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Il card. Roberto Tucci, gesuita, recentemente scomparso (14 aprile 2015), è stato uno degli ultimi testimoni del grande evento conciliare che ha «aggiornato», per usare un vocabolo caro a san Giovanni XXIII, la Chiesa cattolica, proiettandola verso le nuove sfide della modernità. Il Concilio è stato certamente una «nuova Pentecoste», un evento di comunione e di grazia. Ciò che in esso è stato discusso e approvato ha accompagnato il cammino della Chiesa in uno dei momenti più delicati della sua lunga storia.
Negli anni del Concilio il p. Tucci era direttore della Civiltà Cattolica, incarico che ricoprì dal luglio del 1959 fino al 1973. Successivamente fu direttore della Radio Vaticana (1973-85). Nel settembre 1982 gli fu affidata la responsabilità dell’organizzazione dei viaggi pontifici fuori d’Italia. Nel 2001 fu creato cardinale da san Giovanni Paolo II.
Il p. Tucci collaborò nell’attività conciliare non soltanto come referente per i giornalisti di lingua italiana — e a volte anche per gli stranieri — dell’Ufficio Stampa del Concilio, ma anche come perito di nomina pontificia in diverse Commissioni. Egli ebbe un ruolo significativo anche nella redazione di alcuni documenti conciliari, soprattutto quello sull’apostolato dei laici (Apostolicam actuositatem), e nella redazione di alcune parti della Gaudium et spes, in particolare quelle relative alla cultura contemporanea e all’impegno del cristiano nella politica[1].
L’intervista che segue è stata rilasciata dal card. Tucci nel 2007 e fino ad oggi è rimasta inedita.
Eminenza, cominciamo dai suoi ricordi, partendo in particolare dagli avvenimenti che lei ha vissuto in prima persona, fin dalla fase di gestazione del Concilio. Quando ha avuto la prima volta notizia della convocazione di un Concilio per la Chiesa universale?
Non ho saputo della convocazione del Concilio se non quando questa è stata annunciata ufficialmente. In seguito, durante il pontificato di Giovanni XXIII, ho avuto una decina di udienze private con il Papa. Sono stato nominato direttore della Civiltà Cattolica nel luglio del 1959, e Roncalli era già Papa. Non mi disse nulla circa questa sua intenzione, ma, una volta convocato il Concilio, mi conferì, insieme ad altri, l’incarico di perito di nomina pontificia. Se ne parlò, poi, parecchie volte. Per ogni udienza scrissi un piccolo rapporto, cominciando nel 1962. La prima volta che Giovanni XXIII cominciò a parlarmi del Concilio, lo fece in questa circostanza: egli aveva davanti a sé uno dei volumi che contenevano i documenti prodotti dalle Commissioni preparatorie, ed era un po’ deluso. Mi fece capire, innanzitutto, che non era giusto dire che egli aveva approvato quei testi, perché gli erano stati portati quando erano stati già stampati e, inoltre, che con l’invio dei testi ai vescovi non voleva assolutamente mortificare la libertà del Concilio. Fece poi delle critiche specifiche: prese e aprì uno di questi volumi e mi fece vedere che in una pagina c’erano ben 14 condanne. «E allora — disse —, non è questo lo stile del Concilio che io ho pensato».
Qual era, Eminenza, lo stile che il Papa voleva dare al Concilio, secondo quanto ha capito negli incontri che lei ha avuto con il Pontefice?
Diciamo che il Concilio, nonostante tutti i suoi lati deboli, ha realizzato in fondo quello che il Papa disse nel grande discorso dell’11 ottobre 1962, ma anche — per quanto riguarda la Gaudium et spes, la libertà religiosa e il dialogo con le altre religioni — in quello che aveva pronunciato l’11 settembre, in un radiomessaggio trasmesso dalla Radio Vaticana e che era fondato sul duplice concetto relativo alla Chiesa che si riforma ad intra, ma anche ad extra.
Tra i grandi protagonisti del Concilio, lei conobbe in particolare il card. Agostino Bea, gesuita, molto stimato da Giovanni XXIII, che gli affidò la presidenza del Segretariato per l’Unità dei Cristiani, che dopo poco tempo fu equiparato alle Commissioni conciliari. Che cosa ci sa dire sul ruolo che il card. Bea svolse nel Concilio?
Andai da lui qualche giorno dopo che era stato creato cardinale. Ero stato da lui in precedenza, per parlare di un articolo di un padre del Biblico che aveva suscitato una forte reazione, e non solo contro l’Istituto. Questo articolo lodava l’evoluzione che il Biblico aveva avuto nel tempo mostrando la capacità di adattarsi ai tempi nuovi. Andai dal card. Bea per chiedergli che ci fornisse collaboratori capaci di scrivere articoli un po’ innovativi, in modo da aiutare coloro che nelle Commissioni conciliari erano impegnati per il cambiamento in ambito biblico. Egli mi rispose di sì. Aggiunse: «Non ritiro la promessa di darle aiuto». Pubblicò infatti in quel periodo diversi articoli sulla Civiltà Cattolica, sia sul problema biblico e sulla storicità dei Vangeli, sia sull’ecumenismo, e fornì un’ottima collaborazione.
Il card. Bea che cosa pensava del Concilio? Qual era, cioè, l’idea che aveva all’inizio dei lavori? Che cosa doveva essere, secondo lui, il Concilio?
Più che un teologo di grande levatura, il card. Bea era un uomo di vasta cultura, in particolare di profonda cultura biblica. Aveva il senso della storia, che molti a quel tempo non avevano, soprattutto a causa della formazione ricevuta. Si rendeva conto che anche la Chiesa si doveva evolvere, doveva andare avanti. Aveva una concezione abbastanza aperta dello sviluppo dei dogmi, ritenendo che le formulazioni, purché si conservasse la sostanza della verità, andassero «aggiornate». Egli sentiva molto il problema del rapporto con gli ebrei. Inoltre, in quanto di nazionalità tedesca, era molto sensibile al tema della libertà religiosa.
Qual era, a suo parere, il gruppo di vescovi meno aperti alle novità che il Concilio proponeva?
Direi gli spagnoli. E poi gli italiani.
Forse più gli spagnoli che gli italiani?
Più gli spagnoli. Erano troppo franchisti, quindi avevano troppo l’idea del potere forte, della religione di Stato. Tra gli italiani, per lo meno c’erano diverse personalità che si distaccavano da questo cliché. Anche gli spagnoli avevano alcune eccezioni (ma poche), mentre qui da noi in Italia c’erano alcuni vescovi, come ad esempio Montini, Lercaro, Guano, Bartolucci, che avevano idee più avanzate di quelle dei vescovi spagnoli. Tra gli italiani, inoltre, c’erano teologi molto «progressisti», come Pavan (che non era ancora vescovo), Vagaggini, Bugnini, e poi anche storici della Chiesa, come Alberigo. Una volta mons. Parente, ricevendomi per discutere di un certo articolo, aveva sul tavolo il testo di un intervento di Giuseppe Alberigo che dimostrava come fino all’anno Mille si svolgessero abitualmente Concistori del Papa con i cardinali per discutere e decidere insieme sul governo della Chiesa: anche due volte la settimana, in alcune occasioni; e che quindi in passato c’era stata una collegialità, che poi era stata interrotta. E mi fece l’elogio di questo articolo. Mons. Parente fu uno di quelli che durante il Concilio si «convertì» alla tesi della collegialità.
Qual era, Eminenza, la posizione della Curia all’inizio dei lavori conciliari?
I membri della Curia al principio sono stati, diciamo, colti un poco di sorpresa; non se l’aspettavano. Hanno pensato che fosse un colpo di testa del Papa e che bisognasse stare attenti. Il Segretario di Stato allora era Domenico Tardini. Una volta lo avevano fermato in uno dei corridoi del Palazzo Vaticano, ed egli aveva detto: «Lasciatemi andare. Se non vado subito sopra, me ne combina un’altra delle sue!». Lo diceva in tono scherzoso, ma sottintendendo un fondo di verità.
Secondo lei, quale era il rapporto tra la Curia e il Papa circa il Concilio?
La Curia voleva governare, indirizzare il Concilio. Ma Papa Giovanni riusciva, sempre con prudenza e rispettando tutti, a tenere in mano la situazione. Nel febbraio del 1963 cominciava a star male e sapeva di avere qualcosa di grave; ma già prima, verso settembre, durante la prima sessione, era stato male una prima volta. E, non so in quale occasione, disse al suo segretario, mons. Loris Capovilla, di sapere quello che aveva: «Io so che tutti i miei fratelli sono morti di cancro allo stomaco». In effetti, egli aveva un cancro allo stomaco e se ne rendeva conto. Nell’ultima udienza, appunto nel febbraio del 1963, mi disse che praticamente i Padri conciliari avevano capito quello che egli voleva dal Concilio e che aveva espresso soprattutto nel discorso fondamentale Gaudet Mater Ecclesiae, di cui rivendicava la piena paternità: «Farina del mio sacco», disse. Tra il settembre e il dicembre di quell’anno c’erano stati gli interventi di Lercaro, Suenens e Montini; il Papa commentò: «Finalmente hanno capito; ma ho preferito che ci arrivassero da soli».
Queste parole sono del Papa?
Sì. Ci furono anche difficoltà di altra natura: ad esempio, ogni presidente, ogni cardinale prefetto di una Congregazione, che era stato nominato dal Papa presidente della Commissione conciliare, pretendeva di avere un segretario nominato da lui, e il Papa si era opposto. Ma per la nomina di questi prefetti delle Congregazioni a presidenti delle Commissioni conciliari aveva dovuto agire con prudenza, perché rischiava di mettersi contro tutta la Curia. A tale proposito, egli mi disse: «So che io non chiuderò il Concilio e che, se non avessi agito con prudenza, avrei creato un Conclave che avrebbe distrutto tutto quello che ho solamente cominciato a fare e che non ho potuto portare a termine». Quindi, il Papa vedeva ogni cosa in relazione al Conclave successivo. Egli aveva, inoltre, una buona conoscenza storica del Concilio di Trento, e in particolare dell’opera riformatrice di san Carlo Borromeo. Aveva, poi, una vera e propria venerazione per il cardinale Baronio, sul quale da giovane studioso aveva tenuto anche alcune conferenze. Era dotato di profondo senso storico. E poi aveva imparato a conoscere i Fratelli separati in Bulgaria e in Turchia, e anche i non cattolici e i non cristiani. Voleva molto bene a don Giuseppe De Luca, sebbene fossero due caratteri diversi; eppure lui ne aveva una grande stima e lo avrebbe fatto prefetto della Biblioteca Vaticana, se non fosse morto di tumore molto rapidamente. Lo andò a visitare in clinica, quando stava per morire.
Papa Giovanni era molto sensibile al tema dell’ecumenismo. Egli infatti era stato prima Visitatore e Delegato apostolico in Bulgaria e poi in Turchia.
Sì. Mi raccontò un episodio. Premetto che la sede della nunziatura in Bulgaria ancora oggi è quella di Papa Giovanni ed è nella stessa strada dove abita il Patriarca di Bulgaria. Un giorno suonavano le campane della Sede patriarcale; egli chiese informazioni su che cosa stesse succedendo e gli dissero che si riunivano tutti i vescovi della Chiesa ortodossa bulgara attorno al loro Patriarca. Allora Roncalli indossò la veste solenne di nunzio e andò a rendere omaggio al Patriarca. Quando poi fece rapporto a Roma, di là lo rimproverarono; non solo, ma gli dissero che un’altra volta avrebbe dovuto prima chiedere il parere di Roma. Egli aggiunse: «E già… quelli aspettavano che io ricevessi la risposta da Roma?». Aveva questo senso di rispetto degli altri, soprattutto degli ortodossi; un gran senso di rispetto. Era consapevole degli errori storici commessi anche da noi nei riguardi degli ortodossi.
Come era vissuto dagli scrittori della «Civiltà Cattolica», di cui lei era direttore, l’evento del Concilio?
Con sentimenti diversi, a volte contrastanti. Io e il p. Baragli fummo nominati membri rispettivamente della Commissione dell’apostolato dei laici e di quella dei mezzi di comunicazione sociale. Il p. De Rosa era d’accordo con me. Per noi, in gran parte, il Concilio non era una novità, perché avevamo avuto una formazione diversa da quella di vari padri più anziani.
E i padri Messineo e Lener, che al tempo di Pio XII erano stati tra gli scrittori più importanti?
Il p. Messineo era esperto di diritto internazionale, quindi interessato alla libertà religiosa. Era in fondo un antiliberale, un antidemocratico, e quindi non poteva accettare l’umanesimo integrale, che egli vedeva come un umanesimo naturalistico. Accusava Maritain di storicismo, ma lo salvava dicendo: «Sappiamo della sua fede, sappiamo che è un bravo cattolico; non si accorge, però, che dai suoi princìpi scaturiscono queste conseguenze. Quindi non è formalmente un eretico, perché non ha ben capito». A un certo punto, però, dopo che era stato approvato il testo sulla libertà religiosa ed era finito il Concilio, mi disse, una volta per tutte, di aver capito che ormai sarebbe stato meglio per lui non scrivere più su questi temi, perché si sarebbe messo contro il Magistero della Chiesa. Diceva anche: «Quello che ancora non ha capito p. Lener è che non può più difendere i princìpi di prima». Il p. Lener, invece, è uno che si è «convertito», perché era uno studioso serio e ha cominciato a studiare rigorosamente il Concilio. Anche sulla comprensione della nozione di matrimonio nella Gaudium et spes ha fatto progressi enormi, da solo. Ho notato veramente in lui un approfondimento maturato proprio studiando i testi del Concilio. Attraverso questo approfondimento egli ha «scoperto» aspetti che prima non gli erano affatto congeniali.
Che cosa chiese il Papa alla «Civiltà Cattolica» in merito al Concilio?
Il Papa chiese subito che si facesse come si era fatto durante il Concilio Vaticano I, quando la Civiltà Cattolica era quasi la fonte ufficiale delle informazioni. Chiesi allora al p. Caprile di occuparsene. In Consulta, però, fecero molte obiezioni; ne avevamo già discusso prima che io andassi dal Papa. Ne approfittai dopo per dire: «Signori miei, mi dispiace, ma gli ordini del Papa sono superiori alle vostre opinioni (dissi più o meno così). Bisogna farlo». Poi il p. Caprile e altri cominciarono a dire che ci volevano un canonista, un esperto di storia della Chiesa e un teologo, e che quindi non si poteva fare, e così via. Andai dal Papa, il quale ribadì: «Dovete fare come avete fatto per il Concilio Vaticano I». Allora tornai e dissi: «il Papa ha detto che si deve fare e si farà». Così dunque si è fatto. Papa Giovanni, poi, voleva avere sempre i fascicoletti rilegati; gli mandavamo ogni numero con la cronaca del Concilio del p. Caprile, ma ogni tanto voleva che si facesse un volumetto con tutti gli estratti.
Il Papa fece delle correzioni su queste cronache?
No. Gli piaceva vedere le informazioni sulla preparazione del Concilio. Il p. Caprile lavorava ad ampio raggio; quindi faceva capire le tante reazioni: come veniva vissuto l’evento nei vari Paesi; le preghiere che si facevano, eccetera; insomma, quali erano gli atteggiamenti della gente di fronte al Concilio. E, praticamente, l’unica cosa che gli premeva era che quei fascicoli non fossero in «camicia da notte», il che significava non rilegati in bianco. «Quando sono rilegati in bianco — mi disse una volta —, non si legge bene la scritta che è dorata». Ma questa era la tradizione: al Papa si davano i libri rilegati in bianco — non so in che materiale, forse di seta —, e i titoli tutti in oro. Egli invece desiderava «oro su rosso, perché allora si vede!».
Dal diario della «Civiltà Cattolica» risulta che il Papa la ricevette appena fu nominato direttore: che cosa le disse?
Mi ricevette a settembre, e io ero stato nominato al principio di luglio. In quel periodo non ero neppure in Italia: ero a fare le vacanze in Germania, e me lo comunicò il p. Caprile. A settembre, ci fu la prima udienza a Castel Gandolfo. Giovanni XXIII mi disse che il suo predecessore, Pio XII, era stato molto amico dei gesuiti, e che c’era una tradizionale collaborazione con la rivista, ma che ora il Papa doveva stare attento a non compromettersi troppo come una volta. Poi aggiunse: «Anche perché poi di molte cose non me ne intendo; non sarei in grado di dare un parere su tante questioni. Lei, però, vada dal card. Tardini e segua le sue direttive, anche se fossero contrarie alle mie». Allora mi fece un grande elogio di Tardini, e mi disse che, dopo la sua elezione a Papa, lui non aveva esitato un momento a nominarlo Segretario di Stato; infatti gli diede la sua berretta alla fine del Conclave. Aggiunse: «Il card. Tardini è un uomo leale, intelligente, anche se non credo che mi abbia mai stimato molto».
Il Papa le disse di seguire le direttive del Segretario di Stato anche se fossero state contrarie alle sue?
Sì. Il che significava che aveva un grande rispetto dei propri collaboratori. Mi disse inoltre: «Poi, di tanto in tanto la riceverò anch’io, in modo da darle qualche direttiva e, soprattutto, un po’ di prestigio».
In occasione delle sue udienze, che cosa le disse il Papa del Concilio?
Mi disse che voleva che il Concilio si potesse svolgere con grande libertà, e che quindi non ci dovevano essere condizionamenti. È la stessa cosa che mi fece dire dal card. Cicognani, quando questi mi chiamò dopo la pubblicazione della Veterum Sapientia, per il ripristino del latino nella Chiesa. Questo documento fu interpretato come un mezzo per bloccare la possibilità che il Concilio introducesse le lingue volgari nella liturgia, e il Papa non gradiva assolutamente tale interpretazione. Allora il card. Bea andò da Giovanni XXIII con una proposta. Egli la accettò e chiese che si pubblicasse sulla Civiltà Cattolica un articolo nella linea indicata dal card. Bea. Nonostante questo, l’articolo, scritto con la collaborazione del p. Dezza, fu bocciato.
Il Papa non disse nulla in merito all’articolo bocciato?
No. Però disse che bisognava pubblicare un articolo sulla Civiltà Cattolica per affermare chiaro e tondo che il Papa con quel documento non intendeva togliere in alcun modo al Concilio la libertà di discutere anche il problema dell’introduzione delle lingue volgari nella liturgia.
Il Papa, quindi, fu molto prudente: da un lato indirizzava, dava suggerimenti; dall’altro, cercava di non entrare in conflitto con la Curia.
Sì. Ma, tanto per capire alcune persone della Curia di allora, io ricevetti una lettera firmata dal card. Pizzardo, che era prefetto della Congregazione per i Seminari, e da mons. Staffa, che allora era segretario e che poi è diventato cardinale. In questa lettera essi mi «minacciavano», pur sapendo che io scrivevo l’articolo per mandato del Papa, perché li avevo informati io stesso ed ero andato a chiedere loro che mi aiutassero un po’ a studiare la situazione da tutti i punti di vista. Nella lettera mi scrissero: «Abbiamo saputo che Lei avrebbe intenzione di scrivere una critica alla Veterum Sapientia», e mi avvisarono che avrebbero preso provvedimenti ecclesiastici contro di me, se avessi osato fare una cosa simile. Portai questa lettera al card. Cicognani, ed egli mi disse: «La firma è di Pizzardo, lo stile è di Staffa!»; e mi rassicurò: «Beh, non si preoccupi». Tuttavia essi ottennero che l’articolo non fosse pubblicato.
Lei si mosse, dunque, tra il Papa, da una parte, e le resistenze dalla Segreteria di Stato e della Congregazione dei Seminari, dall’altra.
Questo è quello che chiamano «l’isolamento», la solitudine istituzionale di Giovanni XXIII. Le persone che gli erano più fedeli erano mons. Capovilla e mons. Dell’Acqua, il quale gli era molto affezionato.
Eminenza, che cosa ricorda ancora della sua esperienza al Concilio?
Ricordo la questione sul documento relativo all’apostolato dei laici. Poiché alcuni dissero, giustamente, che anche un testo pratico come questo doveva avere un preludio teologico, fu stabilita una piccola Commissione mista, di cui io feci parte. Sono stato, purtroppo, uno dei redattori più impegnati per quel testo, che, a mio avviso, non vale un granché. C’era una grande divisione tra le varie concezioni, anche relative all’Azione Cattolica. Non c’erano grandi teologi in quella Commissione. Successivamente ho lavorato nel comitato redazionale della Gaudium et spes, ma non per i testi della seconda parte — quelli, chiamiamoli così, «applicativi» —, bensì per quelli della parte teologica e per l’introduzione sociologica. Le quattro parti teologiche sono, appunto, quelle a cui ho lavorato in modo particolare. Ho poi collaborato ai capitoli successivi, a quello sulla cultura, e molto al capitoletto aggiunto all’improvviso — perché non era previsto — su «La Chiesa e la comunità politica». Dovemmo farlo in fretta e furia, in tre o quattro persone, perché si sentiva la mancanza di una trattazione di quel tema. Poi, con alcuni emendamenti, il testo è stato un po’ migliorato.
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[1]. Cfr R. Tucci, «Introduction historique et doctrinale a la constitution pastorale», in L’Église dans le monde de ce temps, Tome II, Commentaires, Paris, Cerf, 1967, 34-127; G. Zizola, Santità e potere. Dal Concilio a Benedetto XVI: il Vaticano visto dall’interno, Milano, Sperling & Kupfer, 2009, 74 s.; R. Tucci, «La Civiltà Cattolica durante il pontificato giovanneo», in Cristianesimo nella storia 25 (2004) 583-594.