiferare, se non previe le convenienti trattative ed i legittimi accordi con questa Santa Sede e con Noi». «Nessuna conveniente trattativa — concludeva con parole gravi il Papa —, nessun legittimo accordo ha avuto luogo né poteva o potrà luogo avere finché duri la iniqua condizione fatta alla Santa Sede ed al Romano Pontefice» (ivi, 628-629, 58, 6). Parole queste indirizzate a chi di dovere, e da questi prontamente comprese nel loro giusto significato.
[18] Archivio della Civiltà Cattolica, Fondo non ordinato.
[19] Il sottosegretario Mattei Gentili, riportando il pensiero dei suoi superiori in tale materia, fece comunicare in Vaticano, attraverso mons. Enrico Pucci, collaboratore del giornale clerico-fascista Il Corriere d’Italia, che le parole del ministro Rocco significavano letteralmente che «la questione [della materia religiosa] sarebbe stata ripresa in esame sopra una base comprendente non soltanto la legislazione ecclesiastica, ma anche la Questione Romana». L’intermediario riferì fedelmente quanto gli era stato comunicato al cardinale Segretario di Stato. Questi ascoltò ogni cosa attentamente e aggiunse: «Tutto questo va bene, ma noi non possiamo prenderne atto, finché non ci risulti in qualche modo ufficiale. Se realmente Mussolini ha l’intenzione di risolvere la Questione Romana, incarichi qualcuno con una lettera di trattare con noi per questo scopo ed allora vedremo quello che si potrà fare» (E. Pucci, La pace del Laterano, cit., 160). A tale ragionevole proposta l’interlocutore governativo fece riferire in Vaticano che il Governo avrebbe fatto questo se ci fosse la certezza che un passo di tal genere non corresse il rischio di andare incontro a un rifiuto. Nonostante che il card. Gasparri avesse dato assicurazione che la cosa sarebbe stata considerata favorevolmente dalla Santa Sede, per il momento da parte governativa si preferì non precipitare le cose e aspettare un momento più opportuno. «Il Duce — disse Mattei Gentili a mons. Pucci — non è uomo che vuole essere pressato. Egli ha i suoi propositi e sa scegliere il momento opportuno per attuarli. Adesso restiamo in attesa, ma possiamo ben essere certi che egli non dimenticherà, né farà troppo dormire un argomento che gli sta tanto a cuore»: ivi, 161.
[20] C. A. Biggini, Storia inedita della Conciliazione, cit., 72.
[21] Ivi, 70.