a cura di V. FANTUZZI
Big Fish (USA, 2003). Regista: TIM BURTON. Interpreti principali: E. McGregor, A. Finney, A. Lohman, J. Lange, B. Crudup, M. McGrory, D. De Vito.
Edward Bloom (interpretato quando è vecchio da Albert Finney e quando è o immagina di essere giovane da Ewan McGregor) percorre in lungo e in largo l’Alabama come commesso viaggiatore. Ha una gran bella qualità: in ogni situazione nella quale gli capita di imbattersi sa cogliere sempre l’aspetto migliore. Ha anche un’altra qualità, che non tutti sono in grado di apprezzare alla stessa maniera: una immaginazione ipertrofica, sorretta da una verve affabulatoria senza limiti. Ne sa qualcosa il figlio Will (Billy Crudup in età adulta) costretto a sorbire racconti mirabolanti sulle avventure straordinarie che il padre (sempre giovane e glorioso) dice di aver vissuto durante le prolungate assenze.
Finché è piccolo, Will crede ciecamente a tutto quello che il padre gli racconta. Ma, a mano a mano che cresce, comincia a dubitare. Ora che si è sposato e sta per diventare padre a sua volta (mentre il padre, colpito da un male incurabile, sta per morire) è convinto di non aver mai conosciuto il vero volto del proprio genitore, nascosto dietro una cortina fumogena di false verità. Tratto dal romanzo omonimo dell’esordiente Daniel Wallace (editore Tropea), il film Big Fish di Tim Burton si iscrive nella tradizione americana delle tall tales (racconti iperbolici): un’epopea burlesca che rifà il verso all’epopea vera e propria. Sviluppatosi all’insegna dell’affabulazione orale, che tende all’amplificazione, questo genere di racconto affonda le radici nella frontiera sudoccidentale degli Stati Uniti, e ha come cornice le foreste e gli acquitrini che si susseguono lungo il corso del Mississippi. Gli episodi si inanellano ad altri episodi, cambia la voce dei narratori, l’uditorio rimane avvinto dall’inverosimiglianza di ciò che viene proposto, fino a raggiungere il colmo dell’assurdo.
La tensione narrativa si scioglie nel momento in cui il destinatario del racconto (ascoltatore, lettore o spettatore di un film) si accorge di essere stato menato per il naso e non può non sorridere divertito della propria credulità. Nulla è più ordinario della vita (e della morte) di un commesso viaggiatore americano. Lo ha dimostrato Arthur Miller con il dramma Morte di un commesso viaggiatore che, dopo numerosi successi in palcoscenico, è stato portato due volte sulle schermo: la prima in bianco e nero, a opera di Laslo Benedek con Fredric March come protagonista nel 1952, la seconda a colori, con Volker Schlöndorf regista e Dustin Hoffman attore nel 1985. Wallace e Burton dimostrano che il mestiere del commesso viaggiatore può diventare affascinante se chi lo esercita ha la possibilità di condirlo con un po’ di fantasia. Si tratta di una vita vissuta sempre in transito, fatta di passaggi da una soglia a un’altra. Basta fingere di non sapere cosa c’è al di là della prossima soglia da attraversare e il senso dell’avventura è assicurato. Basta immaginare che al prossimo bivio l’automobile invece di prendere la strada nota, già percorsa mille volte, sceglierà quella ignota.
Come il viaggio della vita, che impone di percorrere molte strade e attraversare molte soglie, anche il cinema (e quello di Burton in particolare) si muove lungo il confine che separa il reale dall’immaginario. Nella prima parte del film, Edward diciottenne ha appena lasciato il paese (Ashton) in cui, di incontro in incontro, è diventato quello che è. Al suo fianco c’è il gigante Karl (Matthew McGrory), il più tenero dei mostri. Giunto a un bivio, come accade agli eroi delle favole, deve scegliere. A sinistra ci sono le sicurezze e l’ovvio del già conosciuto. A destra c’è il mai visto prima: ciò che non è mai accaduto perché nessuno finora ha immaginato che potesse accadere. Edward giunge nella città dove si sta senza scarpe (Spectre), dove la tensione tra passato e futuro cede alla dolcezza di un presente perennemente immobile, dove il simmetrico e l’asimmetrico si confondono reciprocamente, dove l’alieno prende il posto del domestico e viceversa.
L’altrove dell’immaginario rimanda, come situazione speculare, alla quotidianità del presente. Fedele all’unico amore della sua vita, Sandra (interpretata dalla giovane Alison Lohman negli anni verdi e da Jessica Lange in età matura), non la tradisce neppure con il pensiero. Immagina di aver lavorato mesi e mesi, per conquistarla, nel circo gestito da un bizzarro personaggio (Danny De Vito) che di notte si trasforma in lupo mannaro. Anche il gigantesco pesce gatto (che dà il titolo al film), inghiottendo prima ed espellendo poi la fede nuziale del protagonista, altro non è che un simbolo della fedeltà, cioè della normalità di un uomo che, sotto le apparenze del contafrottole, cela la capacità di cogliere lo straordinario nascosto in ogni aspetto ordinario della vita. Riuscirà il figlio Will a carpire, prima che sia troppo tardi, il segreto di suo padre per evitare che la sua vita, alla pari di quella di tanti altri che si considerano persone normali, frani sotto il cumulo del risaputo e del banale?