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ABSTRACT – Il Copernico di Leopardi, ventunesima delle Operette morali, è la desolata constatazione di una realtà: l’uomo ignora di essere un frammento minimo dell’universo, si crede il centro del mondo e presume stoltamente della sua onnipotenza. Una lezione che ci rende consapevoli del limite dell’uomo, nonostante le sue splendide conquiste.
Leopardi lo scrive nel pieno fervore degli studi e nell’entusiasmo generale che conquistò in quel tempo gli uomini per gli orizzonti aperti dalla scienza al progresso dell’umanità. Un fervore e un entusiasmo ai quali non partecipa il poeta.
Questo dialogo leopardiano, che mette in scena il sole e le ore, l’ora ultima e Copernico, può offrire materia di riflessione ancora oggi, purché lo si legga alla luce della concezione che della vita e del progresso umano ebbe il poeta. E motivo unico della poesia leopardiana è il dolore cosmico, il dolore dell’intero universo: una concezione generata nel secolo della storia e del progresso!
Per questo desolato pessimismo, qualcuno s’è chiesto se Leopardi, che si muove all’interno di una concezione areligiosa della vita, non esprima, pur non esprimendola, «una tacita aspirazione di religione». Certamente egli irrideva e compativa il delirio della «creatura terrestre» che si crede onnipotente. Delirio che è dell’uomo di sempre, appunto dell’uomo-errore, ma quanto più nel nostro tempo, che celebra il trionfo scientifico degli sforzi umani volti da millenni a dominare la natura.