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Vi sono momenti nella Storia in cui grandi anime che appartengono a mondi e universi apparentemente incomunicabili, per le circostanze della sorte o di quell’intenzione amorevole che noi cristiani chiamiamo «Provvidenza», entrano in contatto e dialogano tra loro. Appare così, come un rivolo nascosto tra i grandi eventi della Storia, un pensiero divergente, paradossale, al tempo stesso ingenuo e dirompente.
È ciò che è avvenuto tra il 1909 e il 1910, quando Lev Tolstoj e Gandhi – l’uno a Jasnaja Poljana, nella Russia europea, l’altro nel Transvaal sudafricano, colonia inglese – si scambiarono alcune lettere. Il futuro mahatma liberatore dell’India, all’epoca quarantenne, aveva letto il testo che l’autore di Guerra e Pace, Anna Karenina e Resurrezione aveva scritto per il giornale The Free Hindustan, su sollecitazione del suo direttore. Tale scritto, oggi conosciuto come Lettera a un indù, non venne pubblicato, forse perché il giornalista indiano, che pur l’aveva sollecitato, sperava in una risposta dai toni diversi, ma giunse tramite un amico nelle mani di Gandhi, che ne rimase molto colpito. In questa lettera Tolstoj teorizzò la lotta non violenta come via di liberazione non solo interiore, ma anche sociale e politica, e contribuì, a detta dello stesso Gandhi, a far maturare in lui la riflessione sul satyagraha, ossia sulla resistenza all’oppressione (coloniale inglese) tramite la disobbedienza civile.
Sono gli ultimi mesi di vita di Tolstoj, che morirà il 20 novembre 1910. Gandhi gli scrive per manifestargli la sua gratitudine. Contestualmente gli chiede se la versione inglese del testo, inizialmente composto in russo, corrisponde alle idee del suo autore, se vada integrato e se sia possibile pubblicarlo nel giornale fondato da Gandhi stesso, Indian opinion.
Tolstoj è divenuto un punto di riferimento intellettuale a livello internazionale. La sua opzione religiosa e per la pace è diventata irreversibile, e per le sue posizioni eterodosse è già stato scomunicato dalla Chiesa ortodossa. Egli sostiene che la legge dell’amore, affermata da Cristo, risponde alla natura profonda del cuore dell’uomo e si ritrova in ogni tradizione religiosa. Questa norma è stata tradita, schiacciata o elusa, manipolata o avvelenata sia dai «religiosi» sia dai pensatori del socialismo «scientifico», che la vogliono far valere nell’ambito della vita personale, ma la ritengono inadatta a quello delle relazioni politiche istituzionali e negli ambiti sociali.
La condanna da parte di Tolstoj è netta, e l’invito a non partecipare ad alcuna forma di violenza irriducibile. Il male si vince con il bene e con l’amore, mai con il male. Chi teorizza la sospensione della legge dell’amore, proponendo il ricorso alla violenza come inevitabile «in alcuni casi», lo fa per paura inconsapevole o consapevole ambizione di potere. D’altra parte, come spiegare che pochi possano dominare su moltitudini, se non per la complicità di queste ultime, che ritengono la violenza architrave dolorosa e necessaria del vivere comune?
Voce isolata, profetica o ingenua, Tolstoj chiede che l’India – come la Cina – non rinunci alla sua tradizione spirituale, di «pazienza» e mitezza, per abbracciare il modello economico e politico occidentale, considerato fallimentare e nel lungo periodo distruttivo. Nello slancio ideale dello scrittore, colpisce verificare l’acume di alcune sue considerazioni, che possiamo trovare applicabili in filigrana ai nodi ancora irrisolti delle tensioni dei nostri giorni, in termini militari e di sviluppo economico.
Lettera a un indù, Lettera a un cinese e Karma, insieme alla breve ma luminosa corrispondenza tra Gandhi e Tolstoj, sono contenute in questo piccolo e prezioso libro. Come ha scritto nell’Introduzione Davide Brullo, con questo testo ci si muove nell’ambito rarefatto delle parole ultime di una vita lunga, carica di parole, eventi e riflessioni.