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Dopo il suo Partigia. Una storia della Resistenza (2013), il saggio nel quale ha analizzato, in maniera acuta e rigorosa, un episodio raccontato da Primo Levi con l’angosciata opacità di chi ritiene di essere forse stato corresponsabile di un assassinio, lo storico Sergio Luzzatto torna a interrogarsi sulla figura del chimico e narratore torinese per ricostruire una complessa vicenda che si cela dietro alla sua scrittura. Egli prende cioè le mosse dai personaggi elencati e descritti in Se questo è un uomo per giungere gradualmente a delineare l’identità reale dei compagni di sventura, di quegli Häftlinge ebrei che la narrazione relega sovente sullo sfondo.
Lo studioso dà inizio alla sua indagine ponendosi alcune domande: chi erano i membri del Kommando chimico che operava ad Auschwitz-Monowitz? E chi erano, in particolare, i compagni dei quali Levi fece una rappresentazione negativa, o che egli descrisse addirittura alla stregua di personaggi abietti, maligni esemplari della selezione naturale effettuata dal Lager? Riguardo al profilo metodologico, Luzzatto mette anzitutto in rilievo come le opere di Levi debbano essere lette utilizzando la strumentazione degli storici: in altri termini, a suo avviso, «la stagione della testimonianza storica e la stagione della scrittura letteraria» (p. 3) non devono essere separate, perché una distinzione netta tra i due periodi appare immotivata.
Forse, l’autore de Il sistema periodico sarebbe diventato uno scrittore in ogni caso, anche se non fosse stato deportato ad Auschwitz: avrebbe tuttavia scritto molto probabilmente di altro, giacché quella tragica esperienza ne ha fatto uno dei principali testimoni dell’orrore, dei campi di sterminio, di ciò che è stata la Shoah.
Occorre sottolineare, in primo luogo, come l’importanza del saggio di Luzzatto risieda nella sua capacità di evidenziare sia il profilo storico che connota le opere di Levi sia la qualità letteraria che ne caratterizza le pagine: la compresenza delle due peculiarità induce lo studioso a osservare come in lui si siano trovati a coincidere il grande scrittore e la figura per molti versi antesignana dei tanti testimoni che, nel corso dei decenni successivi, avrebbero esposto la propria storia. Dal momento poi che Levi decise di far convivere testimonianza e letteratura, le persone che ad Auschwitz si erano trovate a vivergli accanto si sarebbero trasformate necessariamente in personaggi.
Va inoltre osservato come l’uso dei pronomi personali sembri appunto riflettere la compresenza alla quale si è appena accennato, e appare rispondere a una precisa strategia. Giacché il chimico-narratore, un maestro di scrittura, non ha certamente utilizzato il «noi», il «voi», l’«io» in maniera casuale.
A proposito del primo, sembra chiaro come egli intenda includere in una categoria unica tutti i superstiti del campo, il «gregge abietto», vittima della persecuzione messa in atto dai nazisti.
Riguardo poi all’uso dell’«io», Luzzatto nota l’esistenza di un’insistita altalena tra la prima persona plurale e la prima singolare: un’alternanza nella quale trovano la propria espressione sia la voce dei sommersi sia quella del salvato. E che, scrive lo storico, «riflette l’impegno etico tanto fortemente avvertito da Levi, il salvato, di parlare anche in vece/in voce loro, come per delega dei sommersi» (p. 59).
A proposito infine dell’utilizzo del «voi», è pur vero che il vocativo plurale è rivolto talora ai cosiddetti bystanders (Hilberg) della Soluzione finale, che in italiano diventeranno gli «spettatori»; esso è però più di frequente riservato alle vittime: sia gli individui massacrati nei Lager sia coloro che sono riusciti a sopravvivere. Oppure, il vocativo plurale viene indirizzato in particolare alla «gente sommersa», che tuttavia non si tollera più e che si vuole scacciare, perché il trascorrere del tempo ha reso ormai impossibile ogni forma di comunanza.