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Papa Francesco, dopo il suo viaggio in Cile, rigettando la logica del “capro espiatorio”, si è assunto in prima persona la responsabilità e la “vergogna” dello scandalo degli abusi su minori commessi da prelati nel Paese latino-americano, e della sua gestione. Con questo spirito, il Papa al ritorno dal Cile ha costituito una commissione speciale, guidata da S.E. mons. Charles J. Scicluna, per ascoltare direttamente le testimonianze delle vittime e raccogliere documentazione. A seguito della visita in Cile e della relazione di tale “Missione speciale” papa Francesco, con una lettera datata l’8 aprile, ha convocato a Roma tutti i vescovi cileni “per dialogare sulle conclusioni della suddetta visita e sulle mie conclusioni”.
All’inizio dell’incontro, avvenuto effettivamente dal 15 al 17 maggio 2018, il Papa ha consegnato ai vescovi una lettera di 10 pagine, resa poi nota dalla emittente cilena Tv 13. Ne abbiamo reso disponibile una nostra traduzione italiana.
Al termine dell’incontro ha consegnato ai vescovi cileni una breve lettera pubblica e ha loro affidato, perché fosse resa pubblica, una lettera al “popolo di Dio” del Cile. Di essa forniamo qui di seguito una nostra traduzione.
Il 18 maggio i vescovi cileni hanno rilasciato una dichiarazione ufficiale, annunciando tra l’altro: “Abbiamo rimesso per iscritto nelle mani del santo padre i nostri incarichi, affinché liberamente decida a riguardo di ciascuno di noi.
Pubblichiamo oggi questi testi non solo per documentare il processo avviato dal Papa per affrontare il dramma degli abusi sui minori, partendo da una situazione concreta; ma anche per far emergere quale visione di Chiesa sia possibile individuare dalle parole del Papa, alla luce di questo discernimento, necessitato da una situazione di gravissima “tribolazione”. Su questo tema la nostra rivista ha pubblicato un ampio saggio di p. Diego Fares.
Forniamo qui anche una nostra traduzione di un testo dell’allora p. Jorge Mario Bergoglio S.I. sulla «dottrina della tribolazione».
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Cari fratelli e sorelle,
Lo scorso 8 aprile ho convocato a Roma i miei fratelli vescovi per cercare insieme strade di verità e di vita, nel breve, medio e lungo termine, davanti a una ferita aperta, dolorosa, complessa, che sta sanguinando da molto tempo[1]. E ho loro suggerito di invitare tutto il Santo Popolo fedele di Dio a mettersi in stato di preghiera affinché lo Spirito Santo ci desse la forza di non cedere alla tentazione di invischiarci in vuoti giochi di parole, in diagnosi sofisticate o in gesti vani, e, invece, ci aiutasse a trovare il coraggio necessario per guardare in faccia il dolore causato, il volto delle sue vittime, la portata degli avvenimenti. Li invitavo a guardare in quale direzione ci spinge lo Spirito Santo, poiché «il chiudere gli occhi di fronte al prossimo rende ciechi anche di fronte a Dio»[2].
Ho ricevuto con gioia e speranza la notizia che sono state molte le comunità, i paesi e le cappelle in cui il Popolo di Dio si è raccolto in preghiera, specie nei giorni in cui eravamo riuniti con i vescovi: il Popolo di Dio in ginocchio che implora il dono dello Spirito Santo per ricevere luce nella Chiesa «ferita a causa del proprio peccato, colmata di misericordia dal suo Signore, e convertita in profetica per vocazione»[3]. Sappiamo che la preghiera non è mai vana e che «nel mezzo dell’oscurità comincia sempre a sbocciare qualcosa di nuovo, che presto o tardi produce un frutto»[4].
1) Quello di fare appello a voi, di chiedervi preghiera, non è stato un atto d’ufficio, e nemmeno un mero gesto di buona volontà. Al contrario, ho voluto inquadrare le cose nel loro preciso e prezioso posto e mettere il tema dove è bene che stia: il Popolo di Dio infatti ha la condizione della «dignità e la libertà dei figli di Dio, nel cuore dei quali dimora lo Spirito Santo come in un tempio»[5]. Il Santo Popolo fedele di Dio è unto con la grazia dello Spirito Santo; pertanto al momento di riflettere, pensare, valutare, discernere, dobbiamo stare molto attenti a questa unzione. Ogni volta che come Chiesa, come pastori, come consacrati, dimentichiamo questa certezza, sbagliamo strada. Ogni volta che cerchiamo di soppiantare, tacitare, annullare, ignorare o ridurre a piccole élite il Popolo di Dio nella sua totalità e nelle sue differenze, costruiamo comunità, piani pastorali, accentuazioni teologiche, spiritualità, strutture senza radici, senza storia, senza volti, senza memoria, senza corpo, in definitiva senza vite. Il fatto stesso di sradicarci dalla vita del Popolo di Dio ci fa precipitare nella desolazione e nella perversione della natura ecclesiale; la lotta contro una cultura dell’abuso richiede che rinnoviamo questa certezza.
Voglio dire in modo speciale a ciascuno quel che ho detto ai giovani a Maipú: «La Santa Madre Chiesa, oggi ha bisogno del Popolo fedele di Dio: che ci interpelliate. […] La Chiesa ha bisogno che voi diventiate maggiorenni, spiritualmente maggiorenni, e abbiate il coraggio di dirci: “Questo mi piace; questa strada mi sembra sia quella da fare; questo non va bene” […]. Diteci quello che sentite, quello che pensate»[6]. Se lo facciamo, riusciremo a coinvolgere tutti noi in una Chiesa di respiro sinodale che sa mettere Gesù al centro.
Nel Popolo di Dio non esistono cristiani di prima, seconda o terza categoria. La loro partecipazione attiva non dipende da concessioni volenterose, ma è invece costitutiva della natura ecclesiale. È impossibile immaginare il futuro senza questa unzione operante in ciascuno di voi che certamente reclama e richiede rinnovate forme di partecipazione. Esorto tutti i cristiani a non avere paura di essere protagonisti della trasformazione che oggi è richiesta e a spingere e promuovere alternative creative nella ricerca quotidiana di una Chiesa che vuole ogni giorno mettere al centro ciò che è importante. Invito tutti gli organismi diocesani – di qualsiasi area – a cercare con coscienza e lucidità spazi di comunione e partecipazione, affinché l’Unzione del Popolo di Dio possa trovare le mediazioni concrete attraverso cui manifestarsi.
Il rinnovamento della gerarchia ecclesiale, di per sé, non genera la trasformazione a cui ci spinge lo Spirito Santo. Ci viene richiesto di promuovere congiuntamente una trasformazione ecclesiale che ci abbracci tutti.
Una Chiesa profetica e, pertanto, capace di dare speranza, richiede a tutti una mistica a occhi aperti, interpellante e non assopita[7]. Non fatevi rubare l’unzione dello Spirito.
2) «Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai da dove viene né dove va: così è chiunque è nato dallo Spirito» (Gv 3,8). Così Gesù rispondeva a Nicodemo in quel dialogo tra loro sulla possibilità di nascere di nuovo per entrare nel Regno dei cieli.
In questo momento, alla luce di questo passo, ci fa bene rivedere la nostra storia personale e comunitaria: lo Spirito Santo soffia dove vuole e come vuole al solo fine di aiutarci a nascere di nuovo. Lo Spirito non vuole che ci lasciamo rinchiudere dentro schemi, modalità, strutture fisse o transitorie, non vuole che ci rassegniamo o «abbassiamo la guardia» davanti agli eventi: al contrario, si muove incessantemente per dilatare le visioni ristrette, per fare sognare chi ha perduto la speranza[8], per fare giustizia nella verità e nella carità, per purificare dal peccato e dalla corruzione, e per invitare sempre alla necessaria conversione. Senza questa visione di fede qualsiasi cosa potremmo dire o fare andrebbe a vuoto. Questa certezza è imprescindibile per guardare al presente senza evasività ma con audacia, con coraggio ma saggiamente, con tenacia ma senza violenza, con passione ma senza fanatismo, con costanza ma senza ansietà, e così cambiare tutto quello che oggi può mettere a rischio l’integrità e la dignità di ogni persona; infatti le soluzioni di cui c’è bisogno richiedono che si affrontino i problemi senza farsene irretire, o, peggio ancora, ripetere quegli stessi meccanismi che vogliamo eliminare[9]. Oggi siamo spronati a guardare a viso aperto il conflitto, ad accettare di sopportarlo, per essere in grado di risolverlo e trasformarlo in un anello di collegamento di un nuovo processo[10].
3) In primo luogo, sarebbe ingiusto attribuire questo processo soltanto agli ultimi avvenimenti vissuti. Tutto il processo di revisione e di purificazione che stiamo vivendo è possibile grazie allo sforzo e alla perseveranza di persone concrete che, finanche contro ogni speranza e a rischio del discredito, non si sono stancate di cercare la verità; mi riferisco alle vittime degli abusi sessuali, di potere, di autorità e a coloro che a suo tempo li hanno creduti e li hanno accompagnati. Vittime le cui grida sono giunte fino al cielo[11]. Vorrei ancora una volta ringraziare pubblicamente il coraggio e la perseveranza di tutti loro.
Questo ultimo tempo è tempo di ascolto e di discernimento per arrivare alle radici che hanno permesso a simili atrocità di prodursi e di perpetuarsi, e trovare così soluzioni allo scandalo degli abusi non con mere strategie di contenimento – imprescindibili, ma insufficienti –, ma con tutte le misure necessarie per riuscire ad assumere il problema nella sua complessità.
In questo senso vorrei soffermarmi sulla parola «ascolto», perché discernere presuppone imparare ad ascoltare ciò che lo Spirito vuole dirci. E potremo farlo soltanto se siamo capaci di ascoltare la realtà di ciò che accade[12].
Credo che stia qui una delle nostre principali mancanze e omissioni: nel non sapere ascoltare le vittime. Sicché sono state elaborate conclusioni parziali a cui mancavano elementi cruciali per un discernimento sano e chiaro. Devo dire con vergogna che non abbiamo saputo ascoltare e reagire tempestivamente.
La visita di monsignor Scicluna e monsignor Bertomeu nasce dalla constatazione che esistevano situazioni che non sapevamo vedere e ascoltare. Come Chiesa non potevamo continuare a ignorare il dolore dei nostri fratelli. Dopo aver letto il rapporto ho voluto incontrare personalmente alcune vittime di abuso sessuale, di potere e di coscienza, per ascoltarle e chiedere loro perdono per i nostri peccati e omissioni.
4) In questi incontri ho constatato che la mancanza di riconoscimento/ascolto delle loro storie, come anche del riconoscimento/accettazione degli errori e delle omissioni in tutto il processo, ci impediscono di andare avanti. Un riconoscimento che vuole essere, più che un’espressione di buona volontà verso le vittime, un nuovo modo di soffermarci davanti alla vita, davanti agli altri e davanti a Dio. La speranza nel domani e la fiducia nella Provvidenza nascono e crescono dall’assunzione delle fragilità, dei limiti e finanche del peccato per aiutarci a riuscire[13]. Il «mai più» alla cultura dell’abuso, come pure al sistema di connivenze che gli permette di perpetuarsi, richiede che tutti insieme lavoriamo per generare una cultura dell’accoglienza che impregni i nostri modi di relazionarci, di pregare, di pensare, di vivere l’autorità; le nostre abitudini e i nostri linguaggi e la nostra relazione con il potere e con il denaro. Oggi sappiamo che la migliore parola che possiamo proferire di fronte al dolore causato è l’impegno alla conversione personale, comunitaria e sociale, che impari ad ascoltare e ad accogliere specialmente i più vulnerabili. È urgente, pertanto, generare spazi dove la cultura dell’abuso e della connivenza non sia lo schema dominante; dove un atteggiamento critico e di contestazione non venga confuso col tradimento. Questo deve spingerci come Chiesa a cercare con umiltà tutti gli attori che compongono la realtà sociale e a promuovere istanze di dialogo e confronto costruttivo per camminare verso una cultura di accoglienza e di protezione.
Se pretendessimo di coronare questa impresa soltanto da soli o con le nostre forze e i nostri strumenti, ci chiuderemmo in pericolose dinamiche volontaristiche che a breve termine verrebbero meno[14]. Lasciamoci aiutare e aiutiamo a generare una società dove la cultura dell’abuso non trovi spazio per perpetuarsi. Esorto tutti i cristiani e specialmente i responsabili dei Centri di formazione educativa superiore, degli ordinamenti educativi istituzionali e non istituzionali, dei Centri sanitari, degli Istituti di formazione e delle Università, a unire gli sforzi nelle diocesi e con il complesso della società civile per promuovere, con lucidità e in maniera strategica, una cultura dell’accoglienza e della protezione. Ciascuno di questi spazi si faccia promotore di una nuova mentalità.
5) La cultura dell’abuso e della connivenza è incompatibile con la logica del Vangelo, perché la salvezza offerta da Cristo è sempre una proposta, un dono che reclama e richiede la libertà. È lavando i piedi ai discepoli che Cristo ci mostra il volto di Dio. Non è mai nella coercizione o nell’obbligatorietà, ma nel servizio. Diciamolo chiaramente: tutti i mezzi che attentano alla libertà e all’integrità delle persone sono anti-evangelici; pertanto è necessario che sappiamo generare processi di fede in cui si impari a sapere quando è necessario dubitare e quando non è necessario. «La dottrina, o meglio, la nostra comprensione ed espressione di essa, “non è un sistema chiuso, privo di dinamiche capaci di generare domande, dubbi, interrogativi”, e “le domande del nostro popolo, le sue pene, le sue battaglie, i suoi sogni, le sue lotte, le sue preoccupazioni, possiedono un valore ermeneutico che non possiamo ignorare se vogliamo prendere sul serio il principio dell’incarnazione”»[15]. Invito tutti i Centri di formazione religiosa, le facoltà teologiche, gli istituti superiori, i seminari, le case di formazione e di spiritualità a promuovere una riflessione teologica che sappia essere all’altezza del tempo presente, promuovere una fede matura, adulta, e che assuma l’humus vitale del Popolo di Dio con le sue domande e le sue obiezioni. E, quindi, a promuovere comunità capaci di combattere le situazioni di abuso, comunità in cui il dialogo, la discussione, il confronto siano benvenuti[16]. Saremo fecondi nella misura in cui rafforzeremo comunità aperte dall’interno e quindi libere da pensieri chiusi e autoreferenziali pieni di promesse e di miraggi che assicurano vita, ma in definitiva favoriscono la cultura dell’abuso.
Vorrei fare un breve riferimento alla pastorale popolare che si vive in molte delle vostre comunità, in quanto è un tesoro inestimabile e una scuola autentica in cui apprendere ad ascoltare il cuore del nostro popolo e nel contempo il cuore di Dio. Nella mia esperienza di pastore ho imparato a scoprire che la pastorale popolare è uno dei pochi spazi in cui il Popolo di Dio è svincolato dall’influenza di quel clericalismo che cerca sempre di controllare e di frenare l’unzione di Dio sul suo popolo. Imparare dalla pietà popolare è imparare a intavolare un nuovo tipo di relazione, di ascolto e di spiritualità che richiede molto rispetto e non si presta a letture rapide e semplicistiche, perché la pietà popolare «manifesta una sete di Dio che solo i semplici e i poveri possono conoscere»[17].
Essere «Chiesa in uscita» è anche lasciarsi aiutare e interpellare. Non dimentichiamoci che «il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai da dove viene né dove va: così è chiunque è nato dallo Spirito» (Gv 3,8).
6) Come vi dicevo, negli incontri con le vittime ho potuto constatare che il mancato riconoscimento ci impedisce di camminare. Per questo credo necessario farvi sapere che sono stato molto allietato e mi ha dato grande speranza confermare, nel dialogo con loro, la loro stessa riconoscenza per quelle persone che mi piace chiamare «i santi della porta accanto»[18]. Saremmo ingiusti se accanto al nostro dolore e alla nostra vergogna per queste strutture di abuso e connivenza che si sono così tanto perpetuate e tanto male hanno fatto, non riconoscessimo quei molti fedeli laici, consacrati, consacrate, sacerdoti, vescovi che danno la vita per amore nelle zone più recondite dell’amata terra cilena. Sono tutti cristiani che sanno piangere con gli altri, che cercano la giustizia con fame e sete, che guardano e agiscono con misericordia[19]; cristiani che ogni giorno cercano di illuminare la loro vita alla luce del protocollo secondo il quale verremo giudicati: «Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi» (Mt 25, 34-36).
Sono loro riconoscente e li ringrazio del loro coraggioso e costante esempio col quale, in momenti di tumulto, vergogna e dolore, continuano a mettersi in gioco con gioia per il Vangelo.
Questa testimonianza mi fa tanto bene e mi sostiene nella mia personale aspirazione a superare l’egoismo per spendermi di più[20]. Senza in alcun modo togliere importanza e serietà al male causato e alla ricerca delle radici del problema, ci impegna anche a riconoscere la forza dello Spirito che agisce e opera in tante vite. Senza questo sguardo rimarremmo a metà strada e potremmo addentrarci in una logica che, anziché cercare di dare forza a ciò che c’è di buono e di rimediare a ciò che è sbagliato, evidenzierebbe una realtà parziale cadendo in una grave ingiustizia.
Accettare i successi, così come i limiti personali e comunitari, non è una notizia tra le altre: è il primo passo di qualsiasi autentico processo di conversione e di trasformazione. Non dimentichiamoci mai che Gesù Cristo risorto si presenta ai suoi con le piaghe; anzi, proprio a partire dalle sue piaghe Tommaso può confessare la fede. Siamo invitati a non dissimulare o nascondere o coprire le nostre piaghe.
Una Chiesa con le piaghe è capace di comprendere e di commuoversi per le piaghe del mondo di oggi e di farle sue, patirle, accompagnarle e muoversi per cercare di sanarle. Una Chiesa con le piaghe non si pone al centro, non si crede perfetta, non cerca di coprire o nascondere il suo male, ma proprio lì pone al centro l’unico che può sanare le ferite e che ha un nome: Gesù Cristo[21].
È questa certezza che ci muoverà a cercare, al momento opportuno e non opportuno, l’impegno a generare una cultura in cui ogni persona abbia il diritto di respirare un’aria libera da qualsiasi tipo di abuso. Una cultura libera da connivenze che finiscono per viziare tutte le nostre relazioni. Una cultura che di fronte al peccato sappia generare una dinamica di pentimento, misericordia e perdono, e, davanti al crimine, generi la denuncia, il giudizio e la sanzione.
7) Cari fratelli, cominciavo questa lettera dicendovi che fare appello a voi non è un atto d’ufficio o un gesto di buona volontà, ma al contrario è invocare l’unzione che possedete come Popolo di Dio. Con voi sarà possibile fare i passi necessari per un rinnovamento e una conversione ecclesiale davvero sani e a lungo termine. Con voi si potrà generare la trasformazione necessaria di cui c’è tanto bisogno. Senza di voi non si può fare niente. Esorto tutto il Santo Popolo fedele di Dio che vive in Cile a non avere paura di farsi coinvolgere e di camminare sospinto dallo Spirito alla ricerca di una Chiesa ogni giorno più sinodale, profetica e apportatrice di speranza; meno abusiva perché sa mettere Gesù al centro, nell’affamato, nel detenuto, nel migrante, nell’abusato.
Vi chiedo di non dimenticarvi di pregare per me. Io lo faccio per voi e chiedo a Gesù di benedirvi e alla Vergine santa di proteggervi.
Francesco
Vaticano, 31 maggio 2018, festa della Visitazione della Madonna
Traduzione italiana © “La Civiltà Cattolica” 2018 – Tutti i diritti riservati.
La versione originale della lettera è pubblicata sul sito della Conferenza episcopale del Cile.
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[1] Francesco, Lettera ai vescovi del Cile a seguito del report consegnato da S.E. monsignor Charles J. Scicluna, 8 aprile 2018.
[2] Benedetto XVI, Deus caritas est, 16.
[3] Cfr Francesco, Incontro con sacerdoti, religiosi e religiose, consacrati e seminaristi, cattedrale di Santiago del Cile, 16 gennaio 2018.
[4] Francesco, Evangelii gaudium, 276.
[5] Cfr Concilio vaticano II, Lumen gentium, 9.
[6] Cfr Francesco, Incontro con i giovani, santuario nazionale di Maipú, 17 gennaio 2018.
[7] Cfr Id., Gaudete et exsultate, 137.
[8] Cfr Id., Omelia nella messa di Pentecoste, 20 maggio 2018.
[9] È giusto riconoscere che alcune organizzazioni e mezzi di comunicazione hanno assunto il tema degli abusi in un modo responsabile, cercando sempre la verità e non facendo di questa dolorosa realtà una risorsa mediatica per accrescere il rating dei loro programmi. Meritano che questo venga loro riconosciuto.
[10] Cfr Francesco, Evangelii gaudium, 227.
[11] «Il Signore disse: “Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sovrintendenti: conosco le sue sofferenze”» (Es 3,7).
[12] Ricordiamo che è stata questa la prima parola-mandato che il popolo di Israele ha ricevuto da Jahvè: «Ascolta, Israele» (Dt 6,4).
[13] Cfr Francesco, Visita al Centro penitenziario femminile, Santiago del Cile, 16 gennaio 2018.
[14] Cfr Id., Gaudete et exsultate, 47-59.
[15] Cfr ivi, 44.
[16] È imprescindibile dare luogo a quel tanto necessario rinnovamento nei centri di formazione che è stato promosso dalla recente costituzione apostolica Veritatis gaudium. A modo di esempio sottolineo che «l’esigenza prioritaria oggi all’ordine del giorno, infatti, è che tutto il Popolo di Dio si prepari ad intraprendere “con spirito” una nuova tappa dell’evangelizzazione. Ciò richiede “un deciso processo di discernimento, purificazione e riforma”. E in tale processo è chiamato a giocare un ruolo strategico un adeguato rinnovamento del sistema degli studi ecclesiastici. Essi, infatti, non sono solo chiamati a offrire luoghi e percorsi di formazione qualificata dei presbiteri, delle persone di vita consacrata e dei laici impegnati, ma costituiscono una sorta di provvidenziale laboratorio culturale in cui la Chiesa fa esercizio dell’interpretazione performativa della realtà che scaturisce dall’evento di Gesù Cristo e che si nutre dei doni della Sapienza e della Scienza di cui lo Spirito Santo arricchisce in varie forme tutto il Popolo di Dio: dal sensus fidei fidelium al magistero dei Pastori, dal carisma dei profeti a quello dei dottori e dei teologi» (Francesco, Veritatis gaudium, 3).
[17] Paolo VI, Evangelii nuntiandi, 48.
[18] Cfr Francesco, Gaudete et exsultate, 6-9.
[19] Cfr ivi, 76.79.82.
[20] Cfr Id,, Evangelii gaudium, 76.
[21] Cfr Id., Incontro con sacerdoti, religiosi e religiose, consacrati e seminaristi, cit.