a cura di V. FANTUZZI
12 (Russia, 2007). Registi: NIKITA MICHALKOV. Interpreti principali: N. Michalkov, S. Makovetskij, S. Garmash, A. Petrenko, M. Efremov.
Oggi nessuno mette in dubbio che La parola ai giurati (titolo originale Twelve Angry Men) film di esordio di Sidney Lumet, tratto da un originale televisivo di Reginald Rose (Orso d’oro al festival di Berlino 1957), sia un capolavoro. I dodici componenti di una giuria popolare sono sul punto di pronunciarsi per la colpevolezza di un giovane imputato. Si tratta di un «latino» accusato di aver ucciso suo padre. Soltanto uno dei giurati (Henry Fonda) nutre dubbi sulla colpevolezza del giovane, che rischia di finire sulla sedia elettrica. Il dibattito che segue mette a nudo pulsioni, caratteri e motivazioni recondite.
Quarant’anni dopo, William Fried-kin ha ripreso in mano lo stesso copione e, oltre a tenere conto delle sopraggiunte innovazioni tecniche (si passa dall’austero bianco e nero in formato normale alla seduzione del colore e dello schermo panoramico), fornisce indicazioni sulla società statunitense che vive drammaticamente l’avvicinarsi della fine del secolo (siamo nel 1997) e manifesta segni preoccupanti di disgregazione sociale. Tocca a Jack Lemmon il ruolo che fu di Fonda nel convincere gli altri giurati a rivoltare gli stereotipi, superando antipatie e pregiudizi, per salvare la vita di un innocente. Nel frattempo il testo di Rose, pur essendo di origine televisiva, è stato messo in scena con successo in diversi teatri americani ed europei, compreso un teatro di Mosca dove lo spettacolo è stato allestito in lingua russa dal pluridecorato regista Nikita Sergeevich Michalkov.
Adattato alla realtà russa odierna, il film 12 ripropone il vecchio dramma con alcune varianti. Il giovane accusato di omicidio è un ceceno. La vittima è un ufficiale dell’esercito russo che, dopo la morte in guerra di entrambi i genitori del ragazzo, lo ha adottato e lo ha portato con sé a Mosca. La condanna che incombe non è la sedia elettrica, ma la prigione a vita. All’interno di una scalcinata palestra scolastica, simbolo del degrado che affligge le istituzioni nell’ex-Unione Sovietica, Michalkov, che ha riservato a se stesso il ruolo di presidente della giuria con relativa arringa finale, regge con mano ferma gli altri undici attori che impersonano un variegato campionario dell’attuale società moscovita.
Al momento di entrare nella palestra tutti, eccettuato uno solo, mostrano di avere una gran fretta di andarsene. La sorte del giovane ceceno è segnata in partenza. Emettendo un verdetto unanime sulla sua colpevolezza, ciascuno potrà dedicarsi ai propri improrogabili impegni. Chi deve vedere un certo programma televisivo, chi raggiungere la propria troupe in partenza per una tournée, chi ha un treno, un aereo, o una colazione irrinunciabile che lo aspetta. L’unico che non è d’accordo è l’inventore di un congegno per cellulari (Sergej Makovetskij) che, come faceva Fonda nel film di Lumet, dice che non è giusto obbedire alle leggi quando queste sono palesemente ingiuste.
L’esempio contagioso del giurato dissenziente fa sì che anche gli altri si aprano uno per volta. Parlano di ciò che li inquieta come individui travolti da una società che cambia a vista d’occhio, della preoccupante situazione in cui versa Mosca e l’intero Paese. Si interrogano sui torti e sulle ragioni per cui le cose non vanno nel modo in cui dovrebbero andare. L’uomo russo non riesce a vivere in un modo conforme alla legge perché la sente come una cosa astratta, che non gli appartiene. In Russia il cuore e l’anima hanno un posto predominante rispetto alla legge. Ciascuno dei dodici giurati è dotato di un cuore e di un’anima. Ma in alcuni di essi questo aspetto tarda a manifestarsi per via del risentimento che ha sepolto la loro sensibilità personale sotto strati di indifferenza e di rancore.
Il più acceso sostenitore della colpevolezza del ragazzo è un tassista (Sergej Garmash), un uomo rude, dominato da sentimenti nazionalistici, il quale è convinto della colpevolezza dell’imputato soltanto perché è un ceceno, un primitivo e dunque malvagio e assassino per definizione. Il surriscaldarsi della discussione induce il tassista a confessare il trattamento ingiusto e violento al quale ha sottoposto suo figlio, mite e remissivo, fino a spingerlo sull’orlo del suicidio.
Un operaio della metropolitana (Aleksej Petrenko), solidale in un primo momento con il tassista nel considerare gli stranieri come esseri inaffidabili, si mette a raccontare la storia di un suo zio idraulico che, a causa di una rovinosa perdita al gioco, stava per trasformarsi in terrorista. Nonostante le drammatiche premesse, la situazione si risolve perché l’aspirante criminale incontra un poliziotto comprensivo che riesce a farlo ragionare.
Un attore comico (Mikail Efremov), irritato per gli inconvenienti che il protrarsi della riunione avrà sulla sua attività professionale, dà sfoggio di cinismo, ma all’improvviso si lascia andare anche lui in un monologo dai toni tragici nel quale ricorda l’unico sorriso che, tra tante risate sgangherate, è riuscito a ottenere nel corso della sua carriera quando, bambino, al capezzale della nonna morente, aveva cercato di farla svagare con alcune ingenue imitazioni.
Il ragazzo ceceno è interpretato dal debuttante Apti Magamaev, mentre suo fratello minore, Abdi, interpreta nei flashback lo stesso personaggio quando, all’età di sette anni, si salva per miracolo dalle pallottole di un attacco dei soldati russi, ma vede i genitori morire sotto i propri occhi. Nella colonna sonora, composta da Eduard Artemev, si alternano canti popolari ceceni e raffiche delle mitragliatrici: una sinfonia di suoni e rumori che si intensificano nei momenti concitati e si diradano di tanto in tanto per lasciare spazio a una meditazione sulla libertà.