a cura di V. FANTUZZI
La rabbia di Pasolini (Italia, 2008). Ipotesi di ricostruzione della versione originale del film La rabbia (1963) di Pier Paolo Pasolini, realizzata da GIUSEPPE BERTOLUCCI.
Nel 1963, Pasolini ha accettato la proposta del produttore Gastone Ferranti, che gli ha affidato il materiale e i residuati di un cinegiornale (intitolato Mondo libero) che dirigeva da molti anni, affinché li rimontasse a suo piacere aggiungendovi un commento originale. Ne risultò un film basato su immagini di repertorio, il cui scopo è dichiarato nelle parole che precedono i titoli di testa: «Perché la nostra vita è dominata dalla scontentezza, dall’angoscia, della paura della guerra? Per rispondere a queste domande ho scritto questo film, senza seguire un filo cronologico e forse neanche logico, ma soltanto le mie ragioni politiche e il mio sentimento poetico». Il commento fuori campo è letto da tre voci che si alternano: quella dello speaker ufficiale, la voce in versi (Giorgio Bassani) e la voce in prosa (Renato Guttuso).
Quando Ferranti vide il lavoro eseguito da Pasolini si spaventò. Il taglio scelto dal regista era troppo unilaterale. Decise così di accorciarne il metraggio per poter affiancare al lavoro di Pasolini quello di un altro regista: Giovanni Guareschi. Ne risultò un film diviso in due parti, nettamente contrapposte, che esprimevano una doppia immagine del mondo: visto da destra (la parte di Guareschi) e visto da sinistra (la parte di Pasolini). I due Autori lavorarono a insaputa l’uno dell’altro. Alla fine, nessuno dei due rimase soddisfatto del risultato complessivo e la pellicola, dopo pochi giorni di programmazione, finì tra i fondi di magazzino del produttore. La parte del film dovuta a Pasolini restituita alle dimensioni che avrebbe dovuto avere prima dell’intervento di Guareschi, esce per la prima volta nelle sale cinematografiche, a 45 anni di distanza dalla sua realizzazione, grazie a un accurato lavoro di restauro condotto da Giuseppe Bertolucci per conto della Cineteca del Comune di Bologna.
A cavallo tra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta l’Italia sta bruciando rapidamente le tappe di una trasformazione da Paese agricolo in Paese industrializzato, con una violenta, irreversibile trasformazione sociale e culturale di cui Pasolini è il testimone più acuto e sofferto. «Quando il mondo classico sarà esaurito — dice il commento in un passaggio del film —, quando saranno morti tutti i contadini e tutti gli artigiani, quando l’industria avrà reso inarrestabile il ciclo della produzione e del consumo, allora la nostra storia sarà finita».
Il film inizia con i funerali di De Gasperi (1954). L’evento segna la fine del dopoguerra. L’Italia si adegua e si prepara a ritrovare la normalità dei tempi di pace. Qualcuno, il poeta che parla in versi nella colonna sonora del film, si rifiuta a questo adattamento. Egli osserva con distacco — il distacco dello scontento, della rabbia indicata nel titolo del film — gli estremi atti del dopoguerra: il ritorno degli ultimi prigionieri in squallidi treni, il ritorno delle ceneri dei morti…
Che cos’è che rende scontento il poeta? Un’infinità di problemi che esistono e che nessuno è capace di risolvere: e senza la cui soluzione la pace, la pace vera, è irrealizzabile. Per esempio: il colonialismo. Questa anacronistica violenza di una nazione su un’altra nazione, con il suo strascico di morti. La fame per milioni e milioni di sottoproletari. Il razzismo inteso come cancro morale dell’uomo moderno. È così che riscoppia la crisi, l’eterna crisi latente. I fatti di Ungheria e di Suez (1956). L’Algeria comincia piano piano a riempirsi di morti. Il mondo sembra, per qualche settimana, quello di qualche anno prima. Cannoni che sparano, macerie, cadaveri per le strade, file di profughi stracciati che attraversano paesaggi incrostati di neve, morti sventrati sotto il solleone del deserto…
La crisi si risolve, ancora una volta, nel mondo: i nuovi morti sono pianti e onorati. Ricomincia l’illusione della pace e della normalità. Ma, insieme alla vecchia Europa che si riassetta in nuovi equilibri, nasce l’Europa moderna: il neo-capitalismo. La cultura occupa terreni nuovi: una nuova ventata di energia creatrice nelle lettere, nel cinema, nella pittura… Mentre la cultura ad alto livello si fa sempre più raffinata e per pochi, questi «pochi» diventano, fittiziamente, tanti: diventano «mas-sa». È il trionfo del digest, del rotocalco e, soprattutto, della televisione. All’inizio degli anni Cinquanta stazioni televisive funzionano a Milano e a Torino in via sperimentale… «Sperimentano modi di dividere la verità per porgere la mezza verità che rimane attraverso la voce che contrappone un’ironia umiliante a ogni ideale».
Gli episodi si susseguono intercalati dalle note solenni dall’adagio di Albinoni. Il più riuscito è quello dedicato alla morte di Marilyn Monroe (1962), sorellina obbediente, carica della sua bellezza come di una fatalità che uccide. «Forse tu hai preso la strada giusta — dice Pasolini rivolgendosi alla diva —, ce l’hai insegnata. Il tuo bianco, il tuo oro, il tuo sorriso sono qualcosa che ci invita a placare la rabbia nel pianto, a voltare le spalle a questa realtà che sembra indissolubilmente legata alla fatalità del male».