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La questione israelo-palestinese rimane, purtroppo, di strettissima attualità e di difficilissima soluzione. La situazione, estremamente complessa e ormai incancrenita da decenni di campagne belliche, attentati e ritorsioni, è stata resa ancora più tragicamente problematica dal pogrom scatenato da Hamas il 7 ottobre del 2023 e dalla successiva, terrificante reazione militare – decisa dal governo di Benjamin Netanyahu –, che ha provocato la morte non solo di un gran numero di terroristi, ma anche di migliaia e migliaia di civili.
Di fronte a una simile operazione e ai suoi altissimi costi umani ci si chiede come mai – a differenza di quanto è accaduto spesso in passato – non vi siano state proteste di massa, né per nulla numerose siano state le voci critiche levatesi nei confronti dell’operato dell’attuale esecutivo.
Ci aiuta a rispondere a questa domanda l’indagine mediante la quale Anna Momigliano – antropologa, saggista, nonché profonda conoscitrice del Medio Oriente – mette il lettore in grado di comprendere gli avvenimenti odierni. Va posto anzitutto in rilievo come la sua analisi prenda le mosse da un interrogativo: quali cambiamenti ha subìto, nel corso degli ultimi trent’anni, la società israeliana?
Attraverso una disamina che appare lucida, approfondita e ricca di riferimenti storici, l’A. giunge a questa conclusione: nel lasso di tempo considerato, la comunità nazionale – giovane, variegata, dall’elevato tasso di natalità, legata in parte al passato, ma proiettata in parte verso il futuro della ricerca e delle nuove tecnologie – ha vissuto profondi mutamenti tanto demografici quanto sociali, che ne hanno probabilmente acuito le contraddizioni, ma che sembrano orientare la rotta in una direzione ben definita.
Di quale direzione si tratti, è presto detto. La vecchia classe dirigente, legata agli ideali del sionismo laico e socialista, ai quali si erano ispirati i padri dello Stato, sembra ormai sopravanzata da una maggioranza formata da giovani religiosi e nazionalisti. Questi ultimi ritengono che gli accordi di Oslo, siglati negli anni Novanta da Yitzhak Rabin e Yasser Arafat, siano stati del tutto fallimentari: pertanto sono convinti che le colonie costruite in Cisgiordania rivestano un’importanza assai maggiore rispetto a qualsiasi trattativa con i palestinesi. E sembra ragionevole ipotizzare che, chiamati a scegliere tra democrazia e tradizione religiosa, essi optino per la seconda.
Scrive, al riguardo, l’A.: «In altre parole, lo stato ebraico è stato fondato prevalentemente da immigrati di origine europea ma poi trasformato, radicalmente e repentinamente, dall’immigrazione di massa degli ebrei mediorientali» (p. 17). Alla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso il numero dei cittadini israeliani arrivò infatti a triplicarsi, provocando non pochi problemi, perché la nuova nazione si rivelò impreparata ad affrontare il massiccio arrivo di persone spesso disperate e indigenti.
È cambiata, insomma, l’identità di un mondo per il quale il più grande massacro di israeliti perpetrato in un solo giorno dai tempi della Shoah ha costituito un vero e proprio trauma: uno shock che ha alimentato un sentimento misto di rassegnazione, odio, paura e desiderio di vendetta, ha dato forza alle posizioni più radicali e assottigliato le fila di quanti esortano alla moderazione e al dialogo. Mentre è probabile che, nel prossimo futuro, la società israeliana – sempre più densamente popolata – sarà animata da un persistente fervore religioso e nazionalista.