Mentre il mondo è lacerato, quasi a ogni latitudine, da conflitti aperti e tensioni sempre più forti, papa Francesco in questi mesi ha ripetutamente richiamato l’attenzione anche sulla terribile situazione in Sudan, rimasta fuori dai radar dei media italiani e internazionali. Durante l’Angelus del 2 giugno 2024, ad esempio, aveva invitato tutti a «pregare per il Sudan, dove la guerra che dura da oltre un anno non trova ancora una soluzione di pace. Tacciano le armi». Purtroppo, ancora, non tacciono.
Come emerge da due recenti note della Compagnia di Gesù e del Centro Astalli – sede italiana del Jesuit Refugee Service (JSR), il Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati – la situazione sul campo sembra fuori controllo. L’inasprimento della lotta per il potere tra le Forze Armate Sudanesi (SAF), l’esercito regolare guidato dal generale Abdel Fattah al-Burhan, e le Forze di Supporto Rapido (RSF) del generale Hemedti, che è alla base dei primi violenti scontri, è sfociata in un conflitto su larga scala ad aprile del 2023 che ha causato 15.000 vittime tra i civili e la più grande crisi umanitaria del continente.
Ci sono oltre 10 milioni di persone in fuga (20.000 al giorno), 7,9 milioni dentro i confini del Paese e 2,1 milioni nei Paesi limitrofi come Sud Sudan, Ciad, Egitto, Uganda ed Etiopia. Ormai metà della popolazione sudanese è bisognosa di aiuti umanitari: 25,6 milioni, infatti, sono le persone che si trovano in un’allarmante condizione di insicurezza alimentare e circa 700.000 si trovano sull’orlo della carestia. L’ondata di violenza diffusa ha inoltre portato al collasso del sistema sanitario e alla chiusura dell’80% degli ospedali in tutto il Paese; l’abbattimento delle infrastrutture idriche ha incrementato fortemente il rischio di diffusione di malattie infettive come il colera.
Dinanzi a questa situazione, il JRS in Ciad e in Sudan del Sud sta accompagnando e assistendo, insieme ad altre organizzazioni associate, i profughi in fuga dal conflitto, distribuendo beni di prima necessità alle persone che necessitano di aiuti umanitari.
«Siamo in una situazione ormai disperata», ha riferito il 10 agosto a Fides padre Biong Kwol Deng, della diocesi di El Obeid, segretario generale aggiunto della Conferenza Episcopale di Sudan e Sud Sudan. «Io mi sono dovuto spostare a Juba (capitale del Sud Sudan, ndr). Come molti esponenti della Chiesa abbiamo dovuto lasciare i luoghi dove eravamo in Sudan perché sono diventati troppo pericolosi, ma ricevo costantemente notizie». Per questo non cessa l’appello del JRS alla comunità internazionale a non abbandonare il popolo sudanese.
Come riportava il 22 agosto scorso l’Agenzia Fides, la riapertura di tre punti di passaggio per gli aiuti umanitari è finora l’unico (anche se importante) risultato dei colloqui di pace per il Sudan in corso a Ginevra. Agli incontri in terra svizzera partecipano rappresentanti di Stati Uniti, ONU, Unione Africana, IGAD (Autorità intergovernativa per lo sviluppo, organizzazione regionale dei Paesi del Corno d’Africa), Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Egitto e di una delle parti in conflitto, le RSF. L’esercito sudanese sta boicottando i colloqui poiché rifiuta la partecipazione degli Emirati Arabi Uniti, accusati di appoggiare le RSF. A complicare il quadro, infatti, sono le sponsorizzazioni internazionali del conflitto. Proprio di questi giorni è la notizia, riportata in Italia dalla Rivista Africa, che l’Organizzazione per la cooperazione islamica (Oic) ha etichettato le RSF come «una forza ribelle». È la prima volta che un organismo internazionale utilizza questa definizione tramite una risoluzione. La risoluzione esprime «la piena solidarietà dell’Oic con il Sudan nell’affrontare l’attuale conflitto armato» e sottolinea «l’importanza di preservare la sicurezza, la stabilità e l’unità del Sudan».
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