La recente decisione di inserire nella lista Unesco quattro memoriali dei massacri avvenuti durante il genocidio ruandese del 1994 riporta alla mente una celebre frase di Sepúlveda: «Un popolo senza memoria è un popolo senza futuro». Il fatto che la memoria di quel genocidio sia resa “Patrimonio dell’umanità” esprime la decisa volontà di custodire in modo indelebile il ricordo di un’immane tragedia accaduta quasi trent’anni fa: un milione di morti in soli 100 giorni, una vittima ogni 7 minuti. Una scelta del genere non può che essere salutata con grande favore. Tra i siti selezionati, la famosa chiesa di Nyamata, teatro di uno dei massacri più orrendi di civili tutsi. Al suo interno sono ancora accatastati gli scheletri di 50mila persone trucidate nella zona. […]
Far memoria non può ridursi, quindi, a congelare il ricordo del male. In un articolo sulla Civiltà Cattolica dell’aprile scorso, il gesuita ruandese Marcel Uwineza narra dello sconcerto che un teologo, anch’egli ruandese, durante un incontro con la stampa cattolica in Austria, seminò nei suoi interlocutori. Alla domanda «Quale immagine sceglierebbe per rappresentare l’attuale situazione in Ruanda?», rispose, infatti: «Un cimitero e un cantiere». Illuminante il commento di Uwineza: «Un cimitero, poiché ogni collina è stata bagnata dal sangue di innocenti. Ma anche un cantiere, perché stiamo cercando di ricostruire il Paese per colmare le voragini della disperazione». […]