L’allora mons. Bergoglio aveva più volte affermato che non amava viaggiare. Eletto Papa, però, ha percepito che il suo ministero gli chiedeva di invertire la rotta e di mettersi in cammino per il mondo.
«Faccio questi viaggi per visitare le comunità cattoliche e anche per entrare in dialogo con la storia e la cultura dei popoli, con quella che è la mistica propria di un popolo». Di ritorno dalla Mongolia, il suo 43° viaggio apostolico, è stato il Santo Padre in persona a spiegare il nucleo di senso che dal 2013 ha per lui il suo peregrinare per il pianeta, annunciando il Vangelo. Il pellegrinaggio è senz’altro una chiave di lettura del pontificato di Francesco: un incedere quotidiano e circolare che – si potrebbe dire – va dalla Parola ascoltata, meditata e annunciata, alla Parola incarnata nei popoli, nelle persone, nelle storie che egli desidera fortemente incontrare. Un discernere continuamente la presenza viva di Cristo nella realtà.
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E ha cominciato questo suo pellegrinaggio andando a Lampedusa: un viaggio italiano, in apparenza, ma in realtà un viaggio al cuore del Mediterraneo, alle soglie della «porta d’Europa». A seguire ha scelto l’Albania e la Bosnia come prime tappe dei suoi viaggi nel Vecchio Continente, consapevole che l’anima europea è più vasta dei confini dell’Unione e cresce per «nuove sintesi». Dalle «periferie» di Albania e Bosnia, il Papa è come rimbalzato brevemente al «centro», cioè a Strasburgo, per visitare le Istituzioni europee, e poi proseguire sempre ai confini: Turchia, Bosnia-Erzegovina e l’isola di Lesbo, in Grecia. E il suo viaggio è proseguito nel Caucaso del Sud, terra dalle antichissime radici cristiane ai limiti dell’Europa, nelle quali batte il suo cuore e che sono piagate da ferite ancora aperte e sanguinanti. È stato in Polonia per la Giornata mondiale della gioventù, e lì ha toccato il confine dell’orrore, Auschwitz. Poi si è recato a Lund, in Svezia, e a Fatima (non nella capitale Lisbona). Dopo i viaggi in Svizzera e Irlanda motivati da eventi specifici, il Papa si è diretto in Bulgaria, Macedonia del Nord, Romania e – dopo la tappa a Budapest, legata al Congresso Eucaristico – Slovacchia. A seguire Cipro, Grecia e Malta, come a chiudere a sud un cerchio iniziato a Lampedusa. A seguire Ungheria e Portogallo. Difficile non vedere un itinerario «periferico».
Per comprendere questo cammino, leggiamo ciò che Francesco ha dichiarato in un’intervista rilasciata a La Cárcova News, rivista popolare prodotta in una villa miseria argentina: «Quando parlo di periferia, parlo di confini. Normalmente noi ci muoviamo in spazi che in un modo o nell’altro controlliamo. Questo è il centro. Nella misura in cui usciamo dal centro e ci allontaniamo da esso, scopriamo più cose e, quando guardiamo al centro da queste nuove cose che abbiamo scoperto, da nuovi posti, da queste periferie, vediamo che la realtà è diversa. Una cosa è osservare la realtà dal centro e un’altra è guardarla dall’ultimo posto dove tu sei arrivato. Un esempio: l’Europa vista da Madrid nel XVI secolo era una cosa, però quando Magellano arriva alla fine del continente americano, guarda all’Europa dal nuovo punto raggiunto e capisce un’altra cosa».
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Se allarghiamo la prospettiva ai viaggi fuori d’Europa notiamo che lo sguardo di Bergoglio è quello di Magellano. Francesco conosce come batte il cuore del mondo toccandone le estremità, i polsi, dove il sangue si sente pulsare. E scegliendo cardinali «periferici» intende rianimare la circolazione nel corpo stesso della Chiesa.
Come Bergoglio ama Magellano così ama Matteo Ricci, il gesuita di fine Cinquecento che si trasferì in Cina a trent’anni e che compose un grande mappamondo raffigurando i continenti e le isole fino ad allora conosciuti. Così il popolo cinese poteva vedere raffigurate in forma nuova molte terre lontane. Ricci le ha pure nominate e le ha brevemente descritte. «Ecco – ha detto il Papa ai gesuiti de La Civiltà Cattolica –, con i vostri articoli anche voi siete chiamati a comporre un “mappamondo”: mostrate le scoperte recenti, date un nome ai luoghi». Lo sguardo del Pontefice si nutre quindi degli sguardi periferici di Magellano e Ricci. Lo sguardo dell’estremo Oriente e dell’estremo Occidente.
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La visione «estrema» per Francesco si abbina a una dimensione terapeutica. Subito penso alle Filippine, quando è voluto stare sotto una pioggia violenta con la gente di Tacloban, nell’epicentro del tifone che aveva devastato case e vite. Ricordo, e ancora un po’ tremo, la sua presenza «miracolosa» nel cuore di una Bangui in piena guerra o in una Mosul distrutta, insidiosa e blindata. Mi passano ancora dinanzi i volti dei rifugiati incontrati nel campo profughi di Lesbo, insieme ai fratelli ortodossi Bartolomeo e Hieronymos. Non sarà facile dimenticare l’immagine del Pontefice che attraversa in solitudine e senza parole l’ingresso del campo di sterminio di Auschwitz. Era il 29 luglio 2016. Su una vettura elettrica si avviò al Blocco 11, dove, davanti a un muro, i nazisti compivano le fucilazioni. Bergoglio salutò lì 12 superstiti, tra i quali Helena Dunicsz di 101 anni, che era stata violinista dell’orchestra del campo, e poi si diresse al muro. Francesco rimase a lungo in preghiera silenziosa, toccando i mattoni con la mano e rimanendo con il capo chino, prima di accendere una candela ricevuta da uno dei sopravvissuti. Non disse nulla. Io ero lì, ad Auschwitz, e quel silenzio mi impressionò. Bergoglio è stato finalmente libero, il primo Papa libero di non dire nulla davanti alla tragedia.
Quel gesto ad Auschwitz ricordò a molti la sosta al muro di Betlemme. Bergoglio, in visita in quella città, era sceso dalla macchina e si era recato presso il muro che divide ebrei e palestinesi. Anche lì non aveva detto nulla: vi aveva solo appoggiato la testa e il palmo di una mano. In quell’occasione qualcuno mi aveva chiesto: «Cosa vuole fare il Papa poggiando la mano su quel muro?». Io, francamente, non sapevo cosa rispondere. Fu un gesto spontaneo, non previsto dal protocollo, come non era stata programmata quella sosta. Il significato mi fu poi chiarito dall’amico Omar Abboud, musulmano: «Cosa faceva Gesù imponendo le mani? Toccava i malati per guarirli. Ecco, Francesco fa lo stesso: tocca i muri per risanarli».
Il Papa, in particolar modo con i suoi viaggi, tocca fisicamente i muri perché sa che i muri sono ferite e li vuole guarire. Così avvenne anche, simbolicamente, in Corea. Durante la visita in quel Paese, Bergoglio non parlò di Corea del Nord e di Corea del Sud, ma si rivolse sempre a un Paese unito dalla lingua madre. Alla frontiera tra un popolo diviso toccò invisibilmente quella ferita aperta. Lo stesso successe a Sarajevo, dove i muri sono ancora segnati dalle pallottole. Bergoglio visitò la capitale della Bosnia e non Mostar, dove c’è una comunità di cattolici più nutrita. Qualcuno disse che aveva sbagliato, che era stato consigliato male, ma il Papa non va semplicemente dove ci sono i cattolici, il Papa va dove c’è una ferita aperta, perché vuole appoggiare la mano di Cristo su quella ferita. Per questo scelse per il suo primo viaggio Lampedusa, per questo andò a Lesbo, anch’essa tragica porta d’Europa a causa della tragedia dei migranti.
Allo stesso modo andò a Cuba, un altro muro diventato ponte. Nel primo discorso sull’isola il Papa parlò anzi di Cuba come di un ponte tra Nord e Sud, tra Est e Ovest. Io compresi subito il riferimento a Nord e Sud, ma in che senso era un ponte tra Est e Ovest? Non avrei mai potuto immaginare che sarei tornato a Cuba dopo pochi mesi per la dichiarazione congiunta di Francesco e del patriarca di Mosca, per l’incontro tra Est e Ovest. In quell’occasione credo che il Papa avrebbe quasi potuto firmare qualunque dichiarazione. I pezzi di carta sono pezzi di carta, non facciamone un’esegesi eccessiva, ma ciò che contava era l’esperienza dell’incontro, è quello che cambia la vita, come nella fede è l’incontro con Cristo, così tra gli uomini non sono le carte firmate e bollate, ma gli sguardi, le mani e gli occhi.
Ma se il Papa ha voluto assolutamente visitare Bangui, nonostante le forti pressioni diplomatiche e giornalistiche esercitate su di lui e sulla macchina organizzativa, ricordiamo che ha voluto essere anche in Sri Lanka, dove per anni singalesi e tamil hanno combattuto una guerra fratricida, ed esplorare le radici cristiane dell’Europa nelle antiche terre del Caucaso del Sud, toccando con mano le ferite aperte tra Georgia e Russia, e tra Armenia, Turchia e Azerbaigian.
Infine, ricordiamo il viaggio in Messico e la tappa a Ciudad Juárez, al confine con gli Stati Uniti. L’altare papale era a 80 metri dalla barriera del confine: davanti al Papa c’era il Messico, accanto c’erano gli Stati Uniti. E la gente era raccolta lì, dietro la grata di divisione ad ascoltare la messa. Il muro è diventato un ponte simbolicamente superato.
Il Papa viaggia per toccare ferite e per porre la sua mano su quelle ferite, come Cristo ha messo la sua mano sulle ferite di allora. Questo è il senso profondo della diplomazia della misericordia. Il Papa ne ha parlato anche in termini di «accarezzare i conflitti». Torniamo alle parole di Omar Abboud: «Per accarezzare un conflitto bisogna avvicinarvisi, comprenderne le sfumature. La carezza non si dà a distanza, bisogna accostarsi alla realtà in lotta e mescolarvisi, toccarla. Ma non è una composizione semplice, richiede una notevole elevatezza spirituale. Bisogna lavorare per costruirla nel proprio intimo, soprattutto vincendo l’egoismo e molte passioni».
La traiettoria dei viaggi bergogliani segue le periferie perché queste sono il luogo delle ferite aperte. I viaggi apostolici permettono al Papa di compiere gesti di valore «terapeutico». Francesco non vuole fare un discorso generale e astratto valido sempre e comunque. Ha esplicitato l’importanza di «guarire» parlando al Congresso degli Stati Uniti: la nostra «dev’essere una risposta di speranza e di guarigione, di pace e di giustizia. Ci è chiesto di fare appello al coraggio e all’intelligenza per risolvere le molte crisi economiche e geopolitiche di oggi».
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Ci sono altri tratti comuni che ricorrono nei suoi viaggi: il suo scegliere come meta di pellegrinaggio le cosiddette chiese dello «zero virgola», ossia quelle comunità cristiane che appaiono poco significative, e che per lui oggi sono invece il sale della Chiesa, le sentinelle del suo futuro; l’attenzione alle culture native e ai movimenti popolari, che ha dimostrato anche usando di frequente nei suoi discorsi citazioni dalla letteratura e dalla sapienza popolare locale; l’insistenza sull’ecumenismo quotidiano e pratico della preghiera e della testimonianza cristiana comune, dell’impegno congiunto per i poveri, i rifugiati, gli scartati del mondo, nutrito dall’«ecumenismo del sangue» dei martiri, cristiani senza distinzioni; il suo costante desiderio di dialogo interreligioso e di fratellanza aldilà delle differenze, suggellato ad Abu Dhabi; la sua fermezza sui capisaldi del Vangelo di fronte a istituzioni e governanti, anche nelle situazioni più complesse e problematiche, ma sempre pensando che «mai nessuno è perduto».
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Il presente 25° volume della collana Accenti è l’ultimo che presento da direttore de La Civiltà Cattolica. E ho desiderato che fosse la raccolta delle cronache di viaggio di Francesco perché questa esperienza itinerante ha segnato profondamente il mio sguardo sul Pontificato, e dunque il mio lavoro giornalistico alla rivista.
Ho seguito Francesco in modi differenti. Il primo viaggio, quello in Brasile, l’ho fatto da solo, in totale autonomia, con mezzi miei. Non ho seguito il Papa in Terra Santa ed è stato in quel momento che ho capito che avrei dovuto. Ho sentito che seguirlo in contemporanea in diretta su due schermi – quello sintonizzato sul Centro televisivo vaticano e quello sulla Tv israeliana – non era sufficiente. In Corea sono andato «fuori volo» con l’equipe di RaiNews24, commentando costantemente – in diretta e in differita – gli eventi: ho dovuto superare la mia timidezza davanti alle telecamere, ed è stata un’esperienza di vita. Bellissime le dirette con lo «zainetto» e l’esperienza del live tweeting. Arrivavamo in sede prima e ripartivamo dopo il rientro del Papa. Successivamente mi sono imbarcato sul volo papale come giornalista, per la testata che dirigo. A partire dal viaggio in Georgia ho seguito Francesco come parte della delegazione vaticana. Ogni modo di seguire Francesco ha avuto la sua bellezza e il suo valore. Sulla rivista c’è stata sempre traccia di questa esperienza. Personalmente non ho seguito Francesco solamente in Terra Santa, come già ho detto, in Azerbaigian e in Svezia, perché impegnato nella Congregazione generale della Compagnia di Gesù. Altri gesuiti ne hanno scritto. Per motivi contingenti, invece, non abbiamo pubblicato le cronache relative ai viaggi in Bosnia e Albania. Per quanto riguarda la visita negli Stati Uniti e a Cuba, è stato deciso di accorpare la loro cronaca con quella della visita in Messico.
Affido queste pagine ai lettori come fosse un diario di viaggio. Il primo obiettivo delle nostre cronache è stato quello di raccontare i fatti e riportare le parole. Il commento è dato innanzitutto dalla prospettiva del racconto e dalle accentuazioni, in modo da non interferire troppo con la personale immaginazione capace di ricostruire le situazioni e immergersi nell’itinerario descritto. Buon viaggio!