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Lo studio della lingua della Torah riserva continue sorprese nell’esegesi della Scrittura, nella preparazione all’Eucaristia domenicale e nella meditazione sui Salmi. Gesù parlava aramaico – lingua affine all’ebraico, un vernacolare elegante, si potrebbe dire, più parlato che scritto – e respirava l’atmosfera della sinagoga, e in particolare assimilò perfettamente la didattica farisaica.
La storia d’amore che Elena Loewenthal (che è stata docente allo ISS dell’Università di Pavia) narra in riferimento a una lingua, l’ebraico, per la quale ella ha speso una vita di studi, saggi e traduzioni, non intende costituire né un compendio di grammatica, né un sintetico manuale, né una storia della letteratura, ma vuole testimoniare la passione per una lingua scarna e densa di rivelazioni, ruvida e a volte invece dolcissima. Una lingua senza vocali, inflessibile nell’evitare di nominare un Dio irrappresentabile, e assieme feconda di proposte per aggirare il divieto e collegare il Signore dell’alleanza con le vite di chi ha creduto alla sua promessa.
L’antichissima lingua ebraica, lingua «sacra» per antonomasia, non è mai morta, anche se per molto tempo non è stata praticata ufficialmente. Essa obbliga il neofita italiano a un ribaltamento visuale (si legge da destra a sinistra) e a una concentrazione lessicale inconsueta, dato che la radice consonantica va integrata con suoni vocalici appresi sia per regola sia per uso. Eppure, l’A. afferma che «ogni volta, ogni sacrosanta volta che ho visto l’italiano e l’ebraico incontrarsi – sulla pagina, nella voce –, è puntualmente successo che le due lingue si sono regalate qualcosa a vicenda: una sfumatura di significato, un’accoppiata di suoni ben riuscita, una costruzione della frase mai tentata prima» (p. 9).
Alcuni accostamenti sono folgoranti. La lingua di studio si dice Ivrit e il patriarca Abramo è il primo a essere chiamato Avraham haivri (cfr Gen 14,13), ossia «colui che sta dall’altra parte», che passa, oltrepassa, nella fiducia all’appello che si è sentito rivolgere: “Esci dalla tua terra…”» (p. 33). Colpisce la somiglianza del ritmo della lingua con la voce di Dio. Dio è infatti «voce» in quel passo di 1 Re 19,12 in cui dona a Elia una «voce: silenzio sottile» (qol demamah daqah).
Mentre ci introduce alle consonanti, alle contaminazioni d’uso e ai grandi letterati, l’A. distingue la safah dal leshon haqodesh. La prima è la tollerante lingua praticata, che gli ebrei utilizzavano accanto – e a volte ibridandola – alle altre lingue della loro travagliata diaspora. Il secondo è il lessico santo, intangibile, con cui Dio ha creato il mondo e dettato la Torah a Mosè sul Sinai.
Loewenthal regala un divertente «allegato» ai nostri primi manuali di apprendimento e ci invita a una strana libertà di interpretazione: le tavole della Legge sono «incise» (cherot) nella pietra, ma un maestro raccomandava di leggere, proprio in quel termine, cherut, cioè «libertà», nel senso che lo stesso spazio bianco può dire qualcosa di nuovo a chi medita una narrazione o una preghiera così antica di cui nessun glossario o nessuna grammatica può indicare il significato definitivo. L’obbedienza si accompagna alla creatività.
«Eccomi» (Hinneh), dice pregando colui che crede nel Dio di Gesù Cristo, ricordando la vicenda di Samuele. Dio ci chiama e noi rispondiamo: «Mi hai chiamato, eccomi». E poi, in modo più maturo: «Parla, Signore, il tuo servo ti ascolta». Ascoltiamo dunque la vibrazione di una parola, che si inscrive in una storia d’amore. Cifrata, come ogni storia d’amore.