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Una delle interpretazioni più lucide e oggettive sulla prima guerra mondiale fu data da Sigmund Freud in un saggio del 1915, quando il conflitto era ancora agli inizi. Questa guerra, egli scriveva, «non soltanto è più sanguinosa e rovinosa di ogni guerra del passato, per i tremendi perfezionamenti portati alle armi di offesa e di difesa, ma è anche perlomeno altrettanto crudele, accanita e spietata, di ogni altra anteriore». Essa — continuava — infrange tutte le barriere e le garanzie poste a tutela della persona e delle comunità in tempo di pace; non opera nessuna distinzione tra popolazione combattente e civile e viola ogni diritto di proprietà, «abbatte quanto trova nella sua strada, con una rabbia cieca e come se dopo non dovesse più esserci un avvenire di pace tra gli uomini». Spezza i rapporti di comunità e divide i popoli, lasciando dietro di sé «un tal rancore da rendere impossibile per molti anni una loro ricostituzione»[1].
Freud era cittadino austriaco, anche se non acriticamente schierato con le ragioni degli «Imperi Centrali». Non era un politico, ma un intellettuale libero, con legami assai stretti con la comunità scientifica internazionale: ciò gli dava la possibilità di considerare la guerra in corso con maggiore oggettività e lucidità di giudizio. Nel brano riportato si coglie in pieno la percezione dell’immane gravità della guerra appena iniziata, che per questo fu presto definita «la grande guerra», e ciò non soltanto perché (dopo l’attentato di Sarajevo del 28 giugno 1914) nel giro di soli 15 giorni coinvolse tutte le maggiori potenze europee, ma anche perché, come scrisse Freud, essa si prospettava più «sanguinosa e rovinosa» delle precedenti: di fatto produsse su entrambi i fronti più di 10 milioni di morti e 20 milioni di feriti. In quegli stessi anni un virus contagioso, conosciuto come «influenza spagnola», reso più aggressivo dalla mobilitazione posta in essere a causa del conflitto, produsse altri 20 milioni di morti. Una carneficina di questa entità non si era mai vista in Europa e nel mondo; purtroppo tale macabra contabilità fu presto superata dalla seconda guerra mondiale che, per precise motivazioni di ordine storico, fu il naturale prolungamento della prima.
Uno degli aspetti che Freud sottolineava nel brano citato era il carattere totale della guerra. Ciò la differenziava dai conflitti precedenti (come la guerra franco-prussiana del 1870), generalmente molto localizzati e circoscritti all’ambito militare. Nella grande guerra, invece, saltarono le regole del gioco secondo le quali si erano svolte le guerre dell’ancien régime: non vi era più differenza tra militari e civili, tra verità e propaganda, tra scienza, tecnica e politica. Il conflitto però nacque e si sviluppò secondo logiche politiche e diplomatiche che erano proprie di quel mondo ormai superato: esso infatti, nei diversi Paesi, fu deciso da ristrette élites di governanti e di militari, senza consultare altri attori della vita politica e sociale, destinati a portare il peso della guerra[2].
Gli studi sulla prima guerra mondiale per lunghi decenni hanno generalmente riprodotto gli schieramenti politico-militari delle parti in conflitto. Dagli storici che sostenevano le ragioni dell’Intesa la responsabilità della guerra fu addebitata al militarismo e all’espansionismo della Germania e dell’impero austro-ungarico, che, a loro avviso, sottintendevano uno scontro di civiltà tra una concezione democratica e liberale dello Stato e della società, garantita dall’Intesa, e una concezione autocratica, autoritaria e imperialistica adottata dalle potenze della Triplice Alleanza. All’opposto, altri studiosi sostenevano cha la guerra fu il risultato della politica franco-inglese indirizzata già negli ultimi decenni del XIX secolo, praticamente dopo l’ultima guerra europea del 1870, ad «accerchiare» la Germania e a negarle, sul piano politico e diplomatico, un ruolo di primo piano, al quale il II Reich aspirava a motivo dell’elevato sviluppo economico e militare raggiunto[3].
In ogni caso, tali posizioni storiografiche, nella loro schematicità e soprattutto nella loro faziosità ideologico-nazionalista, sembrano in generale insostenibili, anche se ciascuna ha indubbi elementi di verità storica. Innanzitutto appare difficile sostenere che la prima guerra mondiale sia stata uno scontro tra regimi democratico-liberali e regimi autocratico-militari, poiché tra gli Stati che rientravano nel primo gruppo vi era la Russia, che in quel periodo era certamente, per molti aspetti, l’impero meno liberale e più conservatore d’Europa. Va inoltre ricordato che alla fine della guerra, se non fosse prevalso l’indirizzo auspicato dagli Stati Uniti di Wilson (che entrarono nel conflitto soltanto nel 1917), volto a valorizzare il principio di nazionalità e di autodeterminazione dei popoli, è probabile che l’Inghilterra e la Francia avrebbero adottato gli stessi criteri dell’anteguerra, soprattutto in materia coloniale[4].
Per quanto riguarda invece la teoria dell’accerchiamento della Germania da parte dei Paesi dell’Intesa, sulla base degli studi di Fritz Fischer, sembra che essa non risponda alla realtà dei fatti e in ogni caso appare strumentale agli appetiti imperialistici del II Reich; per lo storico tedesco, infatti, la responsabilità della guerra andrebbe interamente imputata alla politica bellicosa e autocratica della Germania guglielmina[5]. Va però ricordato che in questo periodo tutte le maggiori potenze europee si caratterizzarono per l’impulso dato all’imperialismo e per il desiderio di prestigio in ambito internazionale. Nei primi anni del Novecento ci fu una vera e propria gara tra le grandi potenze per assumere una posizione dominante a livello mondiale, e ciò diede avvio alla corsa al riarmo, che fu una delle ragioni dello scoppio della guerra. Inoltre, tra i due schieramenti — cioè la Germania da un lato, e la Francia e l’Inghilterra dall’altro — esisteva in quegli anni, in materia di possedimenti coloniali, una differenza sproporzionata: basti pensare che nel 1914 la Gran Bretagna possedeva un impero coloniale di 28 milioni di kmq, con 375 milioni di abitanti, contro i possedimenti tedeschi che non superavano i 3 milioni di kmq, con 12 milioni di abitanti. Quando le potenze «liberal-democratiche» europee sostenevano di voler conservare lo status quo, ciò significava sostanzialmente escludere la Germania dalla competizione coloniale e dalle decisioni più importanti in ambito internazionale[6]. Questo non poteva essere accettato da un Paese che, considerando il suo sviluppo interno e le sue potenzialità di espansione, intendeva assumere un ruolo guida nell’Europa continentale e ambiva a gareggiare con la Gran Bretagna sulla terra e sul mare per «l’assalto al potere mondiale»[7].
Dopo il grande lavoro svolto dagli storici negli anni successivi al conflitto per comprendere le cause remote e prossime, strutturali e culturali della guerra, oggi molti di essi si chiedono se questa potesse essere evitata. Mentre negli anni passati si era imposto il «topos della inevitabilità della guerra», per motivazioni di natura politica, strategica e militare, oggi guadagna terreno il «topos della improponibilità della guerra». Si parla di guerra assurda e spesso la si definisce come l’evento più complesso dell’epoca contemporanea, e ancora come un «evento senza soggetto, vale a dire resosi autonomo rispetto alle volontà e alle capacità degli attori che lo avevano scatenato»[8]. Questo però non significa che la guerra non vada spiegata nelle sue cause; il fatto che non si vada più alla ricerca del colpevole (come era avvenuto in passato) non significa che non esistano motivazioni di ordine storico che l’abbiano resa possibile[9]. Se la storiografia precedente riteneva inevitabile la grande guerra, ora molti la ritengono un evento evitabile, come gran parte dei fatti umani. «Evitabile — sostiene lo storico John Keegan — perché la successione degli avvenimenti che condusse allo scoppio delle ostilità avrebbe potuto essere interrotta in qualsiasi momento nelle cinque settimane che precedettero gli scontri armati, se la prudenza e la buona volontà avessero trovato modo di esprimersi»[10]. Di fatto ciò non avvenne, anzi la causa della guerra fu variamente sostenuta non soltanto dalle élites politiche e militari al potere, ma anche dalla popolazione civile, che all’inizio (soprattutto la borghesia urbana) l’accolse con entusiasmo, per motivazioni sia patriottico-nazionaliste, sia anche psicologico-vitalistiche secondo la cultura del tempo[11].
Come giustificare — si chiede Gian Enrico Rusconi — il fatto che tale evento che oggi ci appare così irrazionale sia stato pensato con un investimento di razionalità argomentativa e allo stesso tempo operativa senza precedenti? Nessuna guerra come questa era stata elaborata con tanta precisione scientifica e con l’impiego massiccio di tutte le competenze raggiunte nei diversi settori della conoscenza. «Dietro alle culture che si dichiaravano spiritualmente incompatibili (Germania contro Occidente) c’è la medesima razionalità tecnica, la stessa metodica razionale che crea identiche armi micidiali, perfezionate nella competizione; che elabora piani di guerra pensati con lo stesso sforzo di razionalità e metodicità»[12]. Sotto questo aspetto la grande guerra fu veramente un conflitto tutto intra-occidentale in cui si affrontarono due «civiltà sorelle», entrambe cristiane ed eredi della stessa civiltà greco-romana, ma divise dalle ambizioni di potere e di prestigio e dalla sete di dominare il mondo.
Gli antefatti storici della grande guerra
Furono soprattutto tre verosimilmente gli antefatti storici che prepararono la crisi europea e la prima guerra mondiale: 1) il sistema delle alleanze che, secondo i princìpi della diplomazia dell’ancien régime, serviva per evitare o scoraggiare guerre tra singoli Stati, in particolare per proteggere quelli più deboli rispetto a quelli più forti e aggressivi; 2) le guerre balcaniche, che sconvolsero l’assetto dell’Est Europa, facendo emergere, ai confini dell’impero austro-ungarico, nuovi Stati, come la Serbia, che ambivano a diventare potenze europee; 3) l’antagonismo anglo-tedesco per «il dominio del mondo», che agli inizi del Novecento innescò la corsa al riarmo tra le due superpotenze (e non soltanto) e che certamente contribuì alla conflagrazione globale. Tali aspetti, inoltre, nello sviluppo storico degli eventi vanno considerati non in maniera isolata, ma contestuale, anche perché risultano intrinsecamente collegati tra loro.
Circa il primo punto, va detto che l’equilibrio tra le potenze, instaurato negli ultimi decenni dell’Ottocento da tutte le grandi nazioni europee, si era trasformato in un confronto tra due blocchi politico-militari: da un lato vi era la Triplice Alleanza, formata dalla Germania, dall’Austria-Ungheria e dall’Italia, dall’altro vi era l’Intesa tra Russia e Francia, alla quale poco alla volta si avvicinò anche l’Inghilterra. Questa infatti, fino agli inizi del Novecento, aveva preferito assumere un ruolo super partes o, come si diceva, di balancer nel concerto degli Stati europei e non entrare direttamente in alleanze con Paesi dell’Europa continentale. La crescente militarizzazione delle potenze, in particolare della Germania, spinse la Gran Bretagna a uscire dal suo «splendido isolamento» e a stringere «intese» con alcuni Stati continentali: nel 1904 venne stipulata la cosiddetta Entente cordiale con la Francia, e nel 1907, dopo la prima crisi del Marocco, con la Russia. Tali patti erano segni evidenti del mutato atteggiamento dell’Inghilterra nei confronti delle «questioni continentali» e, come era prevedibile, ciò impensierì non poco la classe dirigente tedesca.
Ciò che però in quegli anni precedenti lo scoppio della guerra contrappose le due superpotenze fu il cosiddetto «piano Schlieffen», elaborato già dal 1892 dallo stato maggiore tedesco e che prevedeva, nel caso di guerra contro la Francia (tradizionale nemica della Germania), l’occupazione militare del Belgio, dell’Olanda e del Lussemburgo, Paesi ai quali le grandi potenze (Germania compresa) avevano garantito la neutralità, al fine di aggredire il nemico da Nord, aggirando in questo modo il territorio montuoso dell’Alsazia-Lorena. Il piano nel 1905 fu poi parzialmente modificato dal nuovo capo di stato maggiore Helmuth Karl von Moltke, eliminando l’invasione dell’Olanda in caso di attacco. In questo modo, si disse, si poteva approfittare del porto neutrale di Rotterdam per l’approvvigionamento dell’esercito.
Il problema era che l’intangibilità e la neutralità dei Paesi Bassi e del Belgio erano state da tempo garantite dalle grandi potenze europee, Germania compresa, e l’Inghilterra non intendeva venire meno alla parola data. Alla fine del novembre 1912, nel periodo della crisi balcanica, il Kaiser informò il Governo inglese, con il quale lavorava per mantenere la pace, dei suoi piani (non più segreti), al fine di sondare l’atteggiamento di questo in caso di conflitto europeo. La risposta di Londra fu immediata e ferma: il Governo inglese non avrebbe tollerato in nessun modo un «blocco continentale» egemonizzato da una sola potenza, cioè la Germania. La reazione del Kaiser alla dichiarazione inglese fu molto dura: per lui, essa infatti equivaleva a una dichiarazione di guerra contro la Germania, che si sentiva accerchiata dalle due potenze liberal-democratiche che dominavano su vasti territori coloniali[13].
Le guerre balcaniche dei primi del Novecento furono una conseguenza del disfacimento dell’impero ottomano, il grande malato dell’Ottocento. I conflitti scoppiati nell’autunno del 1912 (nel marzo dello stesso anno era stata costituita una «lega balcanica», che comprendeva la Serbia, la Bulgaria, la Grecia e il Montenegro) ebbero conseguenze notevoli per la stabilità dell’intera regione. Contro tutte le previsioni, gli eserciti della lega, in particolare quello bulgaro e quello serbo, avevano sconfitto quello turco. A partire da questo momento e fino allo scoppio della grande guerra, la regione non conobbe più pace, soprattutto perché «Vienna e Berlino ritennero il suo nuovo assetto potenzialmente molto più minaccioso del precedente per l’esistenza dei loro Paesi»[14].
Intanto il 30 maggio 1913 la cosiddetta «Conferenza degli ambasciatori», convocata a Londra, sanciva definitivamente l’uscita di scena della Turchia dall’Europa. Ma ad allarmare gli imperi centrali furono soprattutto i successi ottenuti dai serbi, apertamente appoggiati dai russi, che avevano quasi raddoppiato il loro territorio, rivitalizzando nella regione il sentimento nazionalista e panslavista. Sta di fatto che i serbi e i croati che vivevano entro i confini dell’impero austro-ungarico ormai guardavano più a Belgrado (e alla Russia loro protettrice) che a Vienna, ma anche le altre minoranze, come i cechi e gli slovacchi, reclamavano apertamente l’indipendenza dall’impero asburgico, che «ormai aveva preso il posto dell’impero ottomano come grande malato dell’Europa. Tutti si chiedevano quanto a lungo avrebbe potuto ancora durare. Se lo chiedevano, e con grande preoccupazione, anche a Berlino»[15]. Dal canto suo, la Germania non poteva in nessun modo tollerare lo sfaldamento del suo più leale alleato in Europa senza intaccare il suo prestigio politico, anche perché l’indebolimento dell’impero austro-ungarico avrebbe giovato soltanto alle mire espansionistiche della Russia, intenzionata a estendere la sua influenza sul mondo slavo e sull’intero continente europeo.
Questo stato di cose, come prevedibile, indusse la Germania a rivedere la sua politica in materia di riarmo, in particolare a spostare la priorità dal cosiddetto «riarmo navale», previsto dal «Piano Tirpitz», al potenziamento delle forze di terra: il che significava prepararsi a un nuovo conflitto. L’8 dicembre 1912 il Kaiser riunì, in un «Consiglio di guerra», i suoi più stretti collaboratori militari; ad esso non partecipò neppure il cancelliere del Reich, Theobald von Bethmann Hollweg. Guglielmo II aprì la seduta affermando che era arrivato il momento di procedere con decisione contro la Serbia, e che l’Austria avrebbe dovuto farlo al più presto. Per il capo di stato maggiore von Moltke, l’arroganza dei russi era il «segnale» che bisognava agire rapidamente dichiarando guerra alla Serbia: «tanto prima — disse — tanto meglio». Il ministro della marina Alfred von Tirpitz obiettò che la sua flotta non era ancora pronta a dare battaglia alla Royal Navy e che bisognava aspettare altri due anni. Von Moltke ribatté che si doveva puntare ormai soltanto sul potenziamento dell’esercito e che, se si fosse indugiato ancora, la Russia, con l’aiuto della Francia, avrebbe completato il suo riarmo, tanto da sfidare la potenza tedesca. Quindi meglio agire al più presto — concluse — e possibilmente nell’inverno del 1912.
Un altro elemento che certamente influì sullo scoppio della prima guerra mondiale fu l’antagonismo anglo-tedesco in ambito economico e soprattutto militare. Di fatto, la Germania già nei primi anni del Novecento aveva iniziato a mettere in discussione lo status quo internazionale voluto negli anni precedenti dall’Inghilterra e dalla Francia, che possedevano gran parte delle colonie nord-africane e asiatiche, disponendo un costoso riarmo navale (proposto dal ministro della marina von Tirpitz) che prevedeva la costruzione di 60 nuove grandi navi da guerra in 20 anni, in modo da opporsi al dominio esclusivo della marina britannica sulle acque dell’Atlantico. Per far fronte a tali impegni, il Kaiser Guglielmo II ridusse le spese sociali e stabilì nuove imposte (spesso indirette) e tasse, che di solito colpivano gli strati sociali meno abbienti. In Inghilterra, invece, si adottò una politica economica diversa: per pagare le spese di ammodernamento della flotta si dispose, non senza contrasti interni, un prelievo fiscale sui redditi più alti. Insomma, la nuova politica di riarmo ebbe ripercussioni molto forti in ambito economico nei due Paesi maggiormente interessati[16].
Ad ogni modo, il riarmo navale tedesco-britannico provocò alla fine un generale riarmo anche terrestre, che coinvolse tutte le grandi potenze europee, e ciò fece da sfondo alla conflagrazione di una guerra europea, anzi mondiale. A tale proposito lo storico tedesco-americano Michael Geyer ha scritto: «Il riarmo è sempre un fatto straordinario. Perché il processo è rischioso e può innescare una crisi prima ancora che i suoi sostenitori diventino essi stessi un fattore di rischio […]. Non c’è politica di riarmo che non costringa a chiedere prima alla società di fornire i mezzi indispensabili e poi si provvederà a trasformarli in strumenti di guerra»[17]. La corsa agli armamenti si trasformò, già prima dell’inizio del conflitto del 1914 in un inarrestabile fiume in piena, «ma è molto probabile che le potenze europee si sarebbero comunque scavate la fossa da sole […] se la catastrofe della prima guerra mondiale non avesse impresso una brusca accelerazione al processo di esautorazione già in atto. La gara ormai avviata, in effetti, era in sé autodistruttiva […] e non poteva essere vinta, così come non poteva esserlo la successiva guerra mondiale»[18].
Lo scoppio della prima guerra mondiale: i fatti
Il temuto o, al contrario, l’atteso casus belli per lo scoppio della guerra avvenne il 28 giugno 1914, quando in un attentato, condotto da un ristretto gruppo di separatisti, vennero uccisi a colpi di rivoltella l’erede al trono asburgico, l’arciduca Francesco Ferdinando, e sua moglie Sofia. Il delitto avvenne in occasione di una visita ufficiale della coppia reale a Sarajevo, capoluogo della Bosnia, regione soltanto da poco tempo annessa al multietnico impero austro-ungarico. La notizia turbò profondamente tutta l’Europa e mise in frenetica agitazione le cancellerie; anche se l’arciduca non era molto amato né a corte né dall’esercito, l’assassinio, per l’importanza del personaggio colpito e per il suo significato simbolico, fece temere il peggio. Come è ovvio, mandante morale dell’attentato era considerata la dirigenza serba.
A Vienna il fatto fu scaltramente sfruttato dal partito dei «falchi» contro i cosiddetti «rassegnati» — tra i quali vi era anche il vecchio imperatore Francesco Giuseppe — per infliggere un colpo decisivo al nazionalismo panserbo, anche se questo avrebbe provocato l’immediato intervento della Russia accanto all’alleato serbo e, in ultimo, lo scoppio di una guerra europea. In ogni caso a Vienna non fu presa nessuna iniziativa senza prima accordarsi con Berlino. Si decise si inviare il conte Alexander von Hoyos in missione speciale presso il Kaiser. Egli consegnò a Guglielmo II una lettera autografa di Francesco Giuseppe che ribadiva l’urgenza di non lasciare impunito «quel focolaio di agitazione criminale che è Belgrado» e di eliminare la Serbia in quanto fattore di instabilità nei Balcani. Il Kaiser si dichiarò d’accordo con l’Imperatore, anche se rimarcò che un’iniziativa di Vienna avrebbe avuto «complicazioni europee», e aggiunse che la Russia, di fronte a un’Austria spalleggiata dalla Germania, non si sarebbe mossa. Il risultato di questa missione fu il famoso «assegno in bianco» che il 5 luglio Guglielmo II rilasciò al suo fedele alleato viennese.
I podcast de “La Civiltà Cattolica” | LA VIOLENZA CONTRO LE DONNE
Da parecchio tempo, le cronache italiane sono colme di delitti perpetrati contro le donne. Il fenomeno riguarda tutte le età e condizioni sociali, tanto da sembrare endemico nella nostra società. A questo tema è dedicato un episodio monografico di Ipertesti Focus, il podcast de «La Civiltà Cattolica».
Sulla portata di questa delega si è molto discusso tra gli storici e tuttora le linee di lettura divergono. Secondo alcuni, a Berlino ebbero la meglio le forze che intendevano sfruttare l’attentato di Sarajevo per infliggere un colpo mortale alle potenze dell’Intesa. Colpire Belgrado per essi significava provocare una guerra europea. Ciò a motivo degli obblighi derivanti dagli accordi precedentemente assunti dalle potenze e dal contenuto del cosiddetto «piano Schlieffen-Moltke», che prevedeva la violazione della neutralità del Belgio e del Lussemburgo. Questo avrebbe provocato l’entrata in guerra dell’Inghilterra a fianco della Francia. Altri autori rigettano tale tesi, affermando che il conflitto in origine avrebbe dovuto riguardare soltanto l’Impero austro-ungarico e la Serbia, e che soltanto in un secondo momento, quando cioè tale idea si rivelò del tutto illusoria, i falchi riuscirono a trasformare la guerra da regionale in mondiale. Ora, considerando il contenuto della missione Hoyos a Berlino, sembra che, almeno all’inizio, la prospettiva del Kaiser fosse questa: utilizzare l’influenza della Germania per intimorire e bloccare la Russia. Di fatto però la situazione, nel giro di pochi giorni, andò precipitando e nessuno si attivò perché non si arrivasse alla guerra generale.
L’assicurazione tedesca, di cui si è detto, in realtà era un test sulla disponibilità dei russi a farsi coinvolgere in un conflitto europeo. Ora, mentre Vienna pensava semplicemente in termini regionali, e in particolare a regolare i suoi conti con la Serbia, la Germania ragionava in un’ottica più strategica e globale, considerando già la possibilità (se la questione non fosse andata come previsto) di uno scontro tra due blocchi politico-militari, cioè tra la Triplice e i Paesi dell’Intesa, Inghilterra compresa. Insomma, l’obiettivo principale tedesco era far saltare l’Intesa franco-russa, senza escludere però la possibilità di uno scontro armato più esteso. Tale era la cosiddetta «strategia del rischio calcolato» perseguita, con qualche ambiguità, dal cancelliere del Reich von Bethmann Hollweg.
Ciò che sorprende ancora oggi gli storici è che una decisione così grave e impegnativa come quella assunta il 5 e 6 luglio dal Kaiser non sia stata condivisa in un consiglio della Corona, come, per fatti meno gravi, era avvenuto in altre circostanze, e che non abbia in qualche modo coinvolto nella decisione i responsabili della società civile o altri settori dello Stato. Ciò evidenzia il carattere autocratico del sistema guglielmino: nei Paesi democratici come l’Inghilterra, il Governo, prima di lanciarsi nell’avventura bellica, dovette a fatica conquistare il Parlamento e l’opinione pubblica alle ragioni della guerra[19].
Mentre la macchina della guerra muoveva i suoi primi passi, a Berlino si ostentava sicurezza e calma: il Kaiser partì per la sua crociera nel Nord e gran parte dei militari andò in ferie[20]. Tale modo di agire convinse la maggior parte dei tedeschi che la faccenda si sarebbe sistemata diplomaticamente, come era avvenuto in passato, e a tutto vantaggio del Reich. Il cancelliere tedesco intanto, alquanto preoccupato dallo sviluppo della situazione, cercò in tutti i modi di convincere Vienna a intraprendere un’azione militare immediata contro Belgrado, in modo da mettere l’altra parte davanti al fatto compiuto, lasciando poi — suggeriva — alla diplomazia il compito di sistemare ogni cosa in un tavolo negoziale. Tali suggerimenti non furono però seguiti da Vienna, che, al contrario, intendeva legalizzare il conflitto, attraverso le procedure diplomatiche previste in questo caso: ultimatum, rottura delle relazioni diplomatiche, dichiarazione di guerra, inizio delle operazioni militari.
Di fatto così avvenne. In seguito alla proposta tedesca di localizzare il conflitto, la Russia fece sapere che non poteva tollerare l’aggressione della Serbia da parte dell’Austria-Ungheria. «La politica russa — disse il ministro degli Esteri — è pacifica, ma non passiva». Il Governo tedesco era incerto se tali affermazioni, rese in ambiente diplomatico, fossero da prendere sul serio o se fossero un semplice bluff. In ogni caso, il cancelliere del Reich fece in modo che la responsabilità della trasformazione di un conflitto da regionale in generale ricadesse sulla Russia. Ciò gli serviva anche per guadagnare alla causa della guerra i socialdemocratici (che avevano ottenuto la maggioranza nelle ultime elezioni politiche), i sindacati e la società civile. Resistere all’attacco russo era considerato un dovere nazionale e patriottico condiviso da tutti[21].
Il 23 luglio Vienna consegnò l’ultimatum al Governo di Belgrado: esso fu criticato nell’ambiente della diplomazia internazionale per il suo contenuto molto duro e per i tempi eccessivamente ristretti per formulare una esauriente risposta. Questo era anche il parere del ministro degli Esteri inglese Edward Grey, il quale commentò che nessun Paese avrebbe potuto accettare un ultimatum di questo tipo senza mettere a rischio la propria sovranità, e parlò del pericolo di una guerra europea (che per il momento escludeva l’Inghilterra). La risposta del Governo serbo, il 25 luglio, all’ultimatum austriaco fu ampiamente «remissiva»: si accettavano tutte le condizioni richieste, tranne le pretese di Vienna di intervenire nell’inchiesta sull’attentato e di porre sotto tutela alcuni importanti atti di politica interna (per lo più concernenti i diritti dei cittadini), che umiliavano la giurisdizione e l’autonomia di uno Stato sovrano. Mentre in un primo tempo si pensò che la situazione si stesse appianando, di colpo questa divenne più difficile quando fu divulgata la notizia che lo Zar aveva autorizzato la mobilitazione parziale del suo esercito.
Si è spesso sostenuto che le grandi potenze europee fossero convinte di doversi impegnare in una guerra per lo più locale e di breve durata. In realtà, persino alcuni protagonisti o responsabili del conflitto, come von Moltke, erano di avviso contrario. Egli infatti aveva messo in conto una guerra lunga e generale dall’esito quanto mai incerto; era consapevole di andare incontro a una guerra mondiale, in cui — scrisse in una lettera confidenziale — «la cultura dell’intera Europa sarà distrutta per decenni». In ogni caso, nel luglio del 1914, dopo la pre-mobilitazione della Russia, egli riteneva di non avere altra scelta che quella del «salto nel buio»[22]. Lo stato maggiore tedesco era ben deciso a non mobilitare l’esercito prima della Russia. Per questo il cancelliere del Reich rifiutò di proclamare subito «lo stato di pericolo nazionale», insistentemente richiesto dal partito dei falchi, procrastinando la decisione fino alla fine.
Come si sperava a Berlino, furono i russi i primi a dichiarare ufficialmente la mobilitazione generale la mattina del 31 luglio, anche se ciò non equivaleva ancora ad una dichiarazione di guerra. Von Bethmann Hollweg telegrafò a Vienna affermando di aver già dichiarato «lo stato di pericolo di guerra», che il Governo tedesco avrebbe ordinato la mobilitazione al più presto e chiedeva all’alleato una partecipazione attiva e immediata nella guerra contro la Russia. La Francia, alleata storica dello Zar, dichiarò di non poter rimanere neutrale e, in caso di guerra, di volersi schierare a fianco della Russia, ma per il momento evitò ogni iniziativa ostile contro lo Germania. L’Italia, a quel tempo alleata di Austria e Germania, assunse un atteggiamento defilato nella crisi diplomatica del luglio 1914 e dichiarò la propria neutralità riguardo al conflitto: essa fu spinta a tale decisione dai rapporti piuttosto tesi con l’Impero austro-ungarico; quest’ultimo infatti non accettava le «compensazioni territoriali» chieste da Roma in caso di vittoria, come anche una maggiore penetrazione italiana nei Balcani. Tali contrasti fecero sì che l’Italia entrasse in guerra a fianco delle potenze dell’Intesa nel maggio del 1915[23].
La macchina da guerra, una volta messa in moto, procedette secondo i piani previsti: il governo di Berlino, per via diplomatica, propose a quello belga un’amichevole neutralità se esso avesse consentito il passaggio sul suo territorio «a forze militari dirette alla frontiera francese, minacciando in caso contrario di trattare il Belgio come un Paese ostile»[24]. Questi rispose con un netto rifiuto, affermando che «la violazione della sua neutralità era un’offesa al diritto delle genti», e che avrebbe respinto l’aggressione con tutti i mezzi possibili. Nel pomeriggio del 3 agosto la Germania dichiarò guerra alla Francia e alle prime ore del 4 agosto le truppe tedesche entrarono in Belgio, assediando la città di Liegi. Si dava esecuzione al cosiddetto «piano Schlieffen-Moltke»: in questo modo la guerra, da regionale, divenne presto europea e mondiale. Come prevedibile, l’Inghilterra, nonostante la Germania avesse cercato fino alla fine di tenerla fuori dal conflitto, entrò in guerra a fianco della Francia in difesa della neutralità violata del Belgio e del Lussemburgo, precisando anche, come aveva comunicato in precedenza, che non avrebbe permesso l’esistenza di una sola potenza egemone (cioè quella tedesca) nel continente.
Ciò che sorprende è come le poche settimane che passarono dall’attentato di Sarajevo allo scoppio della guerra non siano state sfruttate dalle potenze europee coinvolte per cercare di evitarla, come a volte si era fatto in passato; o meglio, nei comunicati ufficiali si diceva di volerla «contenere» o «localizzare» in modo da dare soddisfazione all’Austria-Ungheria, ma nei fatti non si fece nulla perché ciò avvenisse, mentre le grandi potenze, ciascuna a suo modo, si preparavano a una guerra dalla quale speravano di ottenere più prestigio, più potere, più influenza in Europa.
Da quanto si è detto, risulta che la concatenazione dei fatti, così come si sono svolti e che possono essere diversamente interpretati (come si è fatto in sede storica), pone in ogni caso il problema storico e morale delle «responsabilità» in merito allo scoppio della grande guerra, responsabilità che vanno opportunamente ripartite tra i maggiori protagonisti della vicenda. Insomma, gli imputati coinvolti in essa furono sostanzialmente tre: 1) l’Austria-Ungheria, che iniziò le ostilità contro la Serbia il 28 luglio, affermando di voler condurre una guerra locale, cioè semplicemente punitiva e riparatrice; 2) la Russia, che proclamò prima una mobilitazione parziale e poi una generale contro l’Austria, affermando, però, che ciò non segnava l’inizio delle ostilità; 3) la Germania, che mobilitò il suo esercito in risposta alla mobilitazione russa, iniziando effettivamente le ostilità sul fronte occidentale con l’invasione del Belgio e del Lussemburgo.
«Dietro a questa sequenza cronologica — scrive giustamente Rusconi — ci sono tre situazioni diverse che consentono ai commentatori di distribuire o di dosare diversamente “la colpa”: gli austriaci attaccarono materialmente per primi la Serbia; i russi con la loro tempestiva mobilitazione parziale minacciarono l’Austria sul fronte galiziano, e quindi la Germania con la mobilitazione generale; infine i tedeschi con la loro mobilitazione danno effettivamente inizio alla guerra europea generale»[25], trascinando nel conflitto, non certamente in modo imprevisto, la Francia e l’Inghilterra. Va però ricordato che molti studiosi ritengono che la guerra sarebbe scoppiata in ogni caso, e che esistevano le premesse di ordine politico, economico e militare perché ciò accadesse. Sono questi, come si è detto, i sostenitori della cosiddetta «guerra inevitabile»: assurda e per molti versi incomprensibile, aggiungono, ma inevitabile.
A nostro avviso, non esistono guerre inevitabili; dietro ogni iniziativa bellica ci sono motivazioni precise e interessi specifici che si intendono raggiungere, e quindi singole responsabilità, che devono essere accertate e anche denunciate in sede storica. Per quanto riguarda la grande guerra, le potenze coinvolte fin dall’inizio non fecero il possibile per evitarla o «localizzarla» (questo di fatto era il principale compito della diplomazia), anzi la considerarono, pur prevedendone i rischi — compresa l’immane carneficina che ne sarebbe derivata — come una necessaria prova di forza, nella competizione per la «conquista del potere mondiale».
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[1]. S. Freud, Considerazioni attuali sulla guerra e la morte (1915),Torino, Bollati Boringhieri, 1976, 123, 126.
[2]. Cfr M. MacMillan, 1914. Come la luce si spense sul mondo di ieri, Milano, Rizzoli, 2013, 58.
[3]. Cfr N. Ferguson, Il grido dei morti. La prima guerra mondiale: il più atroce conflitto di ogni tempo,Milano, Mondadori, 2014, 21 s.
[4]. Cfr N. Tranfaglia, «La prima guerra mondiale e il fascismo», in Storia dell’Italia contemporanea, Torino, Utet, 1995, 7.
[5]. Tale posizione è oggi riproposta da M. Hastings, Catastrophe: Europe goes to war 1914, London,William Collins, 2013.
[6] . Ivi, 9.
[7] . È questo il titolo di un fortunato libro di F. Fischer, Assalto al potere mondiale. La Germania nella guerra 1914-1918,Torino, Einaudi, 1965.
[8] . A. Gibelli (ed.), La prima guerra mondiale,vol. II, Torino, Einaudi, 2007, 18.
[9] . Cfr E. Gentile, Due colpi di pistola, dieci milioni di morti, la fine di un mondo,Roma – Bari, Laterza, 2014, XI.
[10]. J. Keegan, La prima guerra mondiale. Una storia politico-militare, Roma, Carocci, 2004, 11.
[11]. Cfr Ch. Clark, I sonnambuli. Come l’Europa arrivò alla grande guerra, Roma – Bari, Laterza, 2014.
[12]. G. E. Rusconi, 1914: attacco a Occidente,Bologna, il Mulino, 2014, 13.
[13]. Ivi, 56-58.
[14]. V. R. Berghahn, Sarajevo, 28 giugno 1914. Il tramonto della vecchia Europa, Bologna, il Mulino, 1999, 92.
[15]. Ivi, 93.
[16]. Cfr V. R. Berghahn, Sarajevo, 28 giugno 1914. Il tramonto della vecchia Europa, cit., 70.
[17]. M. Geyer, Deutsche Rüstungspolitik 1860-1980, Berlin, 1984, 146.
[18]. V. R. Berghahn, Sarajevo, 28 giugno 1914. Il tramonto della vecchia Europa, cit., 71.
[19]. Cfr N. Ferguson, Il grido dei morti. La prima guerra mondiale: il più atroce conflitto di ogni tempo,cit., 178 s; M. MacMillan, 1914. Come la luce si spense sul mondo di ieri, cit., 76 s.
[20]. Cfr N. Stone, La prima guerra mondiale. Una breve storia,Milano, Feltrinelli, 2014, 31.
[21]. Cfr G. E. Rusconi, 1914: attacco a Occidente,cit., 32-35.
[22]. S. Forster, «Der deutsche Generalstab und die Illusion des kurzen Krieges, 1871-1914. Metakritik eines Mythos», in Militärgeschichtliche Mitteilungen, 54 (1995) 61.
[23]. Cfr N. Tranfaglia, «La prima guerra mondiale e il fascismo», in Storia dell’Italia contemporanea,cit., 9 s.
[24]. «Cronaca Contemporanea», in Civ. Catt. 1914 III 499.
[25]. G. E. Rusconi, 1914: attacco a Occidente,cit., 52.