Aung San Suu Kyi è stata arrestata dalle forze armate e i militari hanno preso il controllo del Myanmar. Lo ha annunciato la Lega nazionale per la democrazia (LND), partito della premio Nobel. Papa Francesco aveva visitato il Myanmar nel 2017 e incontrato Aung San Suu Kyi. Riproponiamo la cronaca di quel viaggio realizzata da p. Antonio Spadaro S.I.
All’interno del suo itinerario verso est, dopo la Corea (2014), lo Sri Lanka e le Filippine (2015), Francesco è approdato in Myanmar e Bangladesh. L’aereo con a bordo il Pontefice è decollato dall’aeroporto di Fiumicino alle ore 22,10 del 26 novembre ed è atterrato all’aeroporto di Yangon alle ore 13,20 (ora locale) del giorno successivo.
Profezia evangelica e diplomazia: forse così si potrebbe riassumere il senso del viaggio apostolico di papa Francesco in Myanmar e Bangladesh, cioè nel cuore del continente asiatico. La nostra rivista ha già descritto la situazione che il Papa avrebbe trovato, atterrando nel punto di congiunzione di India, Cina e Sud-est asiatico[1]. Molti sono i piani di lettura di questo viaggio. Cercheremo di proporne i principali.
La Chiesa «ospedale da campo»
Nell’itinerario di Francesco nel cuore dell’Asia c’è una dimensione geopolitica. Pensiamo, per esempio, alla nuova via della seta[2] e alle tensioni nazionaliste indiane[3] che riguardano l’area. Essa si intreccia con la questione religiosa, lì dove buddismo e islam si incontrano e si scontrano. Francesco è passato dal Myanmar, a grande maggioranza buddista (88% della popolazione), al Bangladesh, in gran parte musulmano (90%). E il cuore dell’Asia, lo sappiamo bene, è anche terra di martiri cristiani. Dialogo politico e dialogo interreligioso, dunque, sono le forme della «cultura dell’incontro» che Francesco predica da sempre. Il suo sguardo politico è frutto di quelle domande che egli – come ha detto nella conferenza stampa sul volo – si pone «da Papa». Il Vangelo è per il mondo, e deve essere lievito. Nello sguardo di Francesco, le piccole comunità cristiane in Paesi che hanno altre maggioranze hanno il valore di «seme» di futuro, con il compito eminentemente profetico di costruire legami e ponti in tessuti sfilacciati o addirittura lacerati. Non toppe, ma cuciture.
Questo viaggio apostolico appariva come problematico, arduo, rischioso, su una frontiera difficile e conflittuale. In particolare, a causa della tragica situazione dei rohingya, un gruppo etnico di religione islamica che, secondo i rapporti delle Nazioni Unite, è una delle minoranze più perseguitate nel mondo.
Se già nei suoi precedenti viaggi il Papa aveva chiaramente fatto intendere che la Chiesa è e deve sempre essere «ospedale da campo»[4], questo suo ventunesimo viaggio lo ha pienamente confermato. Anzi, egli lo ha detto chiaramente ai vescovi del Myanmar, interrompendo la lettura del discorso preparato. Come pure ha ribadito la necessità di uno sguardo profetico che porti a confermare nella fede un gregge cattolico piccolo, che sa di dover lavorare per il bene del mondo insieme agli altri e alle altre religioni.
«Ospedale da campo», però, non è solo una metafora. Spesso è proprio l’ospedale la forma che la Chiesa assume per dare la propria testimonianza: in Myanmar ci sono 87 centri sanitari cattolici, tra i quali 6 ospedali; e in Bangladesh 93 centri, dei quali 10 ospedali. E non è un caso che Francesco abbia visitato, a Dacca, la casa in cui Madre Teresa si fermava a dormire quando andava in Bangladesh: la santa di Calcutta non ha mai fatto distinzioni di credo o di razza.
Poco prima della partenza del Pontefice era arrivata improvvisa la notizia di un accordo per far sì che i profughi musulmani rifugiati in Bangladesh potessero almeno in parte tornare in patria, cioè in Myanmar: un segno di valore politico. Lo scoglio è una restrittiva legge del 1982 sulla cittadinanza del Myanmar, che non comprende la minoranza rohingya tra quelle riconosciute nel Paese.
Attorno alla Cina, potenza mondiale
Un altro elemento importante di questo viaggio è il fatto che il Papa abbia richiamato in maniera esplicita il nuovo ruolo che la Cina vuole svolgere – e sta già svolgendo – nel contesto internazionale. Un dato di fatto che Francesco stesso ha riassunto, nella conferenza stampa al rientro a Roma, con queste precise parole: «Pechino ha una grande influenza sulla regione, perché è naturale: il Myanmar non so quanti chilometri di frontiera ha lì; anche nelle Messe c’erano cinesi che sono venuti… Credo che questi Paesi che circondano la Cina, anche il Laos, la Cambogia, hanno bisogno di buoni rapporti, sono vicini. E questo lo trovo saggio, politicamente costruttivo, se si può andare avanti. Però, è vero che la Cina oggi è una potenza mondiale: se la vediamo da questo lato, può cambiare il panorama»[5].
Che questo viaggio apostolico sia legato in qualche modo alla Cina non è dovuto soltanto al fatto che il Myanmar confina con quel grande Paese per 2.200 km. Come il Papa ha fatto notare, c’era un gruppo di fedeli cinesi con la bandiera della Repubblica popolare ad attenderlo alla cattedrale di Yangon, dopo l’incontro con i vescovi. Non solo: il 27 novembre Global Times – un tabloid prodotto dal quotidiano ufficiale del Partito comunista cinese, il Quotidiano del Popolo – ha pubblicato on line, nella sezione «Diplomazia», un post fotografico di Francesco che abbraccia una ragazza vestita in abiti tradizionali, con il titolo «Caloroso abbraccio» (Warm hug)[6]. E lo stesso quotidiano, il 29 novembre, ha dedicato per la prima volta un articolo a un viaggio papale – con grande foto –, dando una valutazione di ciò che Francesco ha detto e ha fatto in Myanmar. Il titolo nell’edizione a stampa era: Respect each ethnic group: Pope[7]. E prima del viaggio di Francesco era stato pubblicato, il 25 novembre, un articolo su China Daily – il più diffuso quotidiano cinese in lingua inglese, con sede a Pechino – interamente dedicato ai gesuiti che hanno «lasciato un segno indelebile nella Nazione». Il titolo dell’articolo è: «Uomini in missione» (Men on a mission )[8].
Due dati ulteriori: il consigliere di Stato e ministro degli Affari Esteri del Myanmar, la sig.ra Aung San Suu Kyi, dopo aver ricevuto Francesco, è volata a Pechino. E il Papa stesso ha accennato, nella conferenza stampa in volo, ai contatti con Pechino per studiare i rapporti tra Cina e Santa Sede.
Non ha neppure nascosto il suo desiderio di un eventuale viaggio: «Mi piacerebbe, non è una cosa nascosta. Le trattative con la Cina sono di alto livello culturale». Ma ha aggiunto: «Poi c’è il dialogo politico, soprattutto per la Chiesa cinese, con quella storia della Chiesa patriottica e della Chiesa clandestina, che si deve fare passo passo, con delicatezza, come si sta facendo. Lentamente». E ha concluso: «Ma le porte del cuore sono aperte. E credo che farà bene a tutti, un viaggio in Cina. A me piacerebbe farlo…».
La diplomazia come parte integrante della profezia
Parlando della Cina, Francesco ha usato un’espressione interessante: vedere le cose da un lato che può cambiare la percezione del panorama. E ha parlato di relazioni internazionali «politicamente costruttive». Non dobbiamo lasciarci sfuggire il senso di queste parole, che sono la chiave della «diplomazia della misericordia» di Bergoglio. Il Papa è costruttivo nei suoi gesti e nelle sue parole. Non fa cose per pressione mediatica o per acquisire luce positiva: fa quel che deve fare per «costruire» ponti e tenere aperte le porte del dialogo. Il suo è un realismo che punta a tessere relazioni.
Il Papa stesso lo ha spiegato molto bene nella conferenza stampa, sintetizzando in maniera semplice e immediata il suo modo di comunicare: «Per me, la cosa più importante è che il messaggio arrivi, e perciò cercare di dire le cose passo dopo passo e ascoltare le risposte, affinché arrivi il messaggio. Faccio un esempio dalla vita quotidiana: un ragazzo, una ragazza nella crisi dell’adolescenza può dire quello che pensa sbattendo la porta in faccia all’altro, e il messaggio non arriva, si chiude. A me invece interessa che questo messaggio arrivi»[9].
Che cosa ciò significhi, lo si è visto nel caso dei rohingya. Alla vigilia di questo viaggio, abbiamo assistito a una forte pressione mediatica sul Pontefice. Sembrava quasi che la stessa credibilità morale del pontificato si giocasse sull’uso o meno della parola «rohingya»: parola che veniva considerata impronunciabile nel contesto del Myanmar, perché connotata politicamente. Per molti, il Papa era davanti a una alternativa senza vie di mezzo: pronunciare la parola «rohingya» e così farsi paladino di una etnia perseguitata, irritando però il governo e compromettendo il dialogo; oppure non pronunciarla, evitando conflitti, ma perdendo credibilità morale. Qualche commentatore ha persino scritto che il Papa avrebbe fatto bene a non intraprendere questo viaggio. Ma Francesco è volato in questo cuore conflittuale dell’Asia proprio perché questo era un viaggio difficile, come ha spiegato ai gesuiti in Myanmar, aggiungendo che bisogna «abitare i crocevia della storia»[10].
In Myanmar ha voluto «tenere sempre presente la costruzione del Paese», come ha detto al rientro. Per questo ha saputo parlare dei rohingya – e tanto! – in modo da essere ascoltato senza acuire le tensioni e provocare irrigidimenti e polarizzazioni che avrebbero soltanto complicato la loro situazione.
E poi li ha incontrati in Bangladesh, faccia a faccia: 16 persone, che ha ascoltato e alle quali ha chiesto di pregare. Lì ha potuto chiamare il loro gruppo etnico per nome. In questo senso ha saputo sapientemente coniugare diplomazia e profezia. E ha lasciato sotto i riflettori del mondo per diversi giorni la tragedia di una popolazione perseguitata, costringendo i giornali a parlarne, anche solamente per giudicare il suo comportamento.
Ma c’è anche chi nell’opinione pubblica ha espresso perplessità nei confronti del supporto ai rohingya, perché tra essi ci sono gruppi terroristici di matrice islamica che vogliono approfittare della situazione. Gli stessi militari del Myanmar fanno leva su queste idee. Il Papa ha risposto a queste obiezioni durante la sua conferenza stampa in aereo, facendo notare che i fondamentalisti ci sono in tutte le etnie e le religioni, e che proprio per questo aveva scelto di parlare con loro: perché sono vittime sia dell’oppressione sia della deriva fondamentalista, che ne è, in realtà, una conseguenza.
Francesco, dunque, ha percorso la propria strada, con discrezione – e non con timidezza –, incurante delle opposte polemiche e delle pressioni. Cercheremo quindi di seguire le tappe e gli eventi di questo viaggio, che è uno tra i più impegnativi compiuti dal Pontefice.
Il sogno di un Myanmar riconciliato tra politica e religioni
Il viaggio in Myanmar avviene solo pochi mesi dopo l’instaurazione, all’inizio del maggio scorso, di piene relazioni diplomatiche con la Santa Sede. Ed è il primo viaggio di un Pontefice in questo Paese. La piccola ma fervente comunità cattolica della nazione ha celebrato nel 2014 la beatificazione di due martiri: un catechista autoctono e un missionario italiano.
Al suo arrivo, il Papa ha trovato ad accoglierlo una grande folla in festa lungo le strade della città dall’aeroporto all’arcivescovado, espressione delle sedici diocesi del Paese, animate da 900 sacerdoti, 2.400 suore e un esercito di catechisti, che svolgono un lavoro straordinario tra le comunità più remote.
Su Yangon – città di 6 milioni di abitanti – domina la cupola d’oro della Schwedagon Paya, alta 99 metri, la più sacra pagoda del Myanmar, che è stata costruita 2.500 anni fa e che conserva reliquie del Buddha. Essa è stata visitata nel pomeriggio in forma privata dal seguito papale. Ma sotto la pagoda la città non nasconde i grandi contrasti tra i bellissimi parchi, i nuovi, avveniristici grattacieli e le viuzze trafficate, solcate dai risciò di stile cinese e dove abbondano case fatiscenti, quasi baraccopoli.
I primi giorni – dal programma non troppo fitto – hanno permesso di porre la basi della visita e sviluppare i suoi temi fondamentali. Nel pomeriggio del 27 novembre, in arcivescovado, il Papa ha accettato di ricevere la più alta autorità militare, il generale Min Aung Hlaing, con il quale ha parlato della situazione del Paese in questo momento di transizione.
Il Papa sa perfettamente che una politica di riconciliazione nazionale non può non coinvolgere anche i militari al governo, e per questo accetta – se gli viene chiesto – di incontrare tutte le parti in causa. Dal 2010, il governo ha attuato graduali riforme e scarcerato gli oppositori, convocando libere elezioni. Ma il processo è ancora in corso. Ecco il commento del Pontefice su quell’incontro: «Parlando non si perde nulla, si guadagna sempre». E ha chiarito: «Non ho negoziato la verità, vi assicuro. Ma l’ho fatto in modo tale che lui capisse un po’ che una strada, come era nei brutti tempi, rinnovata oggi, non è percorribile. È stato un bell’incontro, civile; e anche lì, il messaggio è arrivato»[11]. L’incontro risponde alla logica di Bergoglio: accettarlo, se viene richiesto da una parte coinvolta in un conflitto, e ritenere sempre «più importante il dialogo del sospetto».
La mattina del 28 novembre il Papa ha incontrato, presso l’arcivescovado di Yangon, 17 leader religiosi del Myanmar: buddisti, musulmani, hindu, ebrei, cristiani (anglicani e cattolici). La parola chiave è stata «armonia». In un tempo nel quale «sperimentiamo una tendenza mondiale verso l’uniformità, a rendere tutto uguale», invece si può imparare dalle differenze. Ed è grazie a questo sentirsi «fratelli», ha concluso il Papa, che si costruisce il Paese.
I due incontri non erano previsti ufficialmente dal calendario degli appuntamenti del giorno, ma hanno reso evidenti il livello religioso e quello politico del viaggio, uniti dal sogno di una riconciliazione del Paese. E questo è il «sogno» perseguito nell’incontro ufficiale e diretto con le autorità che Francesco ha avuto, il 28 novembre, nella capitale del Paese, Nay Pyi Taw. La città si sviluppa in spazi giganteschi, tra ministeri, edifici governativi, centri commerciali e alberghi. Le strade hanno fino a 20 corsie e si estendono a perdita d’occhio. Il Papa ha incontrato in forma privata il presidente Htin Kyaw, e successivamente il consigliere di Stato e ministro degli Affari Esteri, la sig.ra Aung San Suu Kyi.
L’incontro con Aung San Suu Kyi
Il Pontefice si è poi recato all’International Convention Centre, dove il suo discorso è stato preceduto da quello della sig.ra Aung San Suu Kyi. Per intendere bene la figura della leader birmana occorre ricordare che i militari hanno mantenuto il controllo dei gangli vitali del potere. Siamo in presenza di una democrazia incompleta, e la «signora» – come la chiamano in Myanmar – è costretta a camminare su una strada molto stretta, dove basta poco per perdere tutto, mandando in fumo il lavoro di una vita per la libertà e la democrazia. Il Papa ne era perfettamente consapevole.
Nel suo discorso, la «signora» ha citato le beatitudini evangeliche, intese come «un programma e una sfida per i leader politici e religiosi, per i capi delle istituzioni internazionali e per i dirigenti delle imprese e dei media». E ha aggiunto: «È una sfida costruire società, comunità e imprese, agendo da pacificatori. È mostrare pietà, rifiutando di scartare le persone, di danneggiare l’ambiente o di cercare di vincere a ogni costo».
Queste non sono sembrate parole di circostanza, anche perché Aung San Suu Kyi ha chiaramente affermato che la strada per la pace «non è agevole», ma «è l’unica via che porterà il nostro popolo al sogno di una terra giusta e prospera, che sarà rifugio, orgoglio e gioia». Non ha mancato di fare riferimento alla difficile situazione nello Stato del Rakhine, dove si trovano i rohingya, nel quale «questioni di lunga data, sociali, economiche e politiche, hanno eroso fiducia e comprensione, armonia e cooperazione tra le diverse comunità».
Nel suo discorso, Francesco ha voluto «abbracciare l’intera popolazione del Myanmar e offrire una parola di speranza a tutti coloro che stanno lavorando per costruire un ordine sociale giusto, riconciliato e inclusivo». Il suo è stato un discorso d’incoraggiamento per guarire le «ferite» aperte. La Chiesa si affianca a tutti coloro che collaborano al difficile processo di costruzione della pace e della riconciliazione nazionale, che «può avanzare solo attraverso l’impegno per la giustizia e il rispetto dei diritti umani».
Il Papa ha rilanciato i temi della Conferenza di pace di Panglong del 2016, la prima dopo quella del 12 febbraio 1947 che sancì la nascita dello Stato moderno, unendo diverse etnie del Paese: i bamar, che costituiscono la componente maggioritaria, e le minoranze chin, kachin e shan. E, parlando del futuro, ha detto: «Il futuro del Myanmar dev’essere la pace, una pace fondata sul rispetto della dignità e dei diritti di ogni membro della società, sul rispetto di ogni gruppo etnico e della sua identità, sul rispetto dello stato di diritto e di un ordine democratico che consenta a ciascun individuo e ad ogni gruppo – nessuno escluso – di offrire il suo legittimo contributo al bene comune».
In questo lavoro di ricostruzione e di riconciliazione le religioni hanno un posto specifico e privilegiato: «Non devono essere fonte di divisione e di diffidenza, ma piuttosto una forza per l’unità, per il perdono, per la tolleranza e la saggia costruzione del Paese. Le religioni possono svolgere un ruolo significativo nella guarigione delle ferite emotive, spirituali e psicologiche di quanti hanno sofferto negli anni del conflitto. Attingendo ai valori profondamente radicati, esse possono aiutare ad estirpare le cause del conflitto, costruire ponti di dialogo, ricercare la giustizia ed essere voce profetica per quanti soffrono».
L’ultimo appello è stato ai giovani: a loro Francesco ha guardato per il consolidamento della democrazia e della crescita dell’unità e della pace a tutti i livelli della società.
Alle ore 18,30 circa il Papa, con il seguito e i giornalisti, si è imbarcato per fare ritorno a Yangon.
Tre parole per il Myanmar: guarigione, armonia, profezia
La giornata del 29 novembre ha avuto 3 momenti centrali: al mattino, la celebrazione della Messa, con circa 150.000 persone, giunte in gran parte già la sera precedente, alcune delle quali anche a piedi da lontano; l’incontro con il Consiglio supremo «Sangha» dei monaci buddisti; l’incontro con i 22 vescovi del Myanmar. A fine giornata Francesco, nella sede dell’arcivescovado, ha incontrato un gruppo di gesuiti che lavorano nel Paese.
Guarigione. Il Papa, abbracciando la comunità cattolica, ha ripetuto una delle parole più frequenti di questo viaggio: «guarigione» dalle ferite della violenza, sia visibili sia invisibili. E ha aggiunto: «Noi pensiamo che la cura possa venire dalla rabbia e dalla vendetta. Tuttavia la via della vendetta non è la via di Gesù». La Chiesa in Myanmar «sta già facendo molto per portare il balsamo risanante della misericordia di Dio agli altri, specialmente ai più bisognosi». Questa è la strada: aiutare «un gran numero di uomini, donne e bambini, senza distinzioni di religione o di provenienza etnica». E nella Messa, durante la preghiera dei fedeli, si è pregato per la pace e per la fine dei conflitti negli Stati di Kachin, Shan e di Rakhine, che è poi il tragico scenario sul quale si consuma la tragedia della popolazione rohingya.
Armonia. L’incontro con i monaci è avvenuto in un clima che all’inizio appariva formale e un po’ rigido, ma poi si è sciolto, fino a una calorosa e sorridente stretta di mano tra il Papa e il presidente del Comitato «Sangha», il ven. dott. Bhaddanta Kumarabhivamsa. Il Pontefice si è tolto le scarpe ed è entrato con i calzini neri nel Kaba Aye Center, uno dei luoghi-simbolo del buddismo di tradizione theravada. Si tratta di uno dei templi più frequentati, dominato dalla Pagoda della pace mondiale, alta 36 metri, e dalla caratteristica cupola di foglie d’oro a strati sovrapposti. Davanti ai membri della delegazione papale c’erano i monaci anziani, anch’essi scalzi, dal volto scavato e dalle lunghe tonache granata o arancione.
Sappiamo che le tensioni etniche, in Myanmar, si tingono di tonalità religiose, ma l’incontro è stato l’occasione per indicare direzioni diverse. Il Presidente del «Sangha» ha deplorato «terrorismo ed estremismo messi in atto in nome di credi religiosi», auspicando «reciproca comprensione, rispetto e fiducia». Il Pontefice, da parte sua, ha ripetuto la parola «guarigione» come via praticabile. E l’ha coniugata con una parola importante del suo vocabolario, che è molto amata anche dall’Asia: «armonia». Chiaramente questa non vuol indicare una semplice tranquillità, ma è appello alla giustizia, garantita per tutti. Per il Papa, la pace è sempre frutto della giustizia, e condizione per lo sviluppo è l’armonia. E per dirlo egli ha fatto appello sia ai testi del Buddha sia a quelli di san Francesco.
Profezia. Anche ai vescovi ha ripetuto la parola «guarigione», declinandola con le parole «accompagnamento» e «profezia». Nel suo discorso molto articolato Francesco ha nuovamente dipinto una Chiesa «ospedale da campo», che è l’immagine ecclesiologica fondamentale del suo pontificato. A partire dalla considerazione che il Paese è impegnato a superare divisioni profondamente radicate e a costruire l’unità nazionale, il Papa vuole che la predicazione del Vangelo non sia «soltanto una fonte di consolazione e di fortezza, ma anche una chiamata a favorire l’unità, la carità e il risanamento nella vita del popolo». E il riferimento ai rohingya è stato chiaro nel momento in cui ha parlato degli «sfollati».
È importante notare che il dialogo ecumenico e interreligioso, come pure il lavoro all’interno della società civile, per Francesco sono forme di questa «guarigione» necessaria. Il dialogo è «tessere relazioni», e quindi anche «riconciliare» e – come è tipico di un pastore – «accompagnare». Solo le relazioni permettono di sanare le fratture.
Lo «spirito di profezia» è, per la Chiesa, annunciare il Vangelo in modo da «avere un ruolo costruttivo nella vita della società». Francesco si preoccupa sempre di non costruire un gregge separato e autoreferenziale. La profezia della Chiesa è per il mondo, e deve essere attuata «mediante le sue opere educative e caritative, la sua difesa dei diritti umani, il suo sostegno ai princìpi democratici». Anche «facendo sentire la vostra voce nelle questioni di interesse nazionale, particolarmente insistendo sul rispetto della dignità e dei diritti di tutti, in modo speciale dei più poveri e vulnerabili». La profezia evangelica diventa anche profezia sociale.
«Una parola di speranza alla Chiesa, al vostro Paese, al mondo»
Francesco si è congedato dal Myanmar celebrando una Messa per i giovani in cattedrale. Essa era gremita di ragazzi e ragazze provenienti da tutto il Paese, nei loro abiti tipici e coloratissimi. È stata una festa, un abbraccio di unità, resa visibile anche dalle preghiere dei fedeli in tamil, kachin, kayan, chin, karen e cinese. Il Papa – come aveva già detto alle autorità – è convinto che i giovani siano la risorsa per il futuro del Paese. A loro chiede di essere coraggiosi, generosi, di non avere paura di fare «scompiglio», di «porre domande che facciano pensare la gente», di «gridare con la vita».
E Francesco esprime un desiderio che appare riassuntivo del compito generale della Chiesa per il Paese: «Vorrei che la gente sapesse che voi, giovani uomini e donne del Myanmar, non avete paura di credere nel buon annuncio della misericordia di Dio, perché esso ha un nome e un volto: Gesù Cristo. In quanto messaggeri di questo lieto annuncio, siete pronti a recare una parola di speranza alla Chiesa, al vostro Paese, al mondo. Siete pronti a recare il lieto annuncio ai fratelli e alle sorelle che soffrono e hanno bisogno delle vostre preghiere e della vostra solidarietà, ma anche della vostra passione per i diritti umani, per la giustizia e per la crescita di quello che Gesù dona: amore e pace».
(tratto da «Diplomazia e profezia. Papa Francesco in Myanmar e in Bangladesh», in Civ. Catt. 2017 IV 575 – 589)
***
[1]. M. Kelly, «Nel cuore dell’Asia: Myanmar e Bangladesh. Alla vigilia del viaggio apostolico di papa Francesco», in Civ. Catt. 2017 IV 355-369.
[2]. F. de la Iglesia Viguiristi, «La nuova via della seta. Le ambizioni globali dell’economia cinese», in Civ. Catt. 2017 III 486-499.
[3]. R. Heredia, «L’ondata del potere color zafferano. La democrazia in India e il nazionalismo hindu», in Civ. Catt. 2017 III 278-286.
[4]. A. Spadaro, «Intervista a Papa Francesco», in Civ. Catt. 2013 III 449-477, in particolare 461.
[5]. Corsivo nostro.
[6]. http://www.globaltimes.cn/content/1077488.shtml
[7]. http://www.globaltimes.cn/content/1077697.shtml
[8]. http://usa.chinadaily.com.cn/life/2017-11/25/content_34980286.htm
[9]. Corsivo nostro.
[10]. Francesco, «“Essere nei crocevia della storia”. Conversazione con i gesuiti del Myanmar e del Bangladesh», in Civ. Catt 2017 IV 519-532.
[11]. Corsivo nostro.