Ritengo che tra le priorità emerse dopo la morte di Benedetto XVI vi sia quella di mettere a tema la ormai comprovata problematicità del titolo di “Papa emerito”, seguendo la tesi esposta, prima del passato conclave, dal cardinal Gianfranco Ghirlanda che a inizio 2013 ha scritto su La Civiltà Cattolica: «È evidente che il Papa che si è dimesso non è più Papa, quindi non ha più alcuna potestà nella Chiesa e non può intromettersi in alcun affare di governo. Ci si può chiedere quale titolo conserverà Benedetto XVI. Pensiamo che gli dovrebbe essere attribuito il titolo di “Vescovo emerito di Roma”, come ogni altro Vescovo diocesano che cessa».

Non tutti erano della stessa idea dell’illustre canonista, sebbene il cardinale Müller – per opposte ragioni – abbia dissentito dall’uso del titolo di “Papa emerito”, ma per avversare l’idea del Papa dimissionato, non avendone condiviso il gesto.

Qui invece voglio presentare qualche ragione di apprezzamento di quell’atto, nella contemporaneità.  Non penso all’efficienza fisica e mentale, bensì a lucidità ed energia. Non essendo canonista – ma giornalista – cerco di esprimere un punto di vista relativo alla Chiesa e ai segni dei tempi, alle esigenze del passato e a quelle del presente, al mutare dei tempi. […]

La profezia di “Fratelli tutti” – di unità nella diversità – nel richiamare il motivo del primus inter pares, esprime il criterio con cui Francesco sta plasmando pure il nuovo collegio cardinalizio. La migliore descrizione, secondo me, dell’intendimento di Francesco, l’ha data ancora padre Antonio Spadaro, su La Civiltà Cattolica: «Potremmo meglio pensarla (la Chiesa) come una relazione sinfonica di note diverse che insieme danno vita a una composizione. Ma non si tratta di una sinfonia dove le parti sono già scritte e assegnate per l’esecuzione, ma di un concerto jazz, dove si suona seguendo l’ispirazione condivisa del momento. Questo è il ritmo del futuro: il jazz». […]

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