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Ursula K. Le Guin ha definito H. P. Lovecraft (1890-1937) «uno scrittore eccezionalmente, quasi impeccabilmente pessimo». E un po’ di ragione forse l’aveva, se si giudicasse lo scrittore secondo il metro abituale della critica letteraria. Ma di abituale non c’è proprio nulla nella biografia, nell’opera e, soprattutto, nell’enorme influenza postuma che lo scrittore di Providence ha avuto sulla produzione (cinema, letteratura, videogiochi e galassia digitale) di horror, fantasy e fantascienza degli ultimi novant’anni.
Lovecraft ha riconfigurato il terrore: il suo «cosmicismo» sancisce l’insignificanza del genere umano in una terra desolata, popolata da forze aliene distruttive. Non c’è redenzione nella sua terrificante mitologia. In essa, la ragione implode, producendo follia e morte: Edgar Allan Poe, tra i padri; Stephen King e Alien, tra i figli, per semplificare.
Quell’uomo infelice e spesso infermo, cresciuto in una famiglia devastata dalla malattia mentale, era anche un formidabile epistolografo. Si stima che abbia scritto 100.000 lettere, un quinto delle quali sarebbe sopravvissuto. Questa particolare lettera che presentiamo, di oltre 150 pagine, è indirizzata a un oscuro corrispondente del Vermont, Woodburn Harris. Uno zibaldone da erudito autodidatta, che esplora vasti campi dello scibile: l’Atene di Pericle, la nozione del tempo attraverso otto secoli di storia; e poi la tragedia greca, l’Inghilterra elisabettiana, i Maya; ricostruzioni à rebours di intere civiltà attraverso la sessualità, l’estetica e l’architettura, per affermare gerarchie etniche e culturali.
La lettera presenta azzardate teorie sul «successo» di questa o quella civiltà, sul primato di questa o quella razza, con pregiudizi devastanti e allarme per l’avanzamento della barbarie moderna contro i pilastri delle civiltà «classiche», quella anglosassone in primis. È una critica feroce della società americana contemporanea: «Oggi come oggi non si può dire che la vita di un uomo civile e sensibile in America sia davvero degna di essere vissuta se non nella misura in cui egli è in grado di compiere una fuga immaginosa dall’ambiente invasivo, vuoi nel passato del suo flusso culturale, vuoi nell’ipotetico futuro offerto dai suoi sogni» (p. 115).
Lovecraft è un pedagogo impietoso e un ideologo infiammato, intento a demolire le tre grandi illusioni con le quali l’uomo cerca di mitigare il proprio sgomento: l’amore romantico, la religione, la democrazia. È un razzista, nativista, campione dell’«uomo umanistico», individualista all’estremo, con echi che rimbalzano da Mark Twain a Walt Whitman, da R. Waldo Emerson a Benjamin Franklin; un’anima disincantata e orgogliosamente frondista.
Quindi, perché leggere questa lettera, perché scriverne? Non solo per trovarobato culturale, ma perché l’A. non ha eguali nel secolo: una summa mundi di questa ambizione ci incolla al medesimo microscopio di un bizzarro reperto biologico di cui siano noti regno e ordine, ma si ignori la specie. E tra il molto rottamabile ci sono anche vere intuizioni: «Vorrei correggere la tua impressione radicalmente sbagliata che Shakespeare avesse un atteggiamento o un metodo da intellettuale. Santiddio! Non ti rendi conto che quel tipo era l’esatto opposto, un poeta incolto, imprevedibile, spontaneo, non accademico, noncurante […]. Shakespeare, come artista immortale, è stato un puro caso di genio» (p. 27).
Gli strali più violenti vengono rivolti contro l’era tecnocratica e il grande capitale, contrapposti a un ideale di civiltà aristocratica, un’arcadia dove prevale l’essere e non il fare, lo spirito e l’intelligenza creativa sull’homo oeconomicus: «Ciò che adesso sta rendendo la democrazia non soltanto possibile ma disgraziatamente inevitabile è il declino dell’elemento umanistico dell’io in quanto l’era delle macchine distrugge l’umanismo e scinde la vita degli uomini nel meccanicismo robotico e nella semplicità animale» (p. 127).
Il cerchio si chiude con la proiezione di un’esile ma essenziale speranza, che forse sarebbe piaciuta anche a Leopardi: «Il tedio che prende i più non è altro che un deterioramento fisico dovuto alle stesse cause che in seguito causeranno la morte. Non vale la pena vivere la vita come noi la conosciamo, ma in teoria potrebbe» (p. 147).