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Quando parliamo di «attività missionaria»[1], intendiamo, secondo le parole di Paolo VI, una «attività internazionale concepita e praticamente organizzata per evangelizzare i Popoli non ancora cristiani, mediante l’opera di persone a ciò dedicate, scelte, preparate e autorevolmente mandate, cioè qualificate come “missionarie”, le quali, sul sentiero degli Apostoli, predicano la parola di verità e generano le nuove Chiese»[2]. La missione della Chiesa, così intesa, ha origine nella cerchia intima di Gesù, da cui partono gli apostoli cominciando da Gerusalemme (cfr At 1,8). Essa prosegue nella vasta diffusione del Vangelo nelle terre conosciute e sconosciute lungo la storia della Chiesa. Gli storici ne hanno offerto monografie sempre più ricche[3]. Il nostro intento non è questo, ma di comprendere l’azione missionaria della Chiesa a partire dalla Scrittura e grazie all’impresa storica degli annunciatori del Vangelo. Per fare questo, svilupperemo i due temi indicati nel sottotitolo: il fondamento teologico dell’attività missionaria e i princìpi metodologici che tale fondamento comporta.
Il fondamento teologico dell’attività missionaria
Per un gran numero di cristiani, l’azione della Chiesa ha origine nel mandato missionario di Gesù, il Maestro risorto, che invia i discepoli: «Gesù si avvicinò e disse loro: “A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutte le etnie, battezzandole nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine del mondo» (Mt 28,18-20).
Qui non occorre fare l’esegesi di questa pericope; importa piuttosto cogliere la dinamica del Vangelo di Matteo, da cui il passo proviene, in relazione al nostro tema. Un certo numero di citazioni scritturistiche e di eventi narrati potrebbe fondare l’azione missionaria della Chiesa. Il racconto degli Atti degli Apostoli ne sarebbe una perfetta documentazione. Il mandato missionario ci sembra offrire un fondamento teologico più diretto, in quanto inserisce il movimento degli annunciatori del Vangelo in quello originario del Figlio di Dio.
Una prima interpretazione del mandato missionario comprenderebbe, sotto le parole «tutte le etnie», tutte le nazioni, eccetto Israele, che era invece designato come primo destinatario del Vangelo: «Le pecore perdute della casa di Israele» (Mt 10,6; 15,24). L’espressione è passata poi a indicare tutti i popoli che non conoscevano ancora Gesù Cristo. Si annunciava loro la Buona Notizia e, se lo desideravano, essi erano battezzati nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo (v. 19). Certamente questa prima interpretazione ha consentito alla Chiesa di corrispondere alla volontà del Signore, ma la pericope ci invita a un’analisi più aperta.
Una seconda interpretazione del testo di Matteo offre aperture per svolgere meglio il compito che incombe sul nostro tempo. Secondo le parole di Gesù risorto, la missione affidata ai discepoli consiste in:
a) «Fare discepoli…». Nel Vangelo di Matteo i discepoli hanno uno statuto speciale vicino a Gesù (cfr Mt 5,1 e 10,2, dove sono chiamati «apostoli»). Gesù fin dall’inizio del suo ministero, nel battesimo di Giovanni, è presentato, secondo la dichiarazione fatta dalla voce del Padre celeste, come «il Figlio mio, l’amato» (Mt 3,17). Quando Gesù si siede sulla montagna e assume il ruolo di Maestro, circondato dai discepoli, trasmette loro l’arte di diventare figli di Dio: insegna loro a entrare nella filiazione divina vivendo all’altezza del nome «Abba»[4]. Ciò che il Risorto ordina con le parole «fate discepoli» significa in definitiva far entrare nella filiazione divina. La logica a monte del mandato missionario implica dunque che la trasmissione del messaggio evangelico si effettui come per osmosi, comunicando il carattere filiale. Con termini del nostro tempo, potremmo dire che il codice genetico della filiazione divina si trasmette con la generazione, testimoniata dall’atto di nascita (il battesimo) di nuovi discepoli di Cristo.
b) «… tutte le etnie». Il mandato di Cristo ci raggiunge nel nostro vocabolario quotidiano, nelle parole che modellano le nostre relazioni, le nostre azioni e reazioni, la nostra visione del mondo. «Le etnie» appaiono così come il destinatario del messaggio. Sono esse che devono diventare discepoli. Questo termine può rappresentare la comunità che assume determinazioni specifiche dalla lingua, da usi e costumi, dal rapporto con la terra degli antenati ecc. Questa comunità dovrà essere immersa (baptizein) nella dinamica di un’altra comunità, quella divina del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. È dunque necessaria una metamorfosi per ogni popolo che entra in tale cerchia divina, dove l’amore governa lo scambio degli idiomi, di tutto ciò che è proprio, in quanto fondamento dell’identità e della diversità. Nello spirito del mandato missionario, la conversione non è anzitutto individuale, ma comunitaria. È condurre ogni comunità umana a Cristo, per introdurla nella cerchia trinitaria, perché vi apprenda la lingua del Padre al Figlio nello Spirito. Il popolo, immerso e mantenuto in questo «ambito divino», diventa «cristico», come per osmosi.
Tuttavia l’ethnos non si esaurisce in questa dimensione collettiva, ma include anche l’aspetto personale della risposta all’invito a essere discepoli di Cristo. Per gli africani l’«io» è sempre già una relazione[5]. L’ethnos non è dunque fuori della persona che aderisce a Cristo, ma è il carattere del soggetto umano plasmato dalla matrice della sua cultura, nel senso inteso dal Vaticano II: «Con il termine generico di “cultura” si vogliono indicare tutti quei mezzi con i quali l’uomo affina e sviluppa le molteplici capacità della sua anima e del suo corpo; procura di ridurre in suo potere il cosmo stesso con la conoscenza e il lavoro; rende più umana la vita sociale, sia nella famiglia sia in tutta la società civile, mediante il progresso del costume e delle istituzioni; infine, con l’andar del tempo, esprime, comunica e conserva nelle sue opere le grandi esperienze e aspirazioni spirituali, affinché possano servire al progresso di molti, anzi di tutto il genere umano»[6].
La vera conversione avviene dunque soltanto con la trasformazione di questo carattere che, assunto nell’essere-Figlio proprio di Cristo, diventa il segno distintivo e il tratto di riconoscimento dei figli di Dio.
Qual è in definitiva il fondamento dell’attività missionaria della Chiesa? Si può dire che è l’azione del Figlio unigenito di Dio: egli è partito dal seno del Padre (cfr Gv 1), ha assunto la condizione umana in un popolo particolare e ci ha amato fino alla fine (cfr Gv 13,1), affinché noi diventiamo figli di Dio e la vita di Dio circoli in noi (cfr Gv 10,10). Ciò che vogliamo trasmettere è proprio questo amore, che è vita di Dio e che Gesù ci ha insegnato. Questa è anche la prospettiva di Giovanni: «Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi» (Gv 20,21). Come trasmettere questo amore e questa vita divina? Come dire al mondo che Dio lo ha tanto amato da inviare il suo Figlio unigenito affinché «chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna» (Gv 3,16)?
Sviluppare metodi di evangelizzazione
In realtà, ciò che l’evangelizzazione cerca di trasmettere è l’esperienza trasformante dell’incontro con Gesù Cristo, grazie al quale si comunica la vita divina e così si estende il Regno di Dio. La preoccupazione del metodo ha il suo punto di partenza nel destinatario del Vangelo. Paolo VI ricordava: «Evangelizzare, per la Chiesa, è portare la Buona Novella in tutti gli strati dell’umanità, è, col suo influsso, trasformare dal di dentro, rendere nuova l’umanità stessa: “Ecco io faccio nuove tutte le cose”. Ma non c’è nuova umanità, se prima non ci sono uomini nuovi, della novità del battesimo e della vita secondo il Vangelo»[7].
L’umanità che si deve rigenerare con il Vangelo non è intesa soltanto in senso collettivo, ma anche e soprattutto in senso personale. Le conversioni sociologiche o collettive non consentono l’accesso al «Credo», all’«io» che proclama e vive la sua fede (cfr Rm 10,9). Da qui l’importanza di rinnovare l’umanità in ogni persona che aderisce a Cristo. Si deve toccare il «noi» che è presente in ogni soggetto. L’accesso alle dimensioni di questa umanità in cerca di redenzione non è dato in precedenza. Perciò il nostro tempo ci invita alla creatività e sollecita in modo particolare la nostra capacità di immaginazione.
Quali che siano il metodo o l’approccio che il nostro tempo ci suggerisce, i luoghi in cui viviamo e le persone che pratichiamo, il punto di partenza rimane l’incontro con l’annunciatore del «messaggio»: messaggio nel senso di codice genetico dell’«essere in Cristo» e di colui o colei la cui vita dev’essere informata e trasformata dal messaggio stesso. La trasformazione avviene secondo modalità e canali complessi. Perché essa si compia è necessario un catalizzatore che introduca una dinamica di metamorfosi. Questo catalizzatore, a nostro avviso, è il mistero pasquale della vita, morte e risurrezione di Cristo, il solo in grado di raggiungere l’umanità nel suo dinamismo più profondo, al di là dello spazio, del tempo e dei popoli.
Qui non ci proponiamo di offrire ricette, ma di indicare princìpi metodologici in grado di guidare la nostra cooperazione con lo Spirito, che ci precede sempre nel cuore degli uomini che sono in cerca della verità, della vita e della via che soltanto Cristo propone (cfr Gv 14,6). I grandi temi qui affrontati sono il linguaggio, gli spazi e i simboli.
Il linguaggio
Trovare un linguaggio pertinente appare una necessità metodologica per la missione del nostro tempo. Si rileva infatti una discordanza fra il nostro linguaggio tradizionale e il modo di esprimersi dei nostri contemporanei. Siamo allora invitati ad affinare la nostra sensibilità culturale per valorizzare le diverse tonalità dell’affresco umano, che servono come humus per il messaggio evangelico. Le loro espressioni nello spazio richiedono un approccio sincronico, mentre le loro variazioni nel tempo sollecitano un approccio diacronico. La Chiesa ne ha avuto sempre cura, esercitando fortemente il suo dono di discernimento a favore di tutta l’umanità, come Paolo VI aveva dichiarato al filosofo francese Jean Guitton: «La Chiesa ha sempre vagliato e conservato ciò che è valido. Della romanità e dell’ellenismo, rifiutando l’idolatria e il portato disumano, ha conservato i valori culturali e la classicità. Del feudalesimo, privato della violenza e della barbarie, ha mantenuto le potenzialità positive dell’uomo medioevale. Avendo depurato il Rinascimento dell’umanesimo pagano, ne ha preservato la bellezza artistica»[8].
Si impone allora il compito di discernere i valori della cultura attuale, e di tradurre l’eredità secolare della nostra fede e della nostra esperienza di Gesù Cristo, in modo da renderla accessibile ai nostri contemporanei. In questo, la mondializzazione o globalizzazione è una sfida, da prendere in considerazione per riuscire a presentare il messaggio evangelico in modo comprensibile e pertinente. Tuttavia il linguaggio della cultura dominante non è universale. Perciò bisogna anche cercare di comprendere il linguaggio della grande massa dei poveri e dei piccoli (cfr Mt 5; 25).
Occorre allora conservare allo spirito il dovere di fecondare la cultura per plasmare quello che abbiamo chiamato l’ethnos. L’inculturazione conserva la sua importanza ed è invitata a scendere in profondità, fino agli archetipi che strutturano l’inconscio di ogni comunità umana. La persona è evangelizzata solo quando la parola di Dio, «viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio, penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, fino alle giunture e alle midolla, e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore» (Eb 4,12). Per ottenere questo, dobbiamo proseguire lo studio delle società africane di ieri e di oggi. L’archeologia dell’umanità dell’africano, sul piano antropologico e sociologico, si impone. Infatti il linguaggio dell’ethnos è più profondo della lingua che serve come strumento di comunicazione.
Gli spazi
Se l’interiorità è fondamentale e primaria nella categoria del linguaggio, l’esteriorità è un mezzo e una via di accesso da esplorare sempre meglio. Oggi, come ieri, l’umanità ha bisogno di accompagnamento. È alla ricerca di un essere autentico. Lo manifestano le molteplici crisi che viviamo. Come il Risorto è presente nel cammino sconsolato dei discepoli di Emmaus (cfr Lc 24), anche noi dobbiamo raggiungere gli spazi dove i nostri contemporanei fanno l’esperienza del limite umano. Essi sono, fra gli altri, l’economia, la politica, la giustizia, l’educazione, la produzione, in vista della diffusione del Regno di Dio[9].
Gli spazi di incontro nel nostro tempo sono in declino. Il mondo virtuale creato dalle tecnologie della comunicazione e dell’informazione avvicina gli esseri umani. La Chiesa, in quanto cattolica, cioè animata da una prospettiva di totalità, potrebbe offrire il suo «essere esperta in umanità», spirando il suo soffio spirituale. Essa infatti possiede un principio integratore che supera le differenze di lingua, di origine, di appartenenza sociale e così via, e che le consente di collegare l’uomo con il Trascendente[10]. Tale dimensione è evidente nello spazio africano, perché Dio vi è presente come orizzonte dell’africano.
Lo spazio africano del religioso può sembrare sotto certi aspetti troppo ingombro, ma paradossalmente è insaziabile. Vi manca infatti un ponte fra l’umano e il divino. Questo mondo ha bisogno proprio di Gesù Cristo, nella sua umanità aperta alla sua divinità. Noi dobbiamo dunque riconoscere quegli elementi che fanno da ponte con la Trascendenza, i simboli.
L’universo simbolico: dal livello delle parole a quello dei simboli
Lo sforzo di evangelizzazione consiste nel parlare la lingua del popolo, nell’annunciare il Vangelo in modo che ciascuno lo comprenda e lo celebri nella sua lingua materna (cfr At 2). Questa è l’esigenza di una coscienza limpida. Essa fa uscire da sé la persona che riceve il Vangelo e la inserisce nel mondo. Tale compito merita di essere portato a un altro livello, quello dei simboli in immagini e suoni. La promozione dell’esigenza del «bello» apre la possibilità di un’adesione integrale del soggetto dell’incontro. Tale adesione si compie infatti senza la censura dovuta alle barriere della cultura originaria. Il bello che emana dall’opera d’arte comunica direttamente con la nostra interiorità, con il nostro inconscio. Dinanzi al bello, si allenta la presa, e quello che c’è di più intimo in noi entra in comunicazione con ciò che fa vivere l’uomo: Dio reso manifesto in Gesù Cristo.
Ci sembra allora che il compito più importante, ma anche il più complesso, dal punto di vista di un metodo di trasmissione della fede, consista nel condurre la nostra umanità a Dio attraverso il bello. Si tratterà in concreto di sviluppare un cammino artistico che tragga le risorse di ispirazione e di motivazione dal patrimonio cristiano, senza un intento a priori cristiano. Come Chiesa, abbiamo incoraggiato e sostenuto le persone di talento nella nostra comunità di fede, perché mettano le loro doti al servizio del Vangelo. Di fatto, esse hanno usato la loro capacità artistica per produrre opere di tematiche cristiane. Ci sono così sculture, quadri, composizioni musicali, monumenti cristiani. Questo cammino, ci sembra, rimane nello spazio dell’autocontrollo, della coscienza, del pensiero; infatti sollecita la dimensione superiore della nostra umanità. Ora sarebbe opportuno passare al livello più profondo di un’espressione del sublime di fronte alla quale si risveglia l’anima meravigliata. Così non si creerebbe immediatamente una relazione con l’oggetto del messaggio, sia pure il mistero pasquale nella sua espressione verbale, ma con Colui che vi è presente, Gesù Cristo.
Questa proposta può sembrare paradossale. In realtà, per la sua capacità di sollevare la persona umana trasportandola al di là di se stessa, il bello riesce a legare le profondità dell’essere umano con la sua ultima verità, con la sua ultima ragione di esistere. Lo splendore di questa umanità trascendente, rischiarato dalla persona di Gesù Cristo, esercita un’influenza redentrice più forte, più profonda e di più lunga durata che la sollecitazione delle parole. Il mondo ha sete di Gesù Cristo, e lo manifesta con un grido silenzioso. Il dramma del rifiuto di una vita secondo il Vangelo, in atti e non in parole, nei fatti e non in teoria, è dovuto alla debolezza del nostro modello che non è virtuoso. Il nostro annuncio della Buona Notizia rimane nell’ordine della tecnica e deve progredire verso l’ars vivendi. Si tratta, in ultima analisi, dell’ars vitae. Tutte le forme di arte sono modelli e quindi indici dell’ars vivendi.
La convinzione su cui si fonda la nostra proposta di un cammino di evangelizzazione si informa sulla storia dell’umanità nel suo rapporto con le opere d’arte. Da qualunque parte venga e quale che sia, un’opera sublime è paragonabile sul piano umano a ciò che sono i santi e le sante sul piano spirituale: ogni opera sublime appartiene al patrimonio comune dell’umanità[11].
Conclusione
In questo articolo abbiamo sviluppato due idee:
- l’azione missionaria ha origine non dalla parola che invia i discepoli a tutte le nazioni (cfr Mt 28,18-20), ma dall’atto che un tale mandato missionario suppone: l’introduzione dell’ethnos, cioè del carattere culturale che ha plasmato la nostra umanità, nella dinamica interna della Famiglia divina per mezzo della filiazione in Gesù Cristo. Il battesimo è l’espressione di tale inserzione nell’«ambito divino», resa possibile dall’inserzione di Gesù nell’ethnos di Israele.
- L’accesso dell’umanità a questa dimensione di trascendenza passa per l’apertura della nostra interiorità alla presenza di Gesù Cristo, attraverso espressioni simboliche in cui si manifesta il bello. Questo bello attesta che le verità del Vangelo sono le dimore della nostra anima. Dinanzi alle opere di uno spirito modellato dalla Buona Notizia l’adesione è totale. Per giungervi, l’evangelizzazione deve trovare il linguaggio che è compreso dal nostro tempo e che è presente negli spazi di pene, di gioie e di speranze.
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[1]* Il testo riproduce la relazione tenuta all’Incontro «Paolo VI e l’Africa» (Nairobi, 1°-2 agosto 2012).
In questo articolo non facciamo molta distinzione tra evangelizzazione e missione, come vorrebbero alcuni teologi. Cfr D. J. Bosch, Dynamique de la mission chrétienne. Histoire et avenir des modèles missionnaires, Lomé – Paris – Genève, Haho – Karthala – Labor et Fides, 1995.
[2] Paolo VI, «Messaggio per la Giornata Missionaria Mondiale 1969», in Id., Insegnamenti VII (1969) 311-314.
[3] Cfr J. Baur, 2000 ans de christianisme en Afrique. Une histoire de l’Église africaine, Paris, Librairie Saint Paul, 2001.
[4] Cfr i passi nei quali Gesù parla di Dio: (vostro Padre) Mt 5,16.45.48; 6,1.8.14.15.26.32; 7,11; 10,20.29; (tuo Padre) 6,4.6.18; (nostro Padre) 6,9; (mio Padre) 7,21; 10,32.33; 11,25.27.
[5] Cfr S.-P. BOKA di Mpasi Londi, «A Theology for African Churches», in W. Jenkinson – H. O’Sullivan (eds), Trends in Mission. Toward the 3nd Millenium, Maryknoll (NY), Orbis Books, 1991, 53.
[6] Concilio Vaticano II, Costituzione pastorale Gaudium et spes, n. 53, § 2.
[7] Paolo VI, Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi (8 dicembre 1975), n. 18; corsivo nostro.
[8] J. Guitton, Dialoghi con Paolo VI, Milano, Rusconi, 1986, 221.
[9] Cfr D. Bosch, Dynamique de la mission chrétienne, cit., 22: «Senza dubbio c’è una continuità fra il regno di Dio, la missione della Chiesa, e la giustizia, la pace e l’integrità della società».
[10] Cfr J.-D. DURAND, «De l’ONU à l’OIT: L’Église et la societé civile dans les voyages apostoliques de Paul VI», in R. ROSSI (ed.), I viaggi apostolici di Paolo VI, Brescia, Istituto Paolo VI, 2004, 216 s.
[11] La distruzione delle tombe dei santi musulmani nel nord del Mali ha suscitato la reazione di tante nazioni del mondo, perché tutto ciò che è bello eleva tutta l’umanità. Queste tombe sono simbolo della vita bella, della vita esemplare che conserva la memoria di quelle comunità credenti.