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Il volume di Michele Dantini intende esplorare il complesso rapporto tra arte sacra, religione e cultura filosofico-letteraria, concentrandosi, in particolare, su immagini della tradizione occidentale capaci di evocare il divino.
Il primo capitolo, «Mense terrene e mense celesti», in risposta all’iconoclasmo protestante, esamina il fenomeno della fioritura artistica nell’Europa del Nord, tra il Cinquecento e il Seicento.
Tuttavia, ad attirare la nostra attenzione è il secondo capitolo su Dostoevskij, in cui si cerca di approfondire il confronto tra le icone antiche e la Madonna Sistina di Raffaello. Dantini fa notare che, sebbene il nome di Dostoevskij non sia spesso associato alla «riscoperta» dell’icona, la sua opera riflette una profonda venerazione per l’immagine sacra. La Madonna raffaellesca è infatti considerata dallo scrittore russo una manifestazione divina, capace di suscitare umiltà, venerazione e persuasione. Egli attribuisce a queste immagini un senso quasi mistico, che trascende le distinzioni tra bello e brutto, colto e popolare, elevandole a vere rappresentazioni divine.
I Quaderni neri di Heidegger, che l’A. tratta nel capitolo terzo, sembrano entrare in questo discorso per cogliere il filo rosso che congiunge arte contemporanea e «fenomenologia esistenziale». La prospettiva heideggeriana, infatti, contesta il positivismo e il relativismo storico della Scuola di Vienna, sostenendo la necessità di una teoria interpretativa che leghi l’interprete al proprio contesto storico e al «destino». Heidegger respinge sia l’espressionismo sia il naturalismo, preferendo, come scrive l’A., una Sachlichkeit tragica e austera, ispirata all’arte greca delle origini e all’arte tedesca del Romanticismo, con un inatteso interesse per la letteratura russa, in particolare per Dostoevskij. Viene esplorato così il rapporto tra Terra e Cielo, in un dialogo, seppur distante, con il cristianesimo di Dostoevskij.
Il quarto capitolo del libro si concentra su Pavel Florenskij e sulla sua teoria della bellezza, che si ispira alle fonti patristiche. Il filosofo russo, che secondo l’A. distingue tra bellezza quintessenziale, derivata dalla Grazia, e bellezza accidentale, legata ai manufatti estetici, rappresenta l’espressione di una visione influenzata dalla «luce taborica», simbolo della bellezza divina, che le icone cercano di rappresentare.
Il capitolo finale, che l’A. dedica a Il Vangelo secondo Matteo (1964), di Pier Paolo Pasolini, esplora il profondo interesse dello scrittore per una teologia dell’immagine orientata verso l’escatologia della Grazia. Pasolini rivede il senso e i limiti della sua attività di regista e scrittore, distaccandosi dal realismo comunista e dal naturalismo moderno, per abbracciare un realismo «mistico» o «epico», radicato nella tradizione figurativa cristiana del Trecento e Quattrocento. Dantini ci mostra allora come ne Il Vangelo secondo Matteo Pasolini colleghi concetti come santità, bellezza, attualità e impegno, distaccandosi da ogni partito specifico e confidando negli orientamenti «sociali» della Chiesa post-conciliare e nel potere trasformativo dell’arte. Cristo diventa il punto di riferimento per termini come parousia, «grazia» e «testimonianza», che trovano in lui il loro significato più profondo e universale.
Il testo di Dantini rappresenta questa ricerca di «interdimensionalità» e, forse, anche di «transdimensionalità», che prova a ricongiungere sullo sfondo del sacro l’arte e la filosofia, il visibile e l’invisibile, l’umano e il divino.