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«Scusate se lo dico, ma proprio noi cattolici italofoni […] ci siamo permessi di commettere un errore esiziale, imperdonabile. Siamo diventati tremendamente noiosi, abulici […], noi che in un fazzoletto di terra abbiamo la concentrazione più imponente di storia cattolica e cristiana, di chiese e monasteri, di opere stupefacenti per grandezza e bellezza trasudanti secoli di fede indomita» (p. 193). Questa amara constatazione anima le pagine del libro, che vuole essere un omaggio alla bellezza del cristianesimo, non solo per la ricchezza culturale e artistica cui ha dato vita nel corso dei secoli, ma soprattutto perché l’A. è convinta che la fede in Gesù Cristo fornisca una marcia in più nel percorso della vita, un plusvalore tanto prezioso quanto immeritato, perché gratuito: proprio per questo chi lo ha ricevuto ha il dovere di farlo conoscere.
Zuccarini ne parla affrontando con ironia e intelligenza problematiche universali che la vita prima o poi presenta: insoddisfazione, abbandoni, fallimenti, tragedie, morte ecc. Ma pur riguardando ogni persona, queste situazioni possono essere vissute in maniera differente, e forse è questa la questione davvero decisiva: «Il vero discrimine tra ricchi e poveri non sono i soldi. In fondo non ci sono uomini più poveri di quelli che non sanno di avere un Dio Padre a tenergli una mano sopra la testa» (p. 153). In tutti infatti c’è il desiderio di essere degni di amare ed essere amati, ed è questo a essere davvero in gioco, specie quando le cose si mettono male: «Senza un Padre Buono (per davvero) a tracciare la via precedendoci col Suo esempio, amare è una grossa faticaccia, e la vita diventa una corsa senza safety car» (p. 22).
L’A. cerca di mostrarlo con l’aiuto di testimoni che hanno preso sul serio l’incontro con questo Padre, affrontando una morte dolorosa con una serenità inspiegabile. Come è accaduto, ad esempio, alle «tre C» (Chiara Corbella, Chiara Luce, Maria Chiara Mangiacavallo): «Non vengono risparmiate da crisi e incertezze, stanno in croce pure loro, però consapevolmente rivolte verso la gioia. Forse vivere e morire credendoci sul serio, in quel Dio fatto uomo, vale la pena davvero» (p. 75). Lo mostra anche la vicenda di Carlo Acutis, morto a 15 anni per una leucemia fulminante. Carlo lascia in eredità il segreto della sua esistenza vissuta in pienezza fino all’ultimo, «la raccomandazione di adottare l’Eucaristia e il Santo Rosario come armi più potenti per fronteggiare il male» (p. 169).
Nel corso delle pagine vengono presentati anche episodi ordinari, incontri con amiche, conoscenti, compagni di scuola, dove a un certo punto emergono puntualmente le domande fondamentali, indipendentemente dall’età, dallo status sociale, dal percorso di vita, domande che riconducono puntualmente alla questione decisiva: per cosa vale la pena vivere?
Il libro presenta la testimonianza di fede di una donna, sposata e madre di famiglia, che nella quotidianità cerca di trasmettere con gioia e intelligenza la bellezza del credere, in ogni situazione. La cosa importante, che è insieme la più facile e la più difficile, è saper cedere il «posto di guida» e lasciare che il buon Dio faccia il suo mestiere, con il suo stile, i suoi tempi e i suoi segni, tanto imprevedibili quanto efficaci: «Non c’è fretta allora, ogni conversione a suo tempo. Ieri una madre centro italica disagiata, domani un sacerdote illuminato che spiazza col sorriso disarmante, dopodomani la frase di un giovane beato. Dio si fa strada così nella nostra vita, senza effetti pirotecnici. Tra le cose di ogni giorno: parole, incontri, letture. Con la pazienza di uno scalpellino, frantuma le difese dei cuori sofferenti» (pp. 169 s).