Lo studio dell’universo riserva sorprese affascinanti, ma anche umilianti. Tutte le particelle e gli elementi che sono stati scoperti finora, tutti gli atomi e i neutrini, costituiscono solo una piccolissima frazione del contenuto del nostro universo. È proprio questa una delle grandi e inattese scoperte scientifiche degli ultimi decenni. Oggi gli astronomi ritengono che la stragrande maggioranza dell’universo sia costituita da «materia oscura» ed «energia oscura», entità che non sono mai state rilevate sulla Terra. Il nostro sguardo si alza verso un universo composto di sostanze completamente estranee al mondo in cui viviamo.
Ma gli scienziati stanno cercando la materia oscura anche qui, sulla Terra, e un cosmologo della Specola Vaticana prende parte a quella ricerca. Maria Elena Monzani, scienziata dirigente presso lo SLAC National Accelerator Laboratory, a Menlo Park (California) e presso il Kavli Institute for Particle Astrophysics and Cosmology della Stanford University, nonché ricercatrice a contratto presso l’Osservatorio Vaticano, ha firmato insieme a oltre 200 coautori l’articolo «First Dark Matter Search Results from the LUX-ZEPLIN (LZ) Experiment», recentemente accettato per la pubblicazione su Physical Review Letters, una delle riviste più prestigiose nel campo della fisica.
Accenni di materia oscura furono osservati per la prima volta dall’astronomo Fritz Zwicky negli anni Trenta del secolo scorso. Lo scienziato svizzero notò che all’interno di un ammasso galattico le singole galassie sembravano muoversi come se nella struttura ci fosse più materia di quanta ne fosse visibile. Quarant’anni dopo, Vera Rubin scoprì che le orbite delle stelle all’interno di una galassia sono governate da una massa invisibile (da lei ha preso il nome il nuovo telescopio che dovrebbe far progredire in modo significativo ciò che sappiamo sull’universo oscuro; questa scienziata ha insegnato alla prima Scuola estiva dell’Osservatorio vaticano, nel 1986). Nei decenni successivi, il lavoro di altri cosmologi è approdato alla certezza che la materia oscura ha una massa cinque volte più abbondante degli atomi ordinari che si trovano nell’universo.
L’esperimento LZ è alla ricerca di ipotetiche particelle note come «particelle di grande massa debolmente interagenti» (o WIMP), che in ipotesi spiegherebbero la materia oscura. Il nome è venato di umorismo, dal momento che wimp è l’equivalente inglese di «fifone». Come si addice al loro appellativo scherzoso, le WIMP dovrebbero avere massa, ma per il resto fanno ben poco, perché interagiscono di rado e debolmente con la normale materia che vediamo. Sono quindi «oscure»: quasi, ma non del tutto, impossibili da vedere.
LZ utilizza un serbatoio da dieci tonnellate di xeno liquido per cercare di rilevare rare interazioni tra WIMPs e atomi di xeno che potrebbero produrre lampi di luce o elettroni sciolti, suscettibili, quindi, di essere registrati. Per ridurre le interferenze di altre fonti nell’atmosfera terrestre, l’esperimento avviene a 1,5 km sotto terra, negli Stati Uniti, in un’ex miniera d’oro nel South Dakota.
Monzani è deputy operations manager per il software e l’informatica del rilevatore LZ. Ha guidato «prove generali» simulate, o Mock Data Challenges, in preparazione della prima fase scientifica dell’esperimento. Il suo team ha sviluppato un potente software analitico per individuare segnali da una manciata di possibili interazioni con la materia oscura all’interno dei petabyte di dati raccolti dal rilevatore. L’infrastruttura informatica LZ impiega supercomputer ospitati presso il National Energy Research Center (NERSC) a Berkeley, in California.
Gli autori di «First Dark Matter Search Results» segnalano un mancato rilevamento, ma nel contempo hanno stabilito il record mondiale di sensibilità per una ricerca di particelle di materia oscura WIMP. «Purtroppo», informa Monzani, «in questa ricerca non abbiamo scoperto la particella di materia oscura». Tuttavia il lavoro svolto fin qui era orientato a testare l’esperimento non meno che a rilevare le particelle. «Sapevamo che l’esposizione non sarebbe stata sufficiente per una scoperta», spiega la cosmologa. «Abbiamo immediatamente avviato una campagna di raccolta dati più lunga, che durerà fino al 2028 e accumulerà un’esposizione venti volte maggiore, permettendoci di sondare scenari interessanti che descrivono la natura della particella di materia oscura». La ricerca dell’ignoto nell’universo prosegue.