|
Mentre le nuove leve, sulle terre della letteratura, premono e rumoreggiano per conquistarsi spazi propri, i vecchi proprietari scompaiono, consegnandosi al giudizio della storia. E la storia è impietosa, ai nostri giorni soprattutto. Scrittori che ieri furoreggiavano, oggi sono appena ricordati. Resistono all’usura del tempo quei pochi autori che, sfuggendo alle mode e ai calcoli di mercato, si sono impegnati a decifrare il senso della storia, il destino dei popoli, il mistero dell’animo umano, la lotta tra il bene e il male, l’esistenza di Dio o la vanità del tutto. Cioè gli autori classici. Ne abbiamo, oggi, di autori classici? Una risposta perentoria è molto difficile. Certamente non esistono tempi proibitivi per il genio, ma esistono elementi che lo favoriscono o lo inceppano. Lasciamo che sia il tempo a giudicare la classicità degli autori. E non dimentichiamo che altro è raggiungere i cieli dei classici, altro è incamminarsi sui loro sentieri e rifletterne alcune luci.
Sui loro sentieri incontriamo tre autori, scomparsi nello scorso anno: Carlo Coccioli, Michele Prisco e Giuseppe Pontiggia. Diversi per temperamento, per mentalità, per il modo di confrontarsi con i dilemmi psicologici, etici e religiosi, ma egualmente impegnati nell’analisi dell’animo umano e nello sforzo di ghermire qualche luce sul mistero che ci avvolge. Su Coccioli e Prisco ci siamo soffermati a lungo e più volte[1];su Pontiggia lo facciamo ora.
Alle prese col mistero
L’interesse di Pontiggia era concentrato sull’uomo, soprattutto sul mistero che lo abita. «La filosofia contemporanea — confidava all’amico Ferruccio Parazzoli — ha sottolineato i limiti della ragione. E dice: sì, la ragione arriva fino a un certo punto e di là, proprio al di là della linea della ragione, si apre lo spazio per la fede. Uno spazio che, se vuoi, tu puoi riempire. Per me questo spazio è il mistero. Non c’è la fede ma c’è il mistero. Il mistero, lo dicono anche i fisici, quanto più lo studi tanto più si dilata»[2].
Sulla certezza del mistero aveva anche costruito una sua escatologia: «L’unica certezza da acquisire è quella del mistero. Le altre sono false certezze. La certezza della condanna e della salvezza eterna non posso escluderla in senso radicale. Supero questa inquietudine dicendomi: no, non è possibile che Dio sia compatibile con una condanna eterna. C’è infatti chi parla di un Inferno vuoto»[3].
Che cosa poi fosse questo mistero non sapeva dirlo. Così è vissuto tra nostalgia di fede cristiana e sussulti di agnosticismo. Con l’andare degli anni il mistero gli si era sempre più presentato come la rivelazione del Dio cristiano. Leggendo un commento di Agostino alla Prima Lettera di Giovanni e al suo Vangelo, sente spalancarglisi «l’abisso di una speculazione inattingibile». Inattingibile? «Eppure le parole potenti, percussive, vibranti di Agostino acquistano una misteriosa evidenza indiretta. Anche se non possiamo aderire alla loro letteralità, sentiamo che la navigazione cristiana sul mare della vita fino alla patria celeste approda a un mondo parallelo più vero di quello visibile»[4]. È l’approdo all’amore assoluto, che è Dio. Pontiggia è morto nella notte tra il 26 e 27 giugno 2003, improvvisamente. È da credere che il «mistero», che lo ha affascinato e sorretto, gli si sia finalmente rivelato come Amore.
Era nato a Como nel 1934. Dopo il liceo classico, aveva iniziato a lavorare in banca: lavoro «traumatico: un mondo di adulti che credevo a torto maturi. Il frutto di questo trauma fu La morte in banca, che portai a Vittorini, il quale mi incoraggiò a dedicarmi all’insegnamento e all’attività letteraria»[5]. Si iscrisse all’Università Cattolica, laureandosi nel 1959 con una tesi sulla tecnica narrativa di Italo Svevo. Lasciata la banca nel 1961, si dedicò all’insegnamento serale; nel 1966 iniziò la sua attività di consulente editoriale per Adelphi e, subito dopo, anche per Mondadori. Negli ultimi anni è stato membro della direzione della casa editrice Vita e Pensiero. Da ricordare anche i suoi interventi sul Corriere della Sera e sul Sole 24 Ore, oltre che su varie riviste culturali.
Un mondo in frantumi
La sua opera, che comprende narrativa, saggistica e critica del costume, è contraddistinta dallo stile: conciso, asciutto, chiaro, estraneo all’enfasi e all’amplificazione, quasi freddo e aforistico, ma tale da rivelare un mondo nascosto, percorso da forti emozioni. Ciò comporta che le sue pagine narrative, per essere capite nel loro autentico significato, vanno lette su un duplice piano, «quello dell’oggettività, quale appare nella struttura del racconto, e quello della trasparenza che l’attenta analisi consente di scoprire, quasi in filigrana, al di là della lettera. Sarebbe perciò senz’altro riduttivo considerarli dei semplici romanzi, in quanto possiedono tutte le connotazioni del racconto filosofico o, se si preferisce, della poesia dell’anima»[6].
In realtà, sotto l’asciuttezza della sua pagina un attento lettore avverte un pullulare di emozioni, tanto più forti quanto meno gridate. Si pensi al suo primo romanzo, La morte in banca [7](1979), apprezzato da Vittorini. Conseguita la maturità classica, il giovane Carabba ottiene un posto di lavoro in banca, con la prospettiva di una decorosa sistemazione economica e di carriera. Spera di poter vivere una «doppia vita», conciliando il lavoro di ufficio con le sue aspirazioni segrete.
Ma tutto gli si rivela assurdo e deprimente. «Il contrasto tra due vite incompatibili l’aveva eccitato, l’aveva convinto che la sua “vera” vita era al di fuori della banca e che lui in banca, in sostanza, “non viveva”, perché “non pensava” e faceva un lavoro meccanico che non lo toccava minimamente» (p. 57). Le illusioni gli crollano addosso, si sente irretito e svuotato. La crisi che lo ghermisce ha il sapore della morte. «Ne provò una stretta angoscia. Ecco, era quella la morte: la morte in banca. Che era poi una delle infinite morti nella vita» (p. 67). L’esistere è subire una successione di morti.
Accade spesso che «rispettabili» individui consumino la vita a nascondere queste morti sotto speciosi orpelli e a offrire di sé un’immagine falsificata. Contro questa operazione ipocrita Pontiggia denuda gli animi, ne mostra le lordure, ne scopre i segreti moventi e presenta un palcoscenico sul quale la vanità va a braccetto con l’odio, l’ipocrisia danza con la paura, il tradimento si camuffa di prestigio. Tale operazione è condotta nel romanzo Il giocatore invisibile[8] (1978), di struttura giallistica, ricco di dialoghi, di sorprese, di richiami. Un «barone» universitario incappa in un errore riguardante l’etimologia della parola «ipocrita». Un anonimo collega rende noto l’abbaglio che scalfisce l’onorabilità del barone. Chi si nasconde dietro l’anonimato? Quale il movente dell’attacco? Ha così inizio un’indagine poliziesca che mette allo scoperto il marcio dell’ambiente universitario: le nevrosi dei professori, le frustrazioni per le opere mai scritte, gli intrighi dei premi letterari, il vuoto di valori, l’inconsistenza morale di coloro che dovrebbero contribuire alla crescita dei giovani, la solitudine incombente, la percezione che, a un certo punto, «tutto si sfalda tra le mani» e che «solo la menzogna è perfetta» (pp. 92 e 210).
Chi è il «giocatore invisibile»? È quel mondo torbido — di gelosia, odio, paura, tradimenti — che si annida nel nostro animo e determina le nostre scelte. Potremmo neutralizzarlo, almeno in parte; ma l’ambiente in cui viviamo, la mancanza di valori e di volontà prendono il sopravvento e ci consegnano nelle sue mani. Alla struttura giallistica del romanzo se ne sovrappone un’altra, psicologica ed etica, più sottile e importante. A conclusione della vicenda — la cui soluzione è appena accennata — c’è l’ombra della morte. Ad essa approda il nostro fantasticare e agitarci.
Il tema della morte — sia pure in sottofondo — è ripreso nel romanzo Il raggio d’ombra[9] (1983) che è una spietata radiografia del mondo degli intellettuali contemporanei, soprattutto del loro modo di vivere la cultura, sganciati da ogni preoccupazione etica, senza bussola e senza mete. Dunque, tutti un po’ «morti». Sugli stessi sfondi di vuoto morale e affettivo si svolge La grande sera[10] (1989). Narra l’improvvisa scomparsa di un professionista dalla vita quotidiana e il subbuglio che tale evento produce. La ricerca dello scomparso risveglia in tutti un mondo torbido, fatto d’ipocrisia, di tradimenti e di noia esistenziale. Così la vicenda si tramuta in un’amara meditazione del vivere. «L’odio che teneva avvinti i suoi genitori era un legame più tenace, e certamente più affidabile, di qualsiasi altro. Perché un predatore può lasciarsi sfuggire la sua vittima: ma due predatori si dilaniano, in una presa atroce, fino all’ultimo. Né scelgono la salvezza che è riservata alla intelligenza dei deboli, la fuga. Così si scarnificano finché morte non tanto li separi, come dice la formula, ma finalmente li unisca» (p. 122). I deboli invece scelgono la fuga, che è oblio, rifiuto di vita, liberazione dal passato. «Pensa se mi dimenticassi di tutto. Forse sarei felice» (p. 96). Felice? Sì, della felicità dei castrati.
La grande sera ha un sapore funereo, come se la vita si fosse rattrappita e dissolta. I cieli sono lontani e muti, abitati dal mistero. «“Credo al mistero” rispose Bonghi guardando la pianura. “Perciò ho smesso di farmi domande”» (p. 313). Destino, legge arcana, potenza ignota, Dio: che cos’è il mistero? Non sappiamo. Sappiamo soltanto che è inutile porsi domande sui grandi interrogativi del vivere e attendersi risposte precise.
«Nati due volte»: elogio della diversità
Nati due volte[11] (2000), l’ultimo romanzo di Pontiggia, premio Campiello, non soltanto gli ha conferito una notorietà internazionale, ma lo ha confermato narratore di alto livello. Non mancano in esso gli sfondi cupi dei romanzi precedenti, ma i cieli sono più distesi, e anche abitati dalla pietà, dalla speranza e dalla fede cristiana.
Per scrivere il romanzo Pontiggia si è ispirato a una sua esperienza personale, avendo avuto un figlio disabile. «Nel gennaio del 1999 — spiega — ebbi l’idea di affrontare in chiave romanzesca questa esperienza; un’autobiografia avrebbe rappresentato invece una “gabbia”»[12]. Nel romanzo inventiva e biografia si fondono e si completano. Nessun cedimento a pietismi o a perorazioni retoriche, ma il racconto di un padre — il professor Frigerio, l’io narrante del libro — alle prese con il figlio Paolo disabile. La tesi sviluppata nelle duecento pagine è annunziata sia nella dedica iniziale: Ai disabili che lottano non per diventare normali ma se stessi, sia nel primo capitolo. Il padre aiuta il figlio a salire servendosi della scala mobile; il figlio cade, è aiutato a rialzarsi. «Una piccola folla, occhi di curiosità sgomenta, ha fatto il vuoto intorno a noi». «Stremato e infelice» il padre dice al figlio: «Cammina bene. Sta’ attento». «Se ti vergogni, puoi camminare a distanza. Non preoccuparti per me» replica il figlio «con la sua voce stentata». S’intuisce che Paolo, per la sua seconda nascita, intende essere protagonista, nonostante la sua tetraparesi spastica distonica. Per la prima nascita ha dovuto subire l’arroganza di medici che hanno escluso il taglio cesareo provocando lesioni irreparabili. Per la seconda nascita non rifiuta l’aiuto dei familiari, dei pediatri e dei fisiatri, ma vuole fare affidamento anche sulle proprie forze.
Un professore, più esperto di medicina e di uomini che tanti suoi colleghi, tre mesi dopo il parto, così aveva detto ai genitori di Paolo: «Voi dovete vivere giorno per giorno, non dovete pensare ossessivamente al futuro. Sarà un’esperienza durissima, eppure non la deprecherete. Ne uscirete migliorati. Questi bambini nascono due volte. Devono imparare a muoversi in un mondo che la prima nascita ha reso più difficile. La seconda dipende da voi, da quello che saprete dare. Sono nati due volte e il percorso sarà più tormentato. Ma alla fine anche per voi sarà una rinascita» (p. 26). Così avverrà. Superando difficoltà e stanchezze, tra la rozzezza dei «normali» e l’astio del fratello maggiore, che si sente defraudato dei suoi privilegi, Paolo, sia pure a piccole tappe, fa notevoli progressi, non solo, ma rivela qualità insospettabili; ha intuizioni che lasciano interdetti. Per esempio, quando al padre che condivide l’idea «che la minorazione abbia un accesso speciale presso l’Onnipotente. E che l’Onnipotente sia a sua volta sensibile alle raccomandazioni», così replica: «Guarda che la preghiera non è magia» (p. 152). Il capitolo «Preghiere» testimonia la lenta conversione del padre verso un cristianesimo concepito come presenza di amore, anche se misterioso. Riportiamo un brano significativo:
«E sulla preghiera ho cambiato idea, come sulla guarigione. Forse preghiera e guarigione convergono, la preghiera è guarigione: non dal male, ma dalla disperazione. Perfino nel momento in cui si è soli, la preghiera spezza la solitudine del morente. Ancora oggi mi mette in contatto con una voce che risponde. Non so quale sia. Ma è più durevole e fonda della voce di chi la nega. Tante volte l’ho negata anch’io, per riscoprirla nei momenti più difficili. E non era un’eco. Lo so che prega chi sopravvive e chi muore, chi vince e chi va incontro alla sconfitta. Ma ho rinunciato da tempo alla contabilità celeste, al bilancio del dare e dell’avere, alle aspettative fiscali del divino. Mi accontenterò (mai verbo più malinconico e più lucido) di un ultimo appuntamento con la voce. Quando tutto mi mancherà, lei non mi mancherà» (p. 149 s).
Lei assume il volto del Redentore che non elimina la sofferenza, la fa sua e la trasfigurerà. Si noti l’espressione: «E non era un’eco». Sulla nostra preghiera non ricade l’eco delle nostre parole, ricacciandoci nella solitudine, ma la fede in un Padre che non dimentica i figli sofferenti. La disabilità del figlio non soltanto aiuta il padre a comprendere alcuni importanti elementi del cristianesimo, ma lo aiuta anche a capire se stesso. Col passare degli anni, tra il padre e il figlio disabile si stabilisce un rapporto speciale, che conduce l’adulto normale a scoprire nel ragazzo «anormale» un modo nuovo di guardare il mondo e di considerare le persone. Ne segue che l’importante non è tanto che il disabile guarisca, ma che diventi se stesso, che sviluppi le sue potenzialità. Nel romanzo Paolo è accettato dai compagni a motivo della simpatia che da lui si sprigiona sul mondo e sugli altri. Alla domanda: come rapportarsi con la disabilità?, sintetizzando Nati due volte, Pontiggia ha così risposto:
«Il processo di maturazione che compie il narratore nel romanzo è anche quello di capire che l’importante non è quello che il disabile non ha, ma quello che il disabile ha. Il protagonista scopre che suo figlio ha una grande dose di simpatia, di intelligenza, di capacità di rapporto con gli altri, infinitamente più importanti dei limiti fisici che riducono la sua autonomia». Qui Pontiggia si abbandona ad alcune osservazioni amare ma puntuali: «Spesso soffrono di più i genitori, i parenti, o perlomeno soffrono in modo diverso; perseguono un miraggio di normalità, che è alimentato anche dai mezzi d’informazione, perché la normalità fa comodo ai consumi. Noi consideriamo normali ogni forma di abbigliamento, di atteggiamento, che rientra nel sistema del consumo. Si teme di non essere normali, in una misura sproporzionata, mentre l’importante sarebbe accorgersi che siamo diversi, ciascuno dall’altro, e che la disabilità è certamente una diversità vistosa, spesso drammatica, ma che la cosa più importante non è propugnare lo statuto dell’uguaglianza, bensì accettare lo statuto della diversità. E guardare quindi il disabile con un occhio solidale, non di compassione. La diversità riguarda ciascuno di noi […]. I disabili sono persone che hanno volontà di realizzarsi spesso molto forti, e anche ambiziose, e vanno aiutate in questa loro ricerca»[13].
Nel romanzo non mancano pagine ironiche e severe contro professori incapaci e corrotti, e sistemi pedagogici antiquati. Pontiggia mette in atto tutta la sua arte di narratore per ritrarre certi aborti di uomini: ironia sottile e pungente, battute caustiche e allusive, stile scarnificato e incisivo. Ecco come descrive il direttore della scuola elementare: «È zoppo e, quando cammina, compie a ogni passo una minuscola genuflessione, stendendo a lato la gamba sinistra. Quando è seduto appoggia spesso il mento a un bastone, che pianta davanti a sé come una mazza […]. Questo satiro di campagna irto e loquace, emigrato nella metropoli, era un cacciatore di successi fulminei quanto effimeri, di piaceri strappati grazie alla sorpresa e alla intimidazione, e di legami vischiosi con donne sfinite da disperazioni inconfessate. A me ricordava i saccheggiatori di rovine, gli sciacalli dei terremoti, che una volta venivano fucilati sul posto […]. È un peccato non poter estendere la pena ai ladri di anime, oltre che di corpi» (p. 54). La preside della scuola media, «piccola, vivace, turgida nel suo vestito troppo stretto. Ha una voce gorgheggiante […], mi viene incontro con mosse vagamente teatrali, da damina settecentesca in un’opera di Cimarosa» (p. 117). Schiava della burocrazia, non le riesce di comprendere che a volte occorre «violare la legge per rispettarne lo spirito» (p. 120). Lo specialista a cui i genitori di Paolo si rivolgono per suggerimenti «aveva provato un brivido di piacere nel rivelarci l’inutilità di un decennio di lavoro» (p. 134): franchezza deontologica? Così pensano. Ma anche stupidità, pensa Pontiggia.
Nati due volte si legge con gusto, con interesse e con profitto. Con gusto, per la ricchezza di toni che vanno dall’ironico alla tenerezza, dalla desolazione alla gioia, dal drammatico al comico, in un linguaggio terso, striato di humour; con interesse, perché ci introduce in un territorio sconosciuto, ricco di sorprese, che coinvolge e rivela nuovi modi di essere; con profitto, perché ci aiuta a modificare le nostre idee sui disabili. «Chi è normale? Nessuno» (p. 31). «Quando Einstein, alla domanda del passaporto, risponde “razza umana”, non ignora le differenze, le omette in un orizzonte più ampio, che le include e le supera. È questo il paesaggio che si deve aprire: sia a chi fa della differenza una discriminazione, sia a chi, per evitare una discriminazione, nega la differenza» (ivi).
Romanzo perfetto? Diremmo piuttosto romanzo di alto livello formale e contenutistico. L’elemento negativo — comune a tutta l’opera di Pontiggia — è la divagazione su argomenti che inceppano la struttura narrativa, e l’eccesso di frasi sentenziose e di spunti aforistici che ne rallentano lo sviluppo. A volte si ha l’impressione di un narratore che, affascinato dai grandi moralisti del passato, faccia fatica a moderare la sua vena moralistica.
Sotto l’aspetto religioso Nati due volte costituisce, a nostro parere, una schiarita in senso positivo. Sull’argomento Pontiggia è stato sempre molto discreto. Ha parlato di mistero, d’inquietudine metafisico-religiosa, di disperazione e di ricerca di bene; ha avvertito il groviglio di passioni che dilacera gli animi e il bisogno di una fuga; ha sentito anche una grande pietà per l’uomo manovrato da forze malefiche. L’esperienza dolorosa, raccontata in Nati due volte, gli ha permesso uno sguardo di fede sull’uomo e sul suo destino. Il mistero si è tramutato in Mistero.
Raccontando il funerale della madre, l’io-narrante-Pontiggia così si esprime: «Forse non le sarebbe spiaciuto sentire le parole che un vecchio prete, vibrante nella voce gagliarda e arrochita, aveva pronunciato davanti alla sua bara, la mattina delle esequie. Aveva parlato di vita, non di morte, di risurrezione del corpo, non di dissolvimento, di luce sfolgorante, non di buio. Di una felicità che aveva disorientato le maschere dei presenti, quelle serene dei congiunti e quelle gravi e austere dei turisti del lutto» (p. 131). Il Mistero è certezza di risurrezione e di felicità.
La cultura è una ricchezza. Ma a un certo punto…
Giuseppe Pontiggia è stato anche saggista originale e colto. «Bibliovoro al limite della patologia» è stato definito. Aveva il culto del libro. Nella sua casa milanese era immerso in una biblioteca di 40.000 volumi, che rappresentavano per lui una riserva di scoperte appaganti e rigeneratrici. Leggendo la sua produzione saggistica si ha l’impressione che egli vivesse con i classici di ogni tempo, e che le grandi questioni della cultura costituissero il suo habitat. È stupefacente la disinvoltura con la quale egli si muove tra i pensatori e i letterati del passato, cogliendone gli aspetti essenziali e caratteristici, in poche battute. Altre volte, mettendo da parte la cultura classica, si abbandona a una varietà di temi che costituiscono una satira pungente e ilare della società italiana. Eccone alcuni titoli: «I miracoli della dieta italiana», «Guida per viaggiare con un avaro», «Il Club dell’eutanasia» (appartengono al volumetto Le sabbie immobili)[14].
Nel volume I contemporanei del futuro particolarmente interessante è la prima parte: «I classici, una metafora sociale e militare». Che cosa rappresenta per Pontiggia il mondo dei classici? La risposta non solo sintetizza il suo pensiero, sviluppato nel volume, ma offre anche opportune precisazioni:
«Spesso mi chiedono se i classici sono attuali: il problema è se siamo attuali noi rispetto ai classici. I classici sono attuali da migliaia di anni, noi non sempre. La nostra attualità si rivela molte volte ai nostri stessi occhi come fragile, insufficiente, aleatoria. Diamo spazio e importanza a problemi di cui poi scopriamo la futilità, seguiamo mode e tendenze, superstizioni e credenze di cui sperimentiamo poi l’inconsistenza. I classici invece parlano delle cose più importanti, e le raccontano attraverso il tramite della bellezza. Per me i classici sono sempre stati un esempio con cui confrontarsi»[15].
Sulla sciagurata proposta di accantonare o ridurre lo studio dei classici per proiettare i giovani verso un futuro più produttivo, Pontiggia ha un’affermazione precisa: «Dimenticarli [i classici] in nome del futuro sarebbe il fraintendimento più grande. Perché i classici sono la riserva del futuro»[16].
Alcuni mesi prima di morire, in un intervento presso il Centro Culturale Milanese, ha fatto una sorprendente (ma non troppo per chi ne aveva capito l’anima profonda) confessione: «Dopo aver accumulato per tutta la vita libri in una misura visionaria, dopo aver amato la cultura nel modo più intenso e anche più articolato (chi ha una biblioteca come la mia, più di 40.000 volumi, ha problemi di statica: la casa che crolla, costruzione di una vita, distruzione di un reddito), evidentemente vedo nella cultura una ricchezza, una felicità, un piacere, una dilatazione dell’orizzonte, e così l’ho sempre vissuta. Ma ad un certo punto […] mi rendo conto che nei confronti della cultura è bene anche assumere propri atteggiamenti, ascoltare anche la propria insofferenza. La cultura può essere anche restrizione dell’orizzonte, impoverimento [..]. Ad un certo punto, se devo riflettere sulla vita e la morte, sul tempo che mi rimane, su quello che è veramente importante, questi piaceri [i piaceri offerti dalla cultura] perdono d’importanza. Mi ha molto colpito per esempio leggere dei libri di Taubes, un rabbino molto attratto dal cattolicesimo e dalla teologia protestante, che ha tenuto un corso alla radio di Berlino poco prima di morire […], e ad un certo punto dice: “Ma lasciamo perdere Hegel, cosa m’interessa… È importante san Paolo, è importante la Lettera ai Romani”. Su Hegel era uno degli studiosi più preparati, ma questo atteggiamento nei confronti di una cultura che in condizioni di normalità, di curiosità, di acquisizione pacata, è importante, se noi invece lo misuriamo con le questioni più ultime che ci riguardano, diventa improvvisamente sfocato. Personalmente […] credo che la cultura non è il sapere che ci riguarda nel modo più stretto»[17].
È da credere che tra i volumi della sua biblioteca ce ne fossero parecchi di sant’Agostino, di cui egli sottolinea il «linguaggio balenante, irriducibile alle mediazioni razionali, ma radiante di immagini sconosciute e insieme famigliari». Nei Contemporanei del futuro cita il commento al Vangelo di Giovanni, composto dal Santo. A tale commento si riferiscono alcune espressioni — le più intense — del suo intervento sopra riportato. Egli chiama sapere quanto sant’Agostino definisce verità. «Che cosa desidera l’anima più ardentemente della verità? Di che cosa dovrà essere l’uomo avido, a quale scopo dovrà custodire sano il palato interiore, esercitare il gusto, se non per mangiare e bere la sapienza, la giustizia, la verità, l’eternità?»[18].
Copyright © La Civiltà Cattolica 2004
Riproduzione riservata
***
[1] Su Carlo Coccioli (Livorno 1920 – México 2003) cfr F. CASTELLI, «“Il cielo e la terra” di Carlo Coccioli», in Civ. Catt. 1951 I 430-36; ID., «Davide nostro contemporaneo», ivi, 1976 III 222-235; ID., «Il sincretismo dell’ultimo Coccioli», ivi, 1981 II 263-266. Su Michele Prisco (Torre Annunziata [NA] 1920 – Napoli 2003): ID., «Michele Prisco narratore penetrante e coraggioso» 1958 I 606-620; ID., «Carosello di bandiere e di destini nell’ultimo Prisco», ivi, 1962 II 365-370; ID., «Michele Prisco sotto “I cieli della sera”» ivi, 1971 I 261-264. Tra gli scomparsi nello scorso anno ricordiamo anche il poeta Elio Fiore (Roma 1935), il giornalista, biografo e narratore Domenico Del Rio (Roma 1926), lo scrittore e giornalista Oreste Del Buono (Isola d’Elba 1923 – Roma).
[2] F. PARAZZOLI, Il gioco del mondo, Cinisello Balsamo (MI), San Paolo, 1998, 58.
[3] Ivi, 59.
[4] G. PONTIGGIA, I contemporanei del futuro, Milano, Mondadori, 1998, 243.
[5] E. PREZIOSI, «Le nostre parole leggere. L’ultima intervista di Giuseppe Pontiggia» in Presenza, 2003, n. 7, 19 s.
[6] F. L. GALATI, «A scuola di vita da un figlio disabile», in Oss. Rom., 26 aprile 2001.
[7] Cfr G. PONTIGGIA, La morte in banca, Milano, Mondadori, 1979.
[8] Cfr ID., Il giocatore invisibile, ivi, 1978.
[9] Cfr ID., Il raggio d’ombra, ivi, 1983.
[10] Cfr ID., La grande sera, ivi, 1989.
[11] Cfr ID., Nati due volte, Milano, Mondadori, 2000.
[12] B. GARAVAGLIA, «Elogio della diversità umana», in Il Segno, aprile 2002
[13] Ivi.
[14] Cfr G. PONTIGGIA, Le sabbie immobili, Bologna, il Mulino, 1991.
[15] E. PREZIOSI, Le nostre parole leggere, cit.
[16] G. PONTIGGIA, I contemporanei del futuro, cit., 58. Ci piace ricordare un’analoga espressione dello scrittore a proposito dei bambini: «Sono sempre stati, nei secoli, il futuro della Terra». Tale ariosa battuta conclude un suo breve racconto, «Una lettera dal Paradiso», inviato al poeta Marco Beck, curatore del volume Note di Natale (Cinisello Balsamo [MI], San Paolo, 2003). Il protagonista del suggestivo racconto — San Nicola/Santa Claus/Babbo Natale —, dopo tanti secoli in giro per il nostro mondo a distribuire doni natalizi, si sente stanco e scoraggiato. Nella società occidentale il benessere e la rivoluzione telematica hanno stravolto l’anima dei bambini e non si sa più che cosa regalare ad essi, mentre nei Paesi sottosviluppati essi suscitano una sensazione di angoscia e d’ingiustizia. «Distribuire doni natalizi, a una umanità così tribolata e di-scriminata, è un impegno eroico anche per un Santo» (p. 25). Ma dinanzi ai bambini non si può restare inattivi.
[17] In Avvenire, 28 giugno 2003, 27.
[18] AGOSTINO, S., Commento al Vangelo e alla Prima Epistola di San Giovanni, in Opera omnia di Sant’Agostino, Roma, Città Nuova, 1968, XXIV, 1-2, 26, 5.