Gran Torino (Usa, 2008). Regista: CLINT EASTWOOD. Interpreti principali: C. Eastwood, B. Vang, A. Her, C. Carley, B. Haley, B. Chia Thao.
Qualcuno ha osservato che c’è un pizzico di civetteria nel modo in cui Clint Eastwood (78 anni) appesantisce i tratti della propria vecchiaia nel film Gran Torino (stesso titolo nella versione originale americana) di cui è regista e interprete. Le sue rughe d’altra parte fanno rima con quelle (vere o false) con le quali, assieme ad altre menomazioni fisiche, diversi registi americani hanno ritenuto di dover conferire agli «eroi» dei loro film recenti un aspetto decisamente «antieroico». Si pensi a Tom Cruise in Operazione Valchiria di Bryan Singer (cfr Civ. Catt. 2009 II 317 s), a Brad Pitt in Il curioso caso di Benjamin Button di David Fincher (cfr ivi, 335-340), a Michey Rourke in The Wrestler di Darren Aronofsky (cfr ivi, 632 s), senza tralasciare Benicio Del Toro, che arranca in preda ad attacchi di asma nei panni del «Che» nei due film che Steven Soderbergh ha dedicato al rivoluzionario cubano (cfr ivi, 483-487). Che cosa significa tutto ciò? È iniziata forse per il cinema di larga diffusione popolare l’ora di una riflessione sull’«annientamento» (la kenosis di cui parla san Paolo, cfr Fil 2,7) necessario affinché dal bruco dell’uomo vecchio possa nascere la farfalla dell’uomo nuovo?
Gran Torino inizia con un funerale e finisce con un altro funerale. Nel secondo si vede nella bara semiaperta il corpo del protagonista, cioè Eastwood in persona. All’inizio lo si era visto nello stesso luogo, una chiesa cattolica, in piedi accanto alla bara della moglie, mentre osservava figli, nuore e nipoti che si disponevano nei banchi con atteggiamenti che suscitavano in lui un senso di netta disapprovazione.
Walt Kowalski, questo è il nome del protagonista del film, è un americano di origine polacca. Veterano della guerra in Corea, ha lavorato per 50 anni nelle officine Ford di Detroit (Michigan), la città dove abita in un quartiere dalle casette tutte uguali, che un tempo faceva parte della cosiddetta Motor City, un ambiente omogeneo, abitato da famiglie legate alla produzione automobilistica. Quando è sopraggiunta la crisi del settore, gli americani hanno cominciato a trasferirsi altrove e al loro posto sono arrivati gli africani, i latini, gli asiatici… Walt, vecchio rancoroso, razzista e reazionario, è rimasto solo, all’ombra della bandiera a stelle e striscie che inalbera con orgoglio sulla sua casa, circondato da stranieri che osserva con ostilità mugolando o esprimendo la propria amarezza con parole rivolte al cane Daisy, suo unico interlocutore, solitario e malinconico come lui. Nel garage Walt custodisce un autentico gioiello, una Ford sportiva del ’72, modello Gran Torino, che lucida e contempla senza mai adoperarla, unica soddisfazione che gli rimane assieme alla birra e alle sigarette.
A scuotere Walt dal suo torpore (preludio a una morte non lontana) ci pensano gli abitanti della casetta accanto alla sua, una famiglia asiatica, appartenente al popolo dei Hmong, composta da Vu (Brooke Chia Thau), madre di due figli: Thao (Bee Vang), un maschio di 16 anni, e Sue (Ahney Her) una femmina di 18. Con loro vive la nonna (Chee Thao) di 60 anni. La zona è infestata da bande di giovani teppisti appartenenti a diverse etnie. Una di queste ha preso di mira la Gran Torino di Walt e conta sulla complicità di Thao per poter fare il colpo. Thao è un ragazzo riservato, che vorrebbe starsene per i fatti propri. I teppisti sottopongono a pesanti vessazioni lui e sua sorella Sue provocando la reazione di Walt, che non sopporta di veder compiere soprusi sotto i suoi occhi.
Per aver preso le difese dei più deboli Walt è considerato un eroe da parte del vicinato asiatico. Scopre di essere in sintonia con questi «musi gialli» più di quanto non lo sia con i suoi scorbutici familiari. Si occupa dell’educazione di Thao, il quale, essendo senza padre, gli si affeziona come un autentico figliolo. Nel frattempo, lo scontro frontale con la banda dei teppisti subisce un’escalation che non si arresta prima di aver raggiunto conseguenze estreme. Tra i personaggi del film c’è un giovane sacerdote (Christopher Carley) che ha assistito durante l’ultima malattia la moglie di Walt, la quale, prima di morire, gli ha fatto promettere che avrebbe convinto il marito ad accostarsi ai sacramenti.
Mentre il confronto con la banda dei teppisti si avvia alla soluzione definitiva, Walt, che sa di dover morire, prepara in anticipo il proprio funerale. Si fa radere dal barbiere, si fa fare dal sarto un vestito su misura, va a confessarsi dal giovane sacerdote al quale racconta soltanto i peccati della vita ordinaria, tenendo per sé l’unico peccato veramente grave che turba la sua coscienza. Si tratta di un crimine compiuto in guerra (che gli è valso per altro una decorazione militare). Con un colpo in pieno volto Walt ha ucciso in Corea un giovane nemico disarmato, che desiderava soltanto arrendersi. Prima di morire confesserà questo peccato al «figlio» Thao in una situazione che la regia (riproponendo l’immagine di una grata simile a quella del confessionale) collega con il sacramento della penitenza. Alla pari di quella dei personaggi con i corpi martoriati, protagonisti dei film sopra indicati, anche la morte di Walt assume una dimensione sacrificale che, direttamente o indirettamente, si collega con quella di Cristo.