
L'11 febbraio 1963 Sylvia Plath mette a letto i suoi due bambini, spalanca le finestre ed esce, chiudendo e sigillando la porta. Poi scende in cucina, apre il gas e si sdraia con il capo nel forno, appoggiando la guancia sopra un tovagliolo ripiegato. Così, a 30 anni, si chiude l'esperienza umana e artistica di una delle poetesse più importanti degli Stati Uniti, per alcuni vera e propria figura di culto. L'occasione per una rilettura della sua opera, a 40 anni dalla morte, ci è data da una rinnovata forte attenzione, anche nel nostro Paese, per la sua vita e le sue composizioni: dopo la pubblicazione di un corposo «Meridiano» Mondadori, che raccoglie la sua produzione ln versi e in prosa e una selezione dei suoi Diari[1], sono apparse di recente nuove edizioni parziali delle sue opere e tre biografie[2]. È in uscita anche in Italia il film biografico Sylvia, diretto da Christine Jeffs, nel quale la poetessa è interpretata dall'attrice Gwyneth Paltrow, distribuito negli Stati Uniti un anno fa.
La poesia della Plath stabilisce un contatto diretto tra vita e scrittura, andando al di là del culto della forma propria del cosiddetto «modernismo» letterario e dell'impersonalità delle avanguardie dominanti nella poesia americana degli anni Sessanta. Per questo, la sua, come quella dei suoi amici Robert Lowell e Anne Sexton, viene spesso definita – più o meno propriamente – confessional poetry, poesia confessionale, alla ricerca di una dimensione interiore e quotidiana. L'ispirazione della Plath è proprio aderente a tale ambito espressivo: un bruciante percorso interiore nell'attesa di un motivo per vivere ed essere felice.
«Sono abitata da un grido»
La Plath nasce il 27 ottobre 1932 in un sobborgo di Boston da Otto Plath, tedesco immigrato all'inizio del secolo, professore di Biologia in varie Università, e Aurelia Schober, statunitense di origine austriaca. Il padre, a cui era molto legata, muore quando ella aveva otto anni. La perdita del genitore, figura autorevole da lei insieme detestata e profondamente amata, la segnerà radicalmente come se avesse subito un tradimento, l'esilio forzato in un mondo non più così familiare e sicuro. Nella poesia Daddy del 1962 appare un attacco doloroso alla figura paterna mitizzata, dove il grumo di rancore viene espulso in termini come orrida statua, uomo-panzer, uomo nero che / azzannò e squarciò in due il mio cuore rosso. La madre, forse pensando di risparmiare ad essi dolore, impedisce ai figli
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