La strategia israeliana della «terra bruciata»
Alcuni mesi fa, la speranza che molti nutrivano, soprattutto in Occidente, era che con l’inizio del Ramadan sarebbe entrato in vigore il cessare il fuoco temporaneo tra Israele e Hamas, come i negoziatori riuniti prima a Parigi e poi a Doha auspicavano, in modo da dare sollievo a una popolazione, quella della Striscia di Gaza, provata da più di sei mesi di combattimenti, con oltre 34.000 morti (la maggior parte civili) e lo spettro della fame ormai diventato realtà[1]. Dopo la scadenza prevista, il governo di Tel Aviv, come aveva minacciato in precedenza, si sentiva autorizzato a invadere l’ultimo fazzoletto di terra non ancora occupato, cioè a entrare con il suo esercito nella cittadina di Rafah, dove sono accampati più di un milione di palestinesi, fuggiti dalle zone devastate dalla guerra. L’obiettivo era quello di sbaragliare gli ultimi quattro battaglioni di Hamas ancora attivi e di prendere vivo o morto Yanya Sinwar, l’ideatore del terribile attacco contro gli israeliani del 7 ottobre 2023, e i suoi collaboratori.
In ogni caso, le trattative tra Doha, il Cairo ed Amman – sotto la supervisione degli Usa – sono continuate ancora freneticamente, anche in assenza di un tavolo ufficiale: la proposta era quella di una tregua di sei settimane e della liberazione di un certo numero di prigionieri palestinesi, in cambio della liberazione di 40 ostaggi israeliani. Le richieste delle due parti erano, però, inconciliabili. Hamas chiedeva un cessate il fuoco definitivo e il ritiro dell’esercito dalla Striscia, risparmiando così la propria dirigenza, in cambio della liberazione degli ostaggi (che sarebbero ormai un centinaio). Il governo israeliano, da parte sua, si opponeva a una tregua prolungata, per la paura che i miliziani si riorganizzassero.
La strategia militare di fare «terra bruciata» – anche se finalizzata a eliminare soltanto Hamas –, portata avanti in questi ultimi tempi da Netanyahu, che ha provocato la morte di un numero eccessivamente alto di civili, appare alla maggior parte dei governi occidentali e a molti osservatori internazionali ingiustificata, sproporzionata, dannosa e anche inutile. Il presidente degli Usa, Joe Biden, che all’inizio aveva sostenuto l’azione del governo israeliano contro Hamas, il 10 marzo ha dichiarato alla tv Msnbc che «Netanyahu sta facendo più male che bene a Israele». Ha poi detto che «l’invasione di Rafah è una linea rossa che non va superata»[2], facendo riferimento ai progetti di Netanyahu di prendere la
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