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«La storia dei miei versi non può che coincidere con la mia storia umana. Rifiuto e considero vietate […] le esercitazioni (sia pure civilissime), le sperimentazioni che furbescamente o ingenuamente tentano l’impossibile colpo di dadi. […] Quella del poeta è secondo me una pura e semplice condizione umana, la poesia appartiene alla nostra più intima biologia, condiziona e sviluppa il nostro destino, è un modo come un altro di essere uomini. Di là dagli schemi mentali, dalle velleità, dalle frigide volizioni e dalle sapienti masturbazioni, la poesia nasce sotto il segno apparente dell’imprevisto. […] Poesia è dunque per me avventura, viaggio, scoperta, vitale reperimento degli idoli della tribù, tentata decifrazione del mondo, cattura e possesso di frammenti del mondo, nuda denuncia del mondo in cui si è uomini, cruento atto esistenziale»[1].
Basterebbero queste sue parole per dire il senso della vicenda poetica di Bartolo Cattafi[2], confermate dal giudizio di Carlo Bo: «La poesia è per Cattafi il solo, l’unico modo di stare al mondo»[3]. A oltre 20 anni dalla morte del poeta, la sua opera è nuovamente raggiungibile, almeno in parte, dal lettore grazie alla riedizione di un’antologia mondadoriana a cura di Giovanni Raboni e Vincenzo Leotta e alla raccolta in un unico volume delle due ultime sillogi realizzate dall’editrice Novecento[4]. Le frasi prima citate, parte di un dialogo realizzato da Giacinto Spagnoletti, rivelano un poeta che non avverte la parola poetica come prodotto di una sperimentazione stilistica. Essa consiste in un modo di «decifrare il mondo» e, dunque, è atto di discernimento forte e, a volte, persino «cruento», sempre comunque sotto il segno dell’imprevisto, dell’inatteso, dell’indeducibile. Che la parola poetica «morda» lo confessa bene una delle ultime composizioni del poeta: Tra cosa e cosa/ due righe buttate là sulla pagina/ ma chi si prende la briga/ di passarci su il dito/ di farsi morsicare da due aspidi/ nell’estate pietrosa? (Due righe).
Una vocazione poetica
Cattafi nasce a Barcellona (Messina) il 6 luglio del 1922. Si laurea in Giurisprudenza, ma non eserciterà mai la professione forense. Durante gli anni universitari legge molto: Melville, Conrad, Faulkner, Caldwell, Saroyan, Hemingway e gli altri scrittori raccolti nell’antologia Americana di Vittorini. Tra gli italiani legge Zavattini, Vittorini, Pavese, Malaparte, Bontempelli, Pirandello. Ma i suoi interessi si sposteranno decisamente verso la poesia (Machado, Jiménez, Lorca, Eliot, Hopkins, Auden, Covoni, Quasimodo, Ungaretti, Montale).
Nel 1943 è chiamato alle armi. La vita militare gli procura un crollo fisico e nervoso e per questo viene ricoverato a Bologna, dove riesce a ottenere una licenza, che praticamente conclude la sua vicenda di soldato. Risale a questi anni la sua vocazione poetica, della quale così egli racconta gli inizi: «Cominciai a scrivere versi non so come, ero sempre in preda a non so quale ebbrezza, stordito da sensazioni troppo acute, dolci. Le mille cose che quella snervante primavera mi poneva erano magicamente gravide di significati, ricche di acutissime, deliziose radiazioni. Come in una seconda infanzia, cominciai a enumerare le cose amate, a compitare in versi un ingenuo inventario del mondo»[5]. La poesia nasce come una nuova forma di vedere, sentire e nominare il mondo. In questa «reinvenzione» totale, persino nella tragedia, si fa varco la trasfigurazione: «Tutt’intorno lo schianto delle bombe e delle raffiche degli Hurricane, degli Spitfire […]. Me ne andavo nella colorita campagna nutrendomi di sapori, aromi, immagini; la morte non era un elemento innaturale in quel quadro; era come un pesce fiorito, un falco sulla gallina, una lucertola che guizza attraverso la viottola»[6]. Da queste note si deducono già alcuni aspetti fondanti la poesia cattafiana: partenza dal dato reale, dal «particolare» del mondo, trasfigurazione della realtà, desiderio di creare un «inventario», senso del tragico come parte del flusso della vita, poesia come intensa folgorazione.
Nel 1947 Cattafi decide di trasferirsi a Milano, dove deve arrangiarsi per sbarcare il lunario. Egli si muoverà spesso tra la Sicilia e il capoluogo lombardo e compirà vari viaggi all’estero (Francia, Gran Bretagna, Irlanda, Scandinavia, Spagna, Africa), anche vivendo situazioni rocambolesche. Dall’estero invia articoli per L’Ora di Palermo e per le riviste Pirelli, L’Italia illustrata e L’indicatore librario. Il nomadismo sarà uno degli elementi cardine della sua produzione poetica, soprattutto all’inizio. Il modello a cui si ispira idealmente è Hemingway, fino a imitarne barba e acconciatura. Nel 1956 sposta più stabilmente la sua residenza a Milano, dove, già sin dal ’47, era entrato in contatto con poeti e critici: Luciano Foà, Erich Linder, Domenico Porzio, Sergio Solmi e poi Vittorio Sereni e coloro che frequentavano i «caffè letterari» della città (il Caffè San Paolo, il Blue Bar, il Giamaica), e cioè, tra gli altri, Carlo Bo, Luciano Erba, Luciano Anceschi, Giovanni Giudici, Piero Chiara. Caratterizzava la sua presenza «un certo grado di estraneità», come lo definì Sereni, un atteggiamento psicologico che rivela anche la sua equidistanza tra le varie parti e tra le varie correnti che si confrontavano in quegli ambienti (realismo, ermetismo, neosimbolismo…). Per Cattafi la poesia era più un fatto che un’idea.
Numerose sono le immagini e le tematiche forti delle sue opere. Tra tutte scegliamo una linea unica di approfondimento, sebbene molto ampia, che ci sembra attraversi tutta la produzione poetica cattafiana: il problema della conoscenza e dell’interpretazione del senso del mondo e della vita. Scopriremo un itinerario che parte da un atteggiamento di osservazione del dettaglio, apparentemente realista, che quindi prende coscienza del labirinto del reale e della vanità del tentativo di abbracciarlo mediante una conoscenza razionale e «calcolante», fino ad approdare a un altro fuoco, capace di dialogare con la drammaticità dell’esistenza e di illuminarla nell’essenziale.
«Le mosche del meriggio» (1958)
Nel 1958 Mondadori pubblica la prima grande raccolta di poesie di Cattafi: Le mosche del meriggio, che raccoglie la produzione poetica degli anni 1945-55. In questi componimenti l’Autore si concentra sugli oggetti e sulla loro forza individuale, forse ispirato dalla poesia di J. M. Hopkins. Gli oggetti tendono, grazie a una grande forza dell’immaginario, a divenire emblemi. La tensione va dalla nuda descrizione all’astrazione speculativa, sempre però a partire dall’oggetto, dalla figura. Ciò si realizza grazie anche all’uso del «correlativo oggettivo» per cui è l’oggetto stesso a «parlare» e ad esprimere l’io del poeta.
Lo sguardo tende a muoversi non dentro l’oggetto in se stesso, ma dentro il suo senso metaforico, come nella poesia Domani: Domani apriremo l’arancia/ il mondo arancia nel verde domani,/ si poserà la nuvola lontana/ con le zampe guardinghe di colomba/ sopra il tetto di tegole vecchie/ sopra il tempo piovuto rugginoso. I colori — elementi di estrema concretezza visiva — assorbono la visione e la proiettano in una dimensione ulteriore rispetto a quella del concreto reale. L’agave, una pianta tipica della Sicilia, diventa regina sonnolenta/ verde bestia con braccia di dolore. Essa è invitata fantasticamente a viaggiare assieme all’anima/ fredda dei gabbiani/ assieme al cuore fecondo al pesce pregno/ che arricchisce le rete più lontana/ e la mano lentissima di Dio/ venuta in volo da un nido di nebbia (L’Agave). Anche qui la concretezza della pianta rinvia alla «mano di Dio», di quel Dio che abita in un regno ignoto e al cui mistero il poeta, con sgomento, si accosta: Ignoto è il regno,/ alba e attesa, crepuscolo di nubi dove Dio/ s’annida, come un colombo gutturale (Nell’atrio, in attesa).
Cattafi in questa raccolta spesso fa riferimento ai suoi viaggi e di essi lascia tracce intense. Il viaggio è anzi la situazione principale di vita presente nella raccolta[7]. Anche in questo caso non si registra un atteggiamento puramente descrittivo, e il poeta passa dal dettaglio a considerazioni e visioni di sapore universale. Il suo viaggio è addirittura inteso come emblema di quello del pianeta nella sua orbita, che è lo stesso viaggio tra le vecchie/ stazioni scolorite. In realtà il senso generale del movimento in Le mosche del meriggio è reso dal titolo: è quello degli insetti che nel mezzogiorno afoso volano circolarmente a mezz’aria. Eppure l’ultima lirica sembra voglia spezzare il cerchio: Qui nel cerchio già chiuso/ nel monotono giro delle cose/[…]/ può darsi nasca un’acqua ed una nebbia/ […]/ Sarà prossimo il centro:/ là s’appunta il nero/ occhio, la nostra/ perla di pece sempre in fiamme,/ serrata tra le ciglia (Nel cerchio). Si delinea la possibilità di un varco e di un approdo, di fronte al quale si è come Nell’atrio, in attesa, come recita il titolo di una poesia della raccolta. Ma basta sfogliare qualche componimento di viaggio per sentire questa tensione. È sufficiente come esempio una poesia che presenta una Grecia in cui non c’è traccia dell’antico: Non ne so nulla, ho un tondo/ gettone di telefono,/ passo quando un colore/ di semaforo consente […]/ ma nel palmo sudato della mano/ c’è malamente incisa qualche cosa. Avrò forse un’anima che giunge/ più in alto dei pali del telegrafo/ come il passero, l’uccello di ogni giorno. Sono le condizioni più prosaiche, come l’avere un gettone in mano, a nascondere indizi eccentrici, tesi verso una dimensione alta e luminosa.
«L’osso, l’anima» (1964)
Nel 1964, dopo essere stato segnato dalla dolorosa perdita della madre, da una deludente vicenda amorosa (che giunge dopo vari amori mercenari) e da difficoltà economiche, dovute all’incapacità di trovare un’occupazione stabile, Cattafi pubblica L’osso, l’anima, che ottiene il Premio Chianciano e che segna la sua definitiva consacrazione poetica. La raccolta approfondisce e amplia l’ispirazione e il movimento della prima con una precisazione però: nessuna scialuppa può salvare/ chi sempre girò in tondo/ nel vortice (Cablo). E tuttavia Tutto apparve concorde con un giro/ centripeto di vortice/ un senso precipite d’abisso (La notizia). Ecco la situazione in cui la seconda raccolta cattafiana individua l’uomo: tutto gira in un vortice centripeto abissale e niente può salvare chi gira intorno a questo vortice. Come venirne fuori? Esiste una «salvezza» dal vortice?
La questione drammatica assume eminentemente una forte tensione di tipo conoscitivo sul senso delle cose e si riversa nella scrittura poetica, in cui le ragioni del dilemma sono buttate tutte a contendersi/ lo spazio bianco (Ragioni, nella raccolta Segni) così che Ombre orde confuse/ ondeggiando trascorrono sul foglio/ e vanno avanti e indietro (Offerta, ivi). L’io sembra essere tutto concentrato su se stesso, unico punto di autoriferimento. Cattafi vorrebbe sciogliere il nodo dell’esistenza, arrivare all’«osso». Vorrebbe raggiungere «chiarezza», e la mente che fa? […] gira su se stessa come/ un bel prisma un bel cristallo un poco/ stordito dalla luce (Arcipelaghi). Eppure, nonostante l’apparente trasparenza del cristallo, Le nebbie qui durano da sempre,/ vietato varcarle (Preistoria). L’io da sé dunque è cieco, non riesce da solo a far chiarezza sul mondo: non vedemmo le cose, c’era buio (Autocondanna). Occorre una luce che illumini secchi e squadrati/ i nostri metri di mondo (Metri).
La luminosità invocata giunge: ecco che Comparve un esile barbaglio,/ era il filo di fiamma di una torcia/ o d’altro dramma che riguarda l’uomo (ivi). La luce giunge improvvisa e non è frutto dello sforzo umano. Non è il fuoco di Prometeo, non è un fuoco umano. Cattafi parla chiaramente della necessità (o del desiderio) di Scoprire senza selci l’altro fuoco (Preistoria). Certo, questa luce «altra» ha a che fare col «dramma» dell’uomo, col suo grumo rovente di pensieri (Di ritorno), non con l’anonima perfezione di un prisma di cristallo.
La luce spinge a cercare la porta d’uscita per salvare/ L’unica cosa amata, a lungo amata,/ trafugandola al mondo, alla chiarezza (ivi). Che cos’è quest’unica cosa amata? Il poeta non lo dice e noi lo possiamo soltanto intuire. Egli afferma unicamente che occorre salvarla dalla vana chiarezza illuministica dell’io, che pretende di essere misura di tutte le cose, grazie a una razionalità sicura di sé. Confessa infatti: Benché abbia perso lo spirito e la lettera/ della fede in quella/ sfera che tu conosci,/ sono ancora inquieto./ Non mi tornano i conti, le misure, il modo/ che ha il mondo di girare (Come vanno le cose). Così I conti non tornavano (La pazienza). La vita non è questione da affrontare con righello e calcoli, ma con la lama di un coltello: Inutile farla lunga,/ girarla, rigirarla/ allo spiedo, al rovello/ dell’attenta osservazione, l’analisi, la sintesi,/ i discorsi sul metodo./ Si muore dalla noia./ C’è un modo d’aggredire la questione:/ col coltello (Metodologia). Occorre la luce di altro fuoco per giungere all’«osso» o all’«anima» del reale. L’ansia conoscitiva del senso del mondo a questo punto si è spinta ai confini della sua capacità di conoscenza. Si fa avanti una preghiera che sgorga forse inaspettatamente: Oggi ignorando tutto/ di questo giorno,/ se d’Avvento o Passione,/ ignorando i colori, le pianete,/ m’inginocchio nella tua casa/ sotto la tenda che portiamo ovunque/ per aprirla per chiuderla a tua offesa,/ aprirla ancora, nei boschi/ in fuga, su secche, su frangenti,/ dal capolinea a un punto della corsa./ Non frugarmi, non chiedere./ Tu sai il perché d’un labbro/ che tremando si sporge più dell’altro./ Accoglimi./ Assieme ai pesci sguazzanti all’ingrasso/ nell’acqua del Giordano/ nella tua conca di marmo,/ ai due cani/ ringhiosi clandestini/ che baruffano nell’angolo più buio/ della tua navata (Oggi). Colpisce l’immagine dell’acqua battesimale del Giordano, in cui il poeta vorrebbe essere immerso come un pesce, e quella del suo ingresso in chiesa come un cane clandestino e ringhioso.
Cattafi, dopo la pubblicazione de L’osso, l’anima, dal 1962 al 1971 vive un lungo periodo di astinenza poetica. Si dedica ad altro: «Le sue spinte interiori, per il momento, trovano sfogo nella pittura: disegni, acquerelli, oli testimoniano, a parte ogni consolazione artistica, la materia incandescente che gli arde dentro […]»[8]. Come interpretare questo silenzio? Egli sembra tornare agli oggetti, alla loro fisicità. L’attenzione alla dimensione concreta, «orizzontale» della poesia che fino allora aveva scritto qui si conferma, ma viene figurativamente sollevata in una dimensione verticale, in un’istanza metaforica e, in qualche modo, anche metafisica. Da questo momento si direbbe che «l’occhio va più al fondo di sempre, che cerca finalmente la legge nell’evento supponendo di poterla scovare, meglio che nella solarità del caso, al fondo di un’oggettività che s’intuisce abissale»[9].
Nel 1966, la vendita di alcuni terreni garantisce al poeta la tranquillità economica. Nel 1967 si sposa con rito civile in Scozia con Ada De Alessandri, milanese e di oltre 20 anni più giovane. Tornato in Sicilia, ristruttura una vecchia casa colonica e vi si stabilisce. Da questo momento si recherà a Milano soltanto per brevi periodi.
«L’aria secca del fuoco» (1972)
Nel marzo 1971, alle quattro del mattino, si sveglia e riprende a scrivere e l’anno successivo pubblica L’aria secca del fuoco, una raccolta di 362 poesie. Tra questi versi si può riconoscere il filo che abbiamo colto sin dall’inizio e che riguarda la domanda di conoscenza del mondo e del suo significato. Il verso in questa raccolta si fa di più corto respiro, asciutto, essenziale, persino nelle interpunzioni, praticamente eliminate. Il lavoro di scavo si intensifica.
Nella quinta delle sette sezioni, che ha per titolo «Amare le more», ad esempio, leggiamo un gruppo di poesie di grande intensità espressiva: si dipingono i fichi dell’inverno, le lumache, le olive, le api, lo scarabeo stercorario… La bellezza di questi elementi emerge magistralmente dai versi e tuttavia essa a volte cela al suo interno una dimensione di effimero, di mortale. I fichi invernali chiusi sodi caparbi […]/ sono rossi di dentro come un tramonto/ gelido senza giallo/ […] Giunti inaspettati/ se ne vanno così/ come son venuti/ frammenti erranti/ nel vuoto e nel buio/ per un attimo colpiti dalla luce (I fichi dell’inverno). Tra le lumache ci sono levrieri/ di carne chiara/ collo di cigno/ alte eleganti ben portanti, mentre altre sono piccole tozze scure/ meridionali chiuse/ d’animo e guscio e fanno i mille ad ostacoli/ con sempre più ostacoli/ finché muoiono (Lumache). Cattafi si confronta spesso con la dimensione della finitudine, parte integrante della domanda sul senso del reale. Il fico invernale, la lumaca sono chiari emblemi della condizione umana. Ma l’uomo, al contrario del fico e della lumaca, ha un’«anima» che lo tiene inquieto, che lo tiene tra le spine, che non gli consente di essere soltanto un «frammento errante». Cattafi ne sente il «peso», sente la sua consistenza e avverte che il problema della spiritualità dell’uomo è affare serio. La questione dell’«anima» è paradossalmente affrontata come un miracolo al contrario: ammettiamo, argomenta il poeta, che tu abbia due gambe e ne volessi solamente una. Bene, vai dal medico e gli chiedi di tagliare quella che cresce. Ma la sega salta in aria e addio alla stampella. Così, scrive Cattafi, è per l’anima: non puoi tagliartela, non puoi mica mandarla sulla forca/ arrotolarla nella cesta della roba sporca./ Ti arrangi ficcato tra le spine/ te la tieni addosso te la piangi (Te la piangi). La questione dell’anima è ineludibile.
L’immagine della gamba amputata richiama un avvenimento di importanza decisiva nella biografia del poeta: un viaggio a Lourdes, compiuto nel maggio del 1971, come barelliere su un «treno bianco» dell’UNITALSI. L’emozione è forte. Cattafi dedica a questa esperienza sette poesie[10]. Se in Te la piangi il poeta ipotizza l’«amputazione» dell’anima attraverso l’immagine di un uomo che vuol farsi tagliare una gamba sana, a Lourdes — dove impara a vedere persone risanate che lasciano le stampelle — chiede lo stesso «miracolo» al contrario: egli, dalle gambe muscolose e sane ma con le ali «sbieche», chiede di essere storpiato per cadere ai piedi di Maria, come leggiamo nell’inedita Davanti alla grotta di Massabielle: Uomo con ali sbieche/ ma con gambe forbite muscolose/ Ti prego di storpiarmi nel mio meglio/ dammi due di quelle/ stampelle che ti lasciano/ affinché zoppicando possa/ caderTi ai piedi/ per il profumo di due rose gialle.
Contempla ancora Cattafi: «Lavorano ai Tuoi piedi questa roccia/ la fondono negli alti/ forni del cuore/ la plasmano la lustrano ciascuno/ lascia l’orma d’un dito d’una mano/ sulla roccia statua interminata/ altare scultura monumento/ o limpida torre luminosa/ sempre più alta perché con loro cresci/ su questo basamento nella Valle (Nel cantiere). La fragilità umana, la stessa del fico invernale e della lumaca scura, fonde e plasma la roccia di Lourdes, lasciando un’orma indelebile. La grazia si fa sempre più spazio nella vita e nell’ispirazione cattafiana. La si può riconoscere, forse, nell’immagine di quella farfalla che Esitò sul filo della soglia/ entrò e fece il giro della stanza/ si posò in un angolo d’ombra/ benché disvelandosi di poco/ si vide ch’era/ di struggente bellezza (Visita).
«La discesa al trono» (1975)
Nella quarta raccolta cattafiana, La discesa al trono, restano vivi i toni che lamentano la condizione sgomenta di un uomo dagli occhi spalancati verso il buio (Il buio). C’è bisogno di pace e solidità per un cuore ferito/ un polso mal collegato con il resto (È questo). Alla condizione affannata dell’uomo si affianca e si sovrappone l’immagine della croce: dinanzi alla mia fuga/ di giuda ansante/ di chi taglia obliquo per la pianura spinosa/ in cerca d’un legno dolce/ d’un albero a braccia aperte (In quella chiara). Si tratta di una croce formata dall’unione dell’asta del dolce albero a braccia aperte e dell’obliqua corsa del poeta.
Altre volte egli allude alla croce di Cristo, e il Golgota giunge ad apparire luogo di approdo, un prato di contemplazione: Dopo tante stazioni/ un prato di trifoglio/ di qualsivoglia erba/ agibile palestra/ pasquale officina/ dominicale come un vangelo/ gli ulivi d’allora/ il Golgota vicino/ il guanciale/ i tre morti/ i cieli assorti nella contemplazione (Un prato).
Nella splendida raccolta Segni, che raccoglie composizioni sulla poesia come graffi, incisioni, segni fisici, troviamo la poesia Il Verbo, che risale al periodo della raccolta La discesa al trono. In essa il Verbo è inteso come presente, vicino: Scritto su basse pergole/ funzioni per tutta la vita/ ci mondi dalle colpe/ Verbo cedevole e pronto/ mai alta uva da volpe/ velenoso acerbo. La presenza di Dio alla fine diventa ampia e senza limiti, ben più che semplicemente «raggiungibile»: A volte nel rifugio del mio angolo/ credo di metterti in quel muro/ o in quell’altro/ che nell’angolo s’incontrano/ mai invece potrò metterti in mostra/ o coi modi visibili del cuore/ in un posto portarti/ sei in me e dovunque/ come un salnitro/ da gran tempo abiti anche i muri (E dovunque).
L’itinerario di ricerca e di fede si fa sempre più incisivo. Un particolare non irrilevante: nel 1975, anno di pubblicazione della raccolta, nacque l’unica figlia del poeta, Elisabetta Maria, e il padre, dopo neanche due settimane, la fece battezzare nella chiesa di Santa Maria delle Grazie a Terme Vigliatore (ME).
«Marzo e le sue idi» (1977)
In Marzo e le sue idi la speranza di una conoscenza illuministica del mondo frana del tutto. Il reale si conosce per corrispondenze ed evocazioni illuminanti, similitudini che uniscono le cose più disparate e le elevano a significati che interpretano la vita umana, come nel caso dell’accostamento inedito di una trapunta, della pelle di un tonno e di un aquilone: Come una trapunta/ la pelle d’un tonno appena ucciso/m’apparve fitta di piccoli rombi/ vidi così […]/ quale strapiombo unisce una coperta al tonno/l’aquilone ai quattro/ lati della solitudine (Rombi). La figura geometrica del rombo in questo caso perde la geometricità della scienza esatta per divenire simbolo e mezzo per cogliere similitudini nel reale. Persino l’ipotenusa di un triangolo, a questo punto, può essere considerata un «errore», simbolo del fatto, potremmo dire, che il cerchio della vita non si può «quadrare» del tutto: Sfusi e confusi in quella/ nebbia di novembre/ sentimmo al tatto che l’ipotenusa/ era mostruoso errore/ audace anomalo lì addosso compartecipe/ lato scorretto/ d’un angolo retto (Ipotenusa). Se comprensione del mondo può esserci, essa non è risolvibile tra le pareti anguste della razionalità umana. È necessario un «salto», aveva già scritto nella raccolta precedente: Non c’è scalata/ per il frutto dell’al di là/ sul ramo arcuato/ sul fusto spalmato di sapone/ c’è il salto il volo/ se vuoi sentirti scendere/ nel tubo giusto/ l’armonioso bolo (Per il frutto).
L’atteggiamento del poeta è dunque quello dell’attesa di una forma di «rivelazione», attesa che qualche/ scatola s’apra/ cateratta celeste/ che il fuoco investa/ terre bruciate/ umidi prati (All’oscuro di tutto). Intanto è viva la certezza che c’è chi guarda da una fessura (Pianura) e da qui la domanda su chi egli sia: Chi si rigira tra le nostre cose/ e fa cozzare un guscio contro l’altro?/ La nostra piaga è un sonno profondo/ notte vischiosa in noi rinchiusa/ che egli turba splendendo/ insinuandosi/ vivo argento del mondo/ nel cesto delle lumache (Egli). Questa splendida composizione in poche immagini, che si intrecciano con grande potenza visiva, raffigura la vita come un cozzare di gusci, l’interiorità umana che geme è intesa come una piaga, un sonno profondo, una notte vischiosa, l’azione di «Lui» come un turbamento che splende come l’argento in un cesto di lumache. Notiamo che la poesia di Cattafi rende sempre più rapidi i passaggi tra le metafore, tra il concreto e l’astratto, tra i significati.
Si inserisce nell’ispirazione del poeta messinese la certezza di una «metarealtà», di una realtà che comunque sta «dentro» o «sotto» o «al di là» dell’oggettivo e questa certezza diventa prorompente nella poesia Dall’altra parte: Dall’altra parte della mano tesa/ del petalo della foglia della rosa/ dell’aria azzurrina e del nembo/ del fulmine sghembo tra la pioggia/ tutto è pazienza e attesa/ che ribalti la pietra pasquale/ il lato tombale delle cose/ dall’altra parte il vero disegno/ il volto luminoso/ il regno il regno il regno. Le immagini della natura (petalo, aria, nembo, fulmine) sono icone dell’attesa di una risurrezione che ribalti «il lato tombale delle cose» e ne sveli la luce pasquale, il «regno» per tre volte evocato.
«L’allodola ottobrina» (1979)
Ne L’allodola ottobrina ritorna ancora, come sempre, la certezza che la vita si sottrae a ogni tipo di razionalizzazione. Questa volta però con una coscienza più serena e luminosa: le cose terrestri […] scoppiano tra i piedi come rose (Queste cose terrestri): Tirate le somme fare/ i conti con lunghe colonne/ uno sull’altro cadono gli addendi/ ribolle e trabocca il totale. Cattafi vede la ricchezza delle cose, ma anche il loro «cedere», il loro «lento scucirsi», come in La vista. Da qui però non giunge alla confusione né tanto meno alla disperazione, ma a seguire il rinvio a una dimensione ulteriore, che egli chiama il regno/ un dorato enigma (Qui). L’enigma del mondo è sciolto in questa dimensione ulteriore, che è chiaramente quella della fede: Tu che mi scorri accanto/ come un’acqua fedele nel cammino/ di volta in volta raddrizzi paesaggi/ storte visioni/ alle cose imponi/ una dolce chiarezza/ e l’enigma è sciolto/ tutto in un filo/ il cammino allungato (Cammino). Il filo della vita, pur con tutte le sue contraddizioni, si distende, il disegno si chiarifica, la vita non è mai «resa al labirinto», ma una sfida per coglierne il «midollo di leone», per usare qualche nota espressione di I. Calvino, il quale però scelse altre strade: La linea il filo/ che tu estrai dal folto del disegno/ è di per sé disegno/ da mandare a mente/ da amare/ quando la giungla la rete il labirinto/ premono alle porte/ le spalancano/ e tu vacilli sotto la loro spinta (La linea il filo).
L’abisso dell’esistenza non è affatto cancellato. Gli uomini possono anche percepirsi «costretti» a una crosta di terra/ a una sosta d’insetto (Costrizione) o anche sentirsi rami secchi/ inutili inerti/ inetti anche all’incendio (Dodici dicembre 1976), tuttavia proprio questa diventa la condizione favorevole dell’attesa più autentica: aspetto a questo vento di dicembre/ chi già venne a sospingermi sul ciglio/ a buttarmi sul fondo degli abissi/ chi mi fece salire a colpi d’ala/ oggi/ sotto la sferza del suo aspetto (ivi). Chi sospinge sul ciglio dell’abisso è Colui che fa risalire a colpi d’ala. E tutto acquista dinamismo e fiducia, proprio sull’orlo dell’abisso della propria esistenza e della propria storia personale: È qui che Dio m’assiste/ lungo la parte più assurda della curva/ saldamente incollato/ su questa traiettoria/ ad occhi chiusi vinco/ la vertigine il vuoto la mia storia (È qui che Dio).
Giuseppe Miligi, un amico di Cattafi, anzi il cattolico amico fiducioso (Nomina), ne seguiva in quei tempi le vicende spirituali. Fu lui a metterlo in contatto con il gesuita p. Federico Weber. L’incontro avvenne presso l’Istituto Ignatianum di Messina il 3 novembre 1977. Si rivelò per lui un’esperienza decisiva, che lo condusse, in piena consonanza con la moglie Ada, il 2 gennaio 1978, al matrimonio religioso nella cappella dello stesso Istituto. Come testimoni furono presenti l’editore e amico Vanni Scheiwiller e lo stesso Miligi. Dai diari del poeta sappiamo che dal marzo successivo la sua frequenza all’Eucaristia si fece quasi quotidiana[11]. Scrive a un amico: «Non sto a dirti cosa sia stato per me il sacramento della Comunione. Cosa sia stata la Fede»[12].
«Chiromanzia d’inverno» (1979)
Alla fine dell’aprile successivo Cattafi scopre di avere un tumore ai polmoni. Non ci sono grandi speranze, ma la sentenza infausta non viene comunicata al poeta, che si sottopone a radioterapia e chemioterapia. Gli ultimi mesi lo vedono tra la villa dei suoceri a Cimbro (Vergiate, presso Varese) e i ricoveri in clinica. Cattafi dedicò gli ultimi suoi giorni alla definizione di Segni, una raccolta di poesie sulla poesia scritte in prima stesura tra il ’72 e il ’73, e di Codadigallo, silloge che verrà pubblicata postuma assieme a otto ultime poesie non riviste in forma definitiva dal poeta, col titolo complessivo di Chiromanzia d’inverno.
Cattafi si avverte come in bilico: Un piede di qua/ e l’altro di là/ tutto è lieve e smussato/ pane vino/ con un mezzo sapore d’eternità (Di qua, di là). Il cammino della vita si fa insieme, paradossalmente, faticoso e lieto: Stanco debole indegno mi trascino/ piango per le mie cose trascinate/ lieto di non avere in me che cose amate (In cammino). È come un bilancio della vita. Definitivamente ormai comprende che conoscere il mondo misurandolo razionalmente è gesto maldestro: Imparammo maldestri/ che forse era questo misurare/ sbagliare metro/ sbagliare gesto (Misurare). La tensione interiore va oltre ogni metro, ogni alfabeto, come scriveva in Oltre della raccolta Segni: L’alfa e la beta per cominciare/ e va oltre/ troppo oltre l’omega/ l’anima inquieta. Nel cammino della vita egli avverte la presenza imponderabile della Grazia. In una poesia composta a Cimbro nel dicembre del ’78 ne riconosce anzi due forme: quella che fa cadere a fiocchi/ gelo candore oblio e quella che c’imbratta la faccia/ di fiamme e fumo/ che ci rammenta d’essere/ schiatta di legna da ardere al buon Dio (La Grazia). La Grazia che Cattafi sembra riconoscere e a cui sa affidarsi sembra soprattutto la seconda, quella di fuoco, che arriva a bruciare interiormente e spingere alla fede.
Il poeta inserisce in questa raccolta anche una poesia del periodo di Lourdes dal titolo François, il nome di un celta dal duro occhio celeste che cade di schianto in ginocchio/ sul gradino più basso […] davanti alla Signora. In Davanti alla grotta di Massabielle Cattafi si era definito Uomo con ali sbieche/ ma con gambe forbite muscolose. Adesso rievoca quell’immagine e in Libertà prega: Oh sì non alzo/ abbasso le mie ali/ ai Tuoi piedi mi metto/ libero lieve occhi socchiusi/ aspetto assorbo accetto/ dall’ultimo al primo i Tuoi soprusi. Il poeta, come Giobbe, avverte i «soprusi» di Dio, avverte la sua presenza incisiva e pressante, anche nel torchio della malattia. La risposta, come quella di Giobbe, è una fede robusta, espressa da parole ben scandite di accoglienza totale e di libertà interiore.
Il poeta muore il 13 marzo del 1979. Un mese prima aveva scritto: In te in te confido/ tutto ho rubato al mondo/ sei il Cubo la Sfera il Centro/ me ne sto tranquillo/ tutto t’è stato ammonticchiato dentro (In te). Alla luce di questi versi ritorna alla mente una tra le sue prime poesie, rimasta inedita, del lontano ’43: Nudo sono innanzi a Te/ un filo di paglia/ mi può trafiggere (Innanzi a te). La parabola poetica di Cattafi, intensa voce poetica del nostro ultimo Novecento, resta inclusa tra questi due versi, roventi di quello che egli definì l’altro fuoco: la presa d’atto Nudo sono innanzi a Te e l’estremo affidamento In te in te confido.
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[1] In G. SPAGNOLETTI, La poesia che parla di sé. Voci del Novecento, Salerno – Roma, Ripostes, 1996, 168 s.
[2] Le raccolte poetiche di Cattafi sono le seguenti: Nel centro della mano, Milano, Edizioni della Meridiana, 1951; Partenza da Greenwich, ivi, 1955; Le mosche del meriggio, Milano, Mondadori, 1958; Qualcosa di preciso, Milano, Scheiwiller, 1961; L’osso, l’anima, Milano, Mondadori, 1964; L’aria secca del fuoco, ivi, 1972; Il buio, Milano, Scheiwiller, 1973; Lame, Verona, Sommaruga, 1973; Quattro poesie e quattro acqueforti, ivi, 1974; Ostuni, Milano, Edizioni 32, 1975; La discesa al trono, Milano, Mondadori, 1975; Ipotenusa, Luxembourg, Senningerberg, 1975; Marzo e le sue idi, Milano, Mondadori, 1977; Nel rettangolo dei teoremi, Roma – Milano, L’Arco – Scheiwiller, 1977; 18 dediche (’76-’77), Milano, Scheiwiller, 1978; L’allodola ottobrina, Milano, Mondadori, 1979. Postume sono le raccolte: Se i cavalli…, Milano, Scheiwiller, 1979; Oltre l’omega, ivi, 1980; Chiromanzia d’inverno, Milano, Mondadori, 1983; Dieci poesie inedite, Pesaro, Edizioni della Pergola, 1983; Segni, Milano, Scheiwiller, 1986. Postume anche due raccolte di poesie già pubblicate precedentemente: Poesie. 1943-1979, Milano, Mondadori, 1990 e Occhio e oggetto precisi. Poesie 1972-73, Milano, Scheiwiller, 1999. Sue poesie sono state tradotte in oltre 10 lingue. Qui prenderemo come riferimento, quasi esclusivamente, soltanto le edizioni maggiori mondadoriane, nelle quali sono rifluite la maggior parte delle poesie delle altre sillogi, ad eccezione di Segni, che peraltro richiederebbe un approfondimento autonomo.
[3] C. BO, «Per Cattafi», in Atti del convegno di studi su Bartolo Cattafi. Acireale, 6-8 dicembre 1979, Catania, Lunarionuovo, 1980, 140.
[4] Cfr B. CATTAFI, Poesie. 1943-1979, a cura di G. RABONI – V. LEOTTA, Milano, Mondadori, 20012; ID., Ultime, Palermo, Novecento, 2001.
[5] In G. SPAGNOLETTI, La poesia che parla di sé…, cit., 168.
[6] Ivi
[7] Non ci soffermiamo su questo tema fondamentale dell’opera cattafiana, in quanto adeguate riflessioni sono già reperibili in F. PAPPALARDO LA ROSA, Lettura di Cattafi, Torino, Edilibri, 1990.
[8] A. DE ALESSANDRI, La spiritualità di Bartolo Cattafi, Messina – Milano, ESUR – Scheiwiller, 1989, 50.
[9] S. RAMAT, «Bartolo Cattafi», in Letteratura italiana, vol. VI: I contemporanei, Milano, Marzorati, 1974, 1.383.
[10] Al nome di Lourdes, Generali di Brancardiers, La Valle, Nel cantiere, Come se il fiume Gave, Davanti alla grotta di Massabielle e Françoise: le prime cinque si trovano ne L’aria; la settima nella successiva raccolta Codadigallo, pubblicata in Chiromanzia d’inverno; la sesta fu invece scartata. In una lettera agli zii scrive: «Qui tutto è meraviglioso. Presto servizio (servizio d’ordine) ai piedi della Madonna, i miei occhi sono spesso due gioiose fontane. Manderei qui a imparare e a sbattere il muso tutti gli atei del mondo. […] È la gente buona e che soffre quella che vale»: citato in V. LEOTTA, «Notizia biografica», in B. CATTAFI, Poesie…, cit., 353.
[11] Sulla religiosità di Cattafi cfr innanzitutto le riflessioni della moglie: A. DE ALESSANDRI, La spiritualità…, cit. e quindi G. MILIGI, «Prefazione» a Oltre l’omega, cit.; R. VERDIRAME, «Il Dio nascosto di Bartolo Cattafi», in Critica letteraria X (1982) n. 37, 719-750; V. LEOTTA, «L’inverno di B. Cattafi», in Lunarionuovo V (1983) n. 25, 27-35; Id., «I segni e il senso», ivi, IX (1987) 3-25.
[12] Citato in A. DE ALESSANDRI, La spiritualità…, cit., 82.