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«I profondi cambiamenti che hanno portato al diffondersi sempre più vasto di società multiculturali domandano a quanti operano nel settore scolastico e universitario di coinvolgersi in itinerari educativi di confronto e di dialogo, con una fedeltà coraggiosa e innovativa che sappia far incontrare l’identità cattolica con le diverse “anime” della società multiculturale»[1].
È una precisa indicazione che il Santo Padre ha dato ai formatori delle scuole cattoliche nel corso dell’udienza del 13 febbraio scorso ai partecipanti alla plenaria della Congregazione per l’educazione cattolica. Nel testo citato occupa il posto centrale la coscienza che la nostra è una civiltà in rapido cambiamento, sottoposta a successive trasformazioni in ogni campo, dalle quali dipendono le sue molte anime, ossia il suo pluralismo culturale e religioso. Solida nella propria identità, la Chiesa è chiamata a camminare accanto, e passo passo, a questa evoluzione dello spirito e delle strutture umane, avendo il dialogo come strumento di interpretazione, di critica e di confronto. Risuona nel testo la grande lezione del Vaticano II[2], che il Papa ripropone continuando il magistero dei suoi immediati predecessori.
La dimensione dialogale dell’uomo
Oggi è addirittura banale ripetere che la persona umana è caratterizzata da un innato desiderio di comunicazione e di comunione con gli altri. È, questa, una riscoperta, e non la minore, dell’antropologia moderna. La filosofia, le scienze umane, la teologia hanno moltiplicato gli studi su questo naturale orientamento dell’uomo. L’uomo si matura e diventa persona adulta nella relazione interpersonale, sviluppando la capacità di convivere, associarsi, collaborare con gli altri uomini. Dal punto di vista sociale, la maturità diventa un pacifico possesso quando l’individuo riesce a collaborare con gli altri, rispettandone la diversità e riconoscendone le qualità e i limiti con sano realismo[3]. È questa la temperie che forma al dialogo, la condizione per saper ascoltare, comprendere e discutere le opinioni altrui.
La Chiesa sa bene che la nostra non è l’epoca che possa ammettere guerre di religione. Sa bene che la società pluralistica non sopporta più polemiche sistematiche per questioni religiose. Sa bene che la secolarizzazione permea e minaccia Chiese e comunità cristiane, le quali non possono non cercare le forme di una convivenza pacifica tra loro stesse e la società per rendere significativa la loro presenza in una situazione, soprattutto culturale, che ha del drammatico. La cultura odierna percepisce come anacronistici i vecchi atteggiamenti di sdegnoso rifiuto e di lotta, da un lato, e, dall’altro, lo spirito e la strategia della competizione frontale. La humanitas corre oggi tali pericoli da richiedere l’opera concorde di tutte le forze storiche che hanno a cuore la costruzione di una umanità più giusta e solidale.
Secondo alcuni critici, il Magistero della Chiesa avrebbe assunto il dialogo come strumento della sua attività nella società contemporanea soltanto per calcolo diplomatico, per far fronte alle difficoltà che le provengono dall’odierna congiuntura culturale. Si può riconoscere una parte di verità contenuta in questa critica, che si riferisce ad alcuni motivi storici che hanno privilegiato la scelta del dialogo nella pastorale. Possono essere i motivi estrinseci di quella scelta. Ma altrimenti determinanti sono i motivi intrinseci. Il dialogo trae il suo valore da se stesso. Non ha bisogno di giustificazioni esterne ad esso, perché si autogiustifica per il solo fatto che ogni persona umana ha l’esigenza di essere compresa e di comprendere l’altra. L’individualismo anacoretico non è dimensione ordinaria della vita umana e se, in tempi ormai lontani, è stato praticato e sostenuto come fuga saeculi, ciò è avvenuto per influenza o di un particolare momento storico delle relazioni della Chiesa con la società o di un’elezione carismatica propria di particolarissimi stati di vita.
Ora, se è nella natura umana la dimensione dialogale, è nel Dna della Chiesa, educata dal Vangelo, l’attitudine al dialogo come veicolo della predicazione evangelica. Il Cristo stesso si è presentato più volte come maestro e modello di tale attitudine. Proporre la verità che da lui prende nome e autorità non implica lo scontro con coloro che propongono una verità diversa, a patto che tutti avvertano come dovere morale la ricerca della verità. E quando si afferma questo dovere, perciò stesso si afferma la necessità del dialogo. Praticarlo poi come metodo non comporta la messa in parentesi dei propri convincimenti. Comporta invece la persuasione che il dialogo tra coscienze rette può condurre a enucleare e avvicinare proposizioni diverse con reciproco arricchimento. È di Spinoza l’assioma fondamentale: «Non ridere, non piangere, non odiare, ma capire» (Non ridēre, non lugēre, neque detestari, sed intelligere).
La Chiesa del nostro tempo si sente costituita per il dialogo e non cessa, sul piano della dottrina e su quello del confronto pratico con le molteplici istanze della cultura e della società, di dar prova quotidiana di questo suo atteggiamento e riconosce nel dialogo sia «il tratto specificante dell’antropologia» sia «una categoria della propria autocomprensione»[4].
Un punto, tuttavia, va chiarito: dialogo dice confronto, non resa. Dice dibattito anche vivace, ma non assorbimento delle tesi dell’interlocutore per malinteso irenismo: il che significherebbe insicurezza e scetticismo riguardo alla propria posizione. È utile richiamare, in proposito, l’acuta osservazione di un insigne teologo molto caro a Papa Bergoglio.
De Lubac era stato colpito dal fatto che le vecchie critiche alla Chiesa andavano perdendo o attenuando l’antica virulenza, con soddisfazione di molti cristiani. Ma il fenomeno, a prima vista positivo, non gli sembrava un buon segno. «Senza dubbio può essere determinato da un cambiamento nella situazione oggettiva o da un reale miglioramento da una parte e dall’altra. Ma potrebbe anche significare che coloro, attraverso i quali la Chiesa è conosciuta, pur proponendo ancora al mondo alcuni apprezzabili valori, si sono conformati a lui, ai suoi ideali, alle sue consuetudini, ai suoi costumi. Sicché avrebbero cessato d’essere inquietanti»[5].
Il dialogo nella «Evangelii gaudium»
La recente Esortazione apostolica dà uno spazio relativamente ampio al tema del dialogo: dialogo tra la fede, la ragione e le scienze: dialogo ecumenico e interreligioso; dialogo sociale[6]. Con una caratteristica: è tutta la Chiesa a doversi mettere in stato di dialogo. «È tempo di sapere come progettare, in una cultura che privilegi il dialogo come forma d’incontro, la ricerca di consenso e di accordi, senza però separarla dalla preoccupazione per una società giusta, capace di memoria e senza esclusioni. L’autore principale, il soggetto storico di questo processo, è la gente e la sua cultura, non una classe, una frazione, un gruppo, un’élite. Non abbiamo bisogno di un progetto di pochi indirizzato a pochi, o di una minoranza illuminata o testimoniale che si appropri di un sentimento collettivo. Si tratta di un accordo per vivere insieme, di un patto sociale e culturale»[7].
Al Papa sono chiarissime le difficoltà alle quali è esposto questo progetto. È la «diffusa indifferenza relativista, connessa con la disillusione e la crisi delle ideologie verificatasi come reazione a tutto ciò che appare totalitario». E «una cultura, in cui ciascuno vuole essere portatore di una propria verità soggettiva, rende difficile che i cittadini desiderino partecipare ad un progetto comune che vada oltre gli interessi e i desideri personali». Inoltre, «nella cultura dominante, il primo posto è occupato da ciò che è esteriore, immediato, visibile, veloce, superficiale, provvisorio. Il reale cede il posto all’apparenza»[8].
Il «vuoto lasciato dal razionalismo secolarista» è stato spesso sostituito dal fondamentalismo, mentre «il processo di secolarizzazione tende a ridurre la fede e la Chiesa all’ambito privato» e, crescendo il relativismo, cresce altresì «un disorientamento generalizzato, specialmente nella fase dell’adolescenza e della giovinezza, tanto vulnerabile dai cambiamenti»[9]. È lo scenario dell’«individualismo postmoderno e globalizzato» che «favorisce uno stile di vita che indebolisce lo sviluppo e la stabilità dei legami tra le persone»[10].
In una società così frammentata, «la città è un ambito multiculturale. Nelle grandi città si può osservare un tessuto connettivo in cui gruppi di persone condividono le medesime modalità di sognare la vita e immaginari simili e si costituiscono in nuovi settori umani, in territori culturali, in città invisibili. Svariate forme culturali convivono di fatto». E «la Chiesa è chiamata a porsi al servizio di un dialogo difficile»[11], che, nello stesso tempo, è «un prezioso spazio di incontro e di solidarietà», se si riesce a evitare il rischio «della fuga e della sfiducia reciproca»[12].
Per la Chiesa, un compito si presenta come primario. «L’ideale cristiano inviterà sempre a superare il sospetto, la sfiducia permanente, la paura di essere invasi, gli atteggiamenti difensivi che il mondo attuale ci impone. Molti tentano di fuggire dagli altri verso un comodo privato, o verso il circolo ristretto dei più intimi, e rinunciano al realismo della dimensione sociale del Vangelo»[13].
Il metodo del dialogo
La Evangelii gaudium, offre anche indicazioni pratiche sul modo con cui si stabilisce e si porta avanti un dialogo sincero e proficuo. «Un dialogo è molto di più che la comunicazione di una verità. Si realizza per il piacere di parlare e per il bene concreto che si comunica tra coloro che si vogliono bene per mezzo delle parole. È un bene che non consiste in cose, ma nelle stesse persone che scambievolmente si donano nel dialogo»[14].
Qui il testo pontificio recupera una profonda intuizione di san Tommaso: «L’amore è il dono originario. Solo grazie ad esso, qualunque cosa ci possa essere data indipendentemente dai nostri meriti diviene dono» (Amor habet rationem primi doni, per quod omnia dona gratuita donantur)[15]. Non c’è dialogo e dono di sé senza collocarsi previamente in un atteggiamento di rispetto e di benevolenza. «In una civiltà paradossalmente ferita dall’anonimato, la Chiesa ha bisogno di uno sguardo di vicinanza per contemplare, commuoversi e fermarsi davanti all’altro tutte le volte che sia necessario»[16].
Più concretamente: «Abbiamo bisogno di esercitarci nell’arte di ascoltare, che è più che sentire. La prima cosa, nella comunicazione con l’altro, è la capacità del cuore che rende possibile la prossimità, senza la quale non esiste un vero incontro spirituale. Solo a partire da questo ascolto rispettoso e capace di compatire si possono trovare le vie per un’autentica crescita»[17]. Ma, nota un illustre filologo, «per ascoltare occorre tacere. Non soltanto attenersi a un silenzio fisico che non interrompa il discorso altrui, ma a un silenzio interiore, ossia un atteggiamento tutto rivolto ad accogliere la parola altrui»[18].
A questo metodo, diciamo così, naturale per un vero dialogo il Papa aggiunge una motivazione teologica: «Ogni volta che ci incontriamo con un essere umano nell’amore, ci mettiamo nella condizione di scoprire qualcosa di nuovo riguardo a Dio»[19]. «Ogni persona è degna della nostra dedizione. Non per il suo aspetto fisico, per le sue capacità, per il suo linguaggio, per la sua mentalità o per le soddisfazioni che ci può offrire, ma perché è opera di Dio, sua creatura»[20].
A monte del pensiero del Papa c’è un principio che informa tutto il testo della Evangelii gaudium e lo preserva, nel ragionamento e nell’espressione letteraria, da ogni sorta di astrattezza. Le elaborazioni concettuali servono a capire e dirigere la realtà. Quando non seguono più la realtà e diventano indipendenti da essa, nascono i nominalismi e gli idealismi, i fondamentalismi antistorici e gli intellettualismi campati in aria[21]. Si fa dialogo sul serio quando gli interlocutori si astengono dall’elaborare idee e si tengono aderenti alla realtà, che è superiore alle idee. «È pericoloso vivere nel regno della sola parola, dell’immagine, del sofisma». Si fa dialogo quando e se si riesce a stabilire «una tensione bipolare tra l’idea e la realtà»[22].
Un’obiezione
La Evangelii gaudium reca la data del 24 novembre 2013. Due mesi dopo, il 24 gennaio 2014, veniva reso noto il Messaggio per la 48a Giornata mondiale delle Comunicazioni sociali. Nel Messaggio, il Papa ritorna sul tema del dialogo con un tono più accorato. Sullo sfondo, il mondo fatto «più piccolo» dai trasporti, dalle tecnologie della comunicazione, dalla globalizzazione, dai media e da internet: e i media sono, o possono diventare, «una conquista più umana che tecnologica». È anche un mondo abitato da un’umanità divisa da conflitti originati da cause economiche, politiche, ideologiche e «purtroppo anche religiose». Sopra tutto, il dramma della «miseria dei più poveri». È questo il contesto nel quale la volontà di dialogare acquista la sua decisiva importanza.
«I muri che ci dividono possono essere superati solamente se siamo pronti ad ascoltarci e ad imparare gli uni dagli altri. Abbiamo bisogno di comporre le differenze attraverso forme di dialogo che ci permettano di crescere nella comprensione e nel rispetto. La cultura dell’incontro richiede che siamo disposti non soltanto a dare, ma anche a ricevere dagli altri».
Per incontrarci e dialogare, «dobbiamo recuperare un certo senso di lentezza e di calma. Questo richiede tempo e capacità di fare silenzio per ascoltare. Abbiamo anche bisogno di essere pazienti se vogliamo capire chi è diverso da noi: la persona esprime pienamente se stessa non quando è semplicemente tollerata, ma quando sa di essere davvero accolta». Perché «comunicare significa prendere consapevolezza di essere umani» e «mi piace — dice il Papa — definire questo potere della comunicazione come “prossimità”». È difficile misconoscere e sottovalutare l’ispirazione evangelica e la carica di humanitas che hanno dettato direttive e consigli così preziosi.
Nel Messaggio c’è un’affermazione sul significato e sul metodo del dialogo che, meglio delle altre consimili contenute nella Evangelii gaudium, esprime il pensiero del Papa e la «tecnica» del dialogo: ed è un’espressione valida per credenti, per non credenti e per diversamente credenti. «Dialogare significa essere convinti che l’altro abbia qualcosa di buono da dire, fare spazio al suo punto di vista, alle sue proposte. Dialogare non significa rinunciare alle proprie idee e tradizioni, ma alla pretesa che siano uniche ed assolute»[23]. Questo testo è introdotto con quella che si può dire essere l’intenzione profonda del Papa che riecheggia l’ansia pastorale del Vaticano II[24]: «Occorre sapersi inserire nel dialogo con gli uomini e le donne di oggi, per comprenderne le attese, i dubbi, le speranze, e offrire loro il Vangelo».
Qualcuno, leggendo queste parole, si è strappato le vesti. Qualcuno ha parlato di un cedimento del Papa allo Zeitgeist (lo spirito del tempo): e viene da sorridere quando coloro che sistematicamente accusano di conservatorismo dottrinale la Chiesa si fanno interpreti autentici della dottrina cristiana della quale il Papa si sarebbe dimenticato. Tra i cattolici, non è mancato chi ha tacciato il Papa di relativismo, contrapponendolo al suo predecessore, come se Benedetto XVI, nel Messaggio per la 47a Giornata mondiale delle Comunicazioni sociali celebrata nel 2013, non avesse esortato i cattolici a donarsi agli altri «attraverso la disponibilità a coinvolgersi pazientemente e con rispetto nelle loro domande e nei loro dubbi, nel cammino di ricerca della verità e del senso dell’esistenza umana». Non è per caso che il testo di Papa Ratzinger è incluso in quello di Papa Bergoglio, a testimonianza della loro comunione e identità di vedute nel ministero.
La concezione che il Papa ha del dialogo esclude ogni relativismo nel campo della dottrina rivelata. Quando egli insegna che bisogna dare a ognuno la possibilità di esprimersi e di essere ascoltato, perché non c’è nessuno che non porti in sé dei valori, non dice affatto che rendersi conto dei valori degli altri deve comportare l’abbandono dei propri. Comprendere gli altri, le loro speranze e i loro dubbi, le loro attese e le loro credenze, significa semplicemente dialogare con altre persone con rispetto e benevolenza, in spirito di «prossimità». Dialogare è condividere. E il campo nel quale si può estendere la condivisione è molto più largo del campo delle fedi religiose. È un campo nel quale rientrano le opinioni, i linguaggi, le scelte culturali, politiche, partitiche, sociali, le idee che ci si è formati intorno a tutto ciò che costituisce il tessuto della vita individuale e collettiva. Per quale motivo dialogare con chi la pensa diversamente dovrebbe significare alterazione o negazione della purezza dottrinale della fede religiosa professata?
Certamente non è escluso che, in certi casi concreti, il dialogare si risolva nella corruzione della fede religiosa, nella sua riduzione a opinione uguale e trattabile come le altre. Così come non è escluso, ed è desiderabile, che il dialogare del credente appiani la via della testimonianza evangelica.
Sia l’Esortazione sia il Messaggio quindi non contengono alcun elemento di relativismo dogmatico. Anzi, nel testo sopra citato del Messaggio, il Papa prende in considerazione la possibilità e l’opportunità che il dialogo, nelle sue varie forme, da quella orale a quella mediata dagli strumenti tecnologici, si faccia veicolo del Vangelo, senza forzature propagandistiche, senza surrettizie intenzioni di altro genere. Il dialogo è un metodo di approccio alla persona umana, una maniera di donarsi e di farsi prossimo.
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[1] Cfr Oss. Rom., 14 febbraio 2014, 7.
[2] Cfr Gaudium et spes, n. 92.
[3] Cfr A. Mercatali, «Comunità di vita», in S. De Fiores – T. Goffi (eds), Nuovo Dizionario di Spiritualità, Cinisello Balsamo (Mi), Paoline, 19854, 226 s.
[4] Cfr S. Spinsanti, «Ecumenismo spirituale», ivi, 474-476.
[5] H. de Lubac, Meditazione sulla Chiesa, Milano, Paoline, 19653, 247.
[6] Cfr Evangelii gaudium, nn. 241-258.
[7] Ivi, n. 239.
[8] Ivi, nn. 61-62.
[9] Ivi, nn. 63-64.
[10] Ivi, n. 67.
[11] Ivi, n. 74.
[12] Ivi, n. 75.
[13] Ivi, n. 88.
[14] Ivi, n. 142.
[15] Sum. Th. I, 38, 2 c.
[16] Evangelii gaudium, n. 169.
[17] Ivi, n. 171.
[18] G. Pozzi, Tacet, Milano, Adelphi, 2013, 20.
[19] Evangelii gaudium, n. 272.
[20] Ivi, n. 274.
[21] Cfr ivi, n. 232.
[22] Ivi, n. 231.
[23] Cfr Oss. Rom., 24 gennaio 2014, 8.
[24] Cfr Gaudium et spes, n. 1.