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Il 23 febbraio 2021 si è spento, all’età di 101 anni, Lawrence Ferlinghetti, uno dei padri della Beat Generation, proprietario dello storico City Lights Bookstore di San Francisco. Così ne scrivevamo nel 2003.
La corrente della poesia di Lawrence Ferlinghetti, nato nel 1919 a Yonkers (New York) da padre italiano e madre ebreo-francese, appartiene al fiume che va sotto il nome di Beat Generation, anche se con caratteristiche proprie e forse uniche di raffinatezza e apertura culturale. Egli, infatti, nei suoi testi cita o rende omaggio a poeti quali Dante, Eliot, Yeats e ad artisti quali Picasso e Monet. Oltre ad essere poeta è anche editore e ha pubblicato testi di altri esponenti del movimento beat quali A. Ginsberg, G. Corso, W. Burroughs, J. Kerouac[1].
Prima della guerra si diploma in giornalismo presso l’University of North Carolina e poi, da reduce, si iscrive alla Columbia University e successivamente alla Sorbona di Parigi, dove si laurea con una tesi sulla città nella poesia moderna. Da questo momento insegna, dipinge, scrive romanzi (Her, 1960 e Love in the Days of Rage, 1988), poesie e sceneggiature: testi tradotti in varie edizioni anche in italiano[2].
La sua opera più nota è A Coney Island of the mind, scritta nel 1958. Coney Island è la spiaggia di Brooklyn, area di divertimento, luogo di un famoso Luna Park. Dunque la traduzione italiana più vicina al senso del titolo potrebbe essere «Luna Park della mente». Essa comunicherebbe immediatamente l’idea di una trasformazione fantastica di uno spazio reale, legata a quei paesaggi mentali così cari alla sensibilità romantica inglese. E in effetti la poesia di Ferlinghetti si muove tra reale e immaginario, nel senso che i dettagli e gli oggetti che egli descrive sono assolutamente convenzionali, ma vengono collocati in un contesto inedito e disomogeneo rispetto alla vita reale. L’opera poetica diventa perciò il luogo di una rappresentazione che risponde non al principio di realtà, ma a quello del piacere o del desiderio o dell’ideale. L’immagine, per quanto possa essere concreta e prosastica (un tetto, un sobborgo, una strada, una spiaggia), diventa subito metafora, rinvio, allusione ad altro. Un esempio tra i più evidenti: egli inquadra gente che viaggia su autostrade larghe cinquanta corsie / su un continente d’asfalto (concrete continent) / spazieggiato (spaced) da invitanti cartelli stradali / che illustrano imbecilli illusioni di felicità e dove i motori divorano l’America. La strada diventa un mondo, simbolizzato nelle sue vane illusioni.
L’immagine che forse meglio rende il ruolo del poeta nella visione di Ferlinghetti sembra essere quella del cane, così com’è espressa nella poesia Dog della raccolta Oral Messages (1958). Il cane, infatti, trotta nella strada / e vede la realtà. Vede cose più grandi di lui come Lune sugli alberi e cose più piccole di lui come Formiche nei buchi. Passa davanti a tutto trottando ed ha la sua vita da cane da vivere / e a cui pensare / e su cui riflettere / toccando gustando esaminando tutto / e tutto investigando / senza beneficio di spergiuro / da vero realista / con una storia vera da raccontare / […] / con qualcosa da dire / circa l’ontologia / qualcosa da dire / circa la realtà / e come guardarla / e come ascoltarla / […] / come se stesse per farsi / fotografare / per i dischi Victor / in ascolto della / Voce del Padrone / mentre guarda / come un punto interrogativo vivo / nel / grande grammofono / dell’enigmatica esistenza / con la magnifica tromba aperta / […]. Guardando dal basso in alto, il cane è un real realist, un vero realista, ma al contempo è un living questionmark, un punto interrogativo vivente, che guarda la realtà come se fosse la magnifica tromba aperta di un grammofono. In questa condizione si uniscono dettaglio e universale, quotidianità e «ontologia». Anche il tempo è insieme contingenza ed eternità: Un giorno durante l’eternità, scrive nell’incipit di una poesia sul Cristo. Ferlinghetti col reale costruisce una visione dell’immaginario.
Più precisamente, però, si potrebbe dire non solo la visione, ma anche la «proclamazione» di un immaginario. Le sue poesie, specie quelle di A Coney Island of the mind, nascono infatti per la declamazione accompagnata da musica jazz[3]. Soltanto la lettura ad alta voce può rendere giustizia allo stile insieme fluido e asciutto, ritmico e sonoro dei versi migliori di Ferlinghetti: egli intende la poesia come espressione, ma anche come comunicazione e dunque messaggio, proclama, manifesto. La sua reazione al consumismo di massa e ai relativi miti, di frequente espressa in contestazioni plateali, non è rottura, ma impegno verso l’ideale di un’umanità felice, verso la renaissance of wonder, il rinascimento della meraviglia. In tal modo Ferlinghetti, pur vivendo le tipiche tensioni dell’anarco-pacifista contestatario, supera lo sterile cronachismo tipico della poesia di impegno. La poesia, dunque, guarda al reale, ma lo trasfigura tramite l’immaginazione in un appello profetico, mosso dagli occhi desiderosi e interroganti della mente.
Domande sulla poesia
La dimensione di appello, di messaggio che tende a divenire profezia condivisa con altri è stata realizzata da Ferlinghetti frequentando i poeti del San Francisco’s Poetry Center, ma soprattutto fondando nel 1953, all’interno del quartiere italiano di San Francisco, la libreria City Lights e quindi la celebre casa editrice ad essa legata. Ferlinghetti ha pensato il suo spazio come punto di incontro tra lettori, autori e critici. Questo spazio si è allargato nel 1998 grazie a una collaborazione mensile come columnist con il San Francisco Chronicle, il maggiore quotidiano del Nord della California. Nelle pagine del supplemento culturale egli offre brevi considerazioni sulla poesia, una sorta di dichiarazione di poetica che si va componendo ed esprimendo nel tempo. Lo stile dei suoi interventi è mosso e vario. A volte Ferlinghetti usa una strategia discorsiva, altre volte argomenta su autori e opere, altre ancora invece si esprime per intuizioni rapide. Il titolo dato alla rubrica è Poetry As News («Poesia come notizia»), nella convinzione che anche una poesia scritta nel passato possa costituire una «notizia» per l’oggi. Così scriveva nel suo primo intervento sul quotidiano nel dicembre 1998. Ma è vero che pure la notizia di un giornale può avere il valore di una poesia, a suo parere, a patto che non sia solamente informazione, ma anche «notizia dell’anima, notizia delle passioni, notizia del vivere, dell’amare, del morire in tutte le sue profondità soggettive».
Nella sua rubrica Ferlinghetti intende affrontare domande impegnative circa la natura della poesia, il suo compito, la sua capacità di cambiare il mondo, il suo futuro, il ruolo del poeta nella società. Tra questi interventi ne troviamo due di particolare intensità, composti da brevissime frasi, come piccole intuizioni da meditare. Il primo è del gennaio 2000 e ha per titolo «What Is Poetry? (Che cos’è la poesia?)»; il secondo è del febbraio 2001 e ha per titolo «Challenges To Young Poets (Sfide per giovani poeti)». Il primo intervento risale alla fine degli anni Cinquanta, quando Ferlinghetti lo lesse in una trasmissione radiofonica. La sua trascrizione fu pubblicata soltanto nel 1998 sotto il titolo di The Street’s Kiss. Successivamente è apparsa la versione rielaborata per il quotidiano californiano e infine l’edizione modificata e aumentata pubblicata nel 2000, che ha per titolo What is Poetry?, adesso accessibile anche al pubblico italiano nella Piccola Biblioteca Oscar di Mondadori[4], che contiene anche Sfide per giovani poeti. Ai due testi, nell’edizione italiana, viene premesso un inno scritto all’indomani dei tragici eventi dell’11 settembre dal titolo di «Storia dell’aeroplano».
L’«intelligenza lirica»
Ferlinghetti è consapevole delle fin troppo numerose definizioni date alla poesia. Nonostante ciò, egli prova a ripeterne alcune date in passato e ne formula di nuove. Innanzitutto per lui la poesia è «notizie dalla frontiera della coscienza», «incursione sovversiva sull’obliata lingua dell’inconscio collettivo», «tocco ribelle alle porte dell’ignoto», «frammento pulsante di vita interiore». Le semplici affermazioni collocano dunque il terreno di nascita della poesia nel rapporto con la coscienza e con i suoi bordi interni ed esterni: la poesia porta alla parola ciò che vive nei confini della consapevolezza e dell’interiorità. Questa natura è confermata da un’intuizione dantesca per cui, scrive Ferlinghetti, poesia è «il grido che grideremmo al risveglio in una selva oscura nel mezzo del cammin di nostra vita» o anche, semplicemente, «grida lontane». Il risveglio è, come la frontiera, un’immagine liminare molto evocativa.
La visione dunque non può avere né come oggetto privilegiato né come sfondo il reale, ma solamente l’immaginario. Esso non ha la natura e i colori della realtà, ma quelli brillanti dell’illuminazione (shook foil, «lamina luccicante»; the sun streaming down, «l’irraggiamento del sole»; book of light, «libro di luce»); quelli in dissolvenza degli aloni (dissolving halos) e delle sfumature; quelli oscuri della cecità (blind singers, «cantanti ciechi») o dell’ombra prodotta dalle nostre streetlight immaginations («immaginazioni-lampione»). Tra luci abbaglianti, oscurità cieche e sfumature in dissolvenza, dunque, nella visione di Ferlinghetti la poesia sembrerebbe perdere la luce del giorno. È vero: la poesia «la si può fare in casa con ingredienti di tutti i giorni (can be made of common household ingredients)». Ma questi ingredienti non hanno un rapporto forte con la realtà e non generano parole consapevoli: la vera poesia «dice l’indicibile» e dunque non può che essere «ciò che sta tra le righe», «sillabe di sogni», «pensieri-notte (night thoughts)»: assenza, virtualità, oscurità. Con la sua «intelligenza lirica (lyric intelligence)» a «visione grandangolare» il poeta «interroga costantemente la realtà e la reinventa». Non si ferma sul reale, non lo vive fino in fondo in uno sforzo di accoglienza e conoscenza: lo reinventa tanto da generare una «Coney Island della mente», un «circo dell’anima». E in questo slancio dionisiaco la poesia sembra perfino presumere di essere «religione» e salvezza del mondo.
È da tali premesse che nascono le «sfide per giovani poeti», lanciate da Ferlinghetti nel corso di una premiazione per giovani scrittori, il San Francisco High School Poetry Festival. Innanzitutto notiamo che il poeta non intende dare «consigli», come altri più volentieri hanno fatto. Preferisce porsi sul piano della provocazione niente affatto benevola o blanda. Viene anzi delineata una sorta di impresa prometeica: la sfida consiste nel raggiungere l’irraggiungibile, nell’arrampicarsi sulla Statua della Libertà, nel contare le stelle… Sfide che esprimono un romanticismo in cui lo sforzo è commisurato a se stesso e al superamento dei limiti esterni e interni. Non c’è infatti una meta chiara, ma solamente una forte tensione. Il giovane poeta, per Ferlinghetti, è quello ribelle, che «balla coi lupi», che resiste molto e obbedisce poco, che dissente ed è sovversivo, che è ingenuo, innocente, preso dalla sorpresa e dalla meraviglia, militante ed estatico. Ma soprattutto la sfida si può riassumere nell’invito a «mettere in questione la realtà», che, essendo ridotta a uno status quo dal sapore politico, appare rigettata in favore dell’ideale.
Tra reale e immaginario
Ferlinghetti con le sue sfide e le sue «definizioni» cerca di disegnare piccoli abbozzi di una poesia intesa come inward drive, come spinta verso la frontiera interiore. Su questa spinta si è mossa, del resto, la poesia americana degli anni Settanta nella direzione del terreno sconosciuto dei bordi della coscienza, irto di ostacoli e di sabbie mobili. Il linguaggio poetico permetterebbe di penetrare l’abisso tra interiorità ed esperienza, tra coscienza e realtà, tra soggetto e oggetto. A quali conclusioni conducono le espressioni di Ferlinghetti?
È da premettere che la poesia del poeta italo-americano, rispetto a quella di altri poeti beat, è decisamente affezionata al reale, alle cose del mondo. Tuttavia la sua poesia — e queste ultime «definizioni» messe in mano al pubblico italiano sembrano confermarlo — è inficiata da un rischio fondamentale: quello di finire per considerare il reale come importante sì, ma solo in quanto trampolino di lancio, una scusa per passare, troppo velocemente, alle associazioni e alle evocazioni della coscienza. Il reale, insomma, viene scolorito, perde il suo valore e il suo peso specifico. Risulta illuminante, a questo proposito, una delle ultime espressioni di Cos’è la poesia?. Essa rigetta il celebre e acuto detto di William Carlos Williams: No ideas but in things (Niente idee se non nelle cose). Ferlinghetti afferma che questa frase va bene per la prosa, ma «stende un peso morto sul lirismo, dal momento che le “cose” sono morte». E ciò che conta è il lirismo. Insomma, per il poeta di San Francisco, le idee non hanno a che fare con la realtà. La poesia deve puntare alle idee (intese anche come «visioni») e non al reale. La sensibilità espressa è chiaramente di carattere platonico.
La questione che Ferlighetti sembra porre, infatti, è quella antica, ma sempre attuale, del rapporto tra arte e realtà[5]. In uno sforzo che intende legare l’arte alla militanza politico-sociale, Ferlinghetti finisce per vivere una sorta di contraddizione: vuole una poesia impegnata nella realtà, ma l’unico modo che egli trova per incontrare il reale è l’immaginario, la frontiera della coscienza e, a volte, come sappiamo dalle sue vicende biografiche, perfino l’uso di sostanze allucinogene. Si tratta della tipica dialettica di una delle possibili forme di idealismo romantico. In tal modo ci si accosta al normale corso delle cose, al loro flumen, ma se ne ricava soltanto un fulmen, uno scoppio improvviso, luminoso oppure oscuro. La «visione» del mondo si tramuta in una «visionarietà», frutto di una ricerca soggettiva, sia essa lucida o allucinata, non importa.
La strada, legata alle contraddizioni della coscienza, percorsa e additata da Ferlinghetti può condurre a panorami interiori, a visioni che bucano ciò che la vista propone, a deragliamenti dei sensi e a paradisi artificiali, a un disagio del reale e anche a un’ansia di assoluto, accompagnata a volte dalla percezione del limite che la vita comporta. La strada della realtà, più «classica», condurrebbe invece a panorami e paradisi terrestri, a gioiosi o dolorosi adeguamenti alla realtà del mondo, a un’umiltà che permette di accogliere ciò che cade sotto i sensi, a una percezione nuova del mondo, a volte accompagnata dalla durezza e dalla resistenza che le cose oppongono all’uomo e che egli lima e addomestica col suo lavoro e il suo impegno.
A nostro giudizio queste due strade, quella dei labirinti della coscienza e quella dei sentieri della realtà, non possono essere scisse: scorrono parallele e costituiscono insieme un binario. È questo binario che andrebbe additato come sfida ai «giovani poeti»: senza il reale la coscienza è vuota e se essa lo rifugge si trova soltanto davanti al nulla, anche se fosse alla ricerca dell’assoluto; senza la coscienza la realtà è un fatto «bruto», una superficie fredda che si impone come cosa anonima e muta.
Ma è d’obbligo una riflessione finale: in un mondo come il nostro, dove il consenso viene spesso affidato al potere dell’immagine e la realtà attivamente più frequentata è quella virtuale, la sfida di Ferlinghetti dà comunque a pensare. Fare appello alla creazione di immagini «poetiche» e dunque senza fini di guadagno, gratuite, può rappresentare una scelta di valore anche etico, oltre che estetico.
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[1] Cfr L. Ferlinghetti (ed.), City lights pocket poets anthology, Milano, Mondadori, 1997.
[2] Tra le varie edizioni delle opere di Ferlinghetti ricordiamo le più recenti: Coney Island della mente, Parma, Guanda, 1968; Tremila formiche rosse, ivi; Lei, Roma, Minimum fax, 1997; Notte messicana, Roma, Newton Compton, 1980; Poesie, Roma, Lato side, 1981; Poesie vecchie & nuove, Roma, Minimun fax, 1998; Scene italiane, ivi, 1995; Non come Dante. Poesie 1990-1995, ivi, 1996; Poesie. Questi sono i miei fiumi. Antologia personale 1955-1993, Roma, Newton Compton, 1996; Poesie, Parma, Guanda, 1997; Routines, Roma, Minimum fax, 1998; Strade sterrate per posti sperduti, ivi, 1999; L’amore nei giorni della rabbia, Milano, Mondadori, 1999; Il senso segreto delle cose, Roma, Minimum fax, 2000; Un luna park del cuore, Milano, Mondadori, 2000.
[3] Segnaliamo che lo stesso Ferlinghetti ne ha dato una interpretazione, accompagnata da musica di Dana Colley, che è possibile ascoltare in una registrazione su CD edita nella serie «Voices» dalla Rykodisc nel 1999.
[4] Cfr L. Ferlinghetti, The Street’s Kiss, Boise (Idaho), Limberlost Press, 1998; Id., What is Poetry?, Berkeley (California), Creative Arts Book, 2000; Id., Cos’è la poesia. Sfide per giovani poeti, Milano, Mondadori, 2002.
[5] Segnaliamo, solo a titolo di esempio, qualche recente pubblicazione al riguardo: R. Mussapi, L’avventura della poesia, Milano, Jaca Book, 2002; G. Pontiggia, Contro il romanticismo. Esercizi di resistenza e di passione, Milano, Medusa, 2002; D. Rondoni, Non una vita soltanto. Scritti da un’esperienza di poesia, Genova, Marietti, 2002; G. Sica, Sia dato credito all’invisibile. Prose e saggi, Venezia, Marsilio, 2000. Sul tema anche il nostro A che cosa «serve» la letteratura?, Torino – Roma, ElleDiCi – La Civiltà Cattolica, 2002.