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Il direttore di Civiltà Cattolica ha consegnato – nella sede dell’Associazione Stampa Estera – il premio nazionale “Liberi e forti”, alla sua prima edizione, alla memoria di Antonio Megalizzi, il giornalista ucciso dalla furia terrorista mentre passeggiava tra i mercatini di Natale a Strasburgo lo scorso dicembre. Pubblichiamo il testo dell’intervento di p. Antonio Spadaro durante la cerimonia di consegna del riconoscimento.
Oggi parliamo di uomini «liberi e forti», non di un’ideale o di una astrazione edificante, ma di un’esperienza umana. Parliamo di Antonio Megalizzi. Anzi non ne parliamo, ma celebriamo la sua vita ricordando la sua morte. Non ho mai incontrato Antonio, e tuttavia quando ho appreso la notizia della tragedia inaccettabile dei mercatini di Natale di Strasburgo, l’ho sentito vicino. Molto vicino, semplicemente come un eroe normale, «della porta accanto», come direbbe papa Francesco.
Io non sono nessuno per parlare di lui e forse neanche per celebrarlo. Ma quando mi è stato chiesto di essere qui oggi mi sono «tuffato» nel sì, senza neanche pensarci. Molti hanno apprezzato la voce e lo sguardo sul mondo di questo artigiano delle dirette radiofoniche.
Antonio ha espresso le sue energie come un ragazzo normale dai sogni grandi vissuti con normalità e senza sconti. E’ facile per un ragazzo di oggi identificarsi con lui, a patto che non si accetti di seguire ciò che leggiamo nel Gattopardo: «Viviamo in una realtà mobile alla quale cerchiamo di adattarci come le alghe si piegano sotto la spinta del mare».
Essere liberi e forti significa non adattarsi come le alghe al flusso delle onde. Significa stare dritti. E in piedi. Anzi: camminare diritti. Il cammino della sua vita ha portato Antonio a Bruxelles e Strasburgo, nel cuore delle istituzioni europee. «Antonio l’Europeo» è stato definito. Mi piace questa definizione perché qui per me è il nodo: siamo abitanti d’Europa ma ancora non siamo «cittadini europei», non ci sentiamo cittadini d’Europa. La differenza sta tutta qui. Antonio ce lo spiega col fatto di voler andare al cuore per raccontarlo via radio, con il suo lavoro per EuroPhonica, una radio in 5 lingue a cui collaborano decine di giovani.
Aveva detto: «Mi sono innamorato dell’Unione Europea. Sono molto, molto focalizzato e coinvolto in cose che stanno nascendo fortemente europeiste…l’idea è continuare a fare quello che faccio ora a Strasburgo ma in maniera continuativa, perché ancora non esiste un media service giovane che si occupi di Unione europea».
Ecco la battaglia semplice di Antonio: lottare per «cose che stanno nascendo fortemente europeiste». Antonio voleva fortemente recuperare l’effettività dell’essere cittadini della nostra Europa, fatta di gente, di popoli e non solo di soldi e Istituzioni. La trasformazione da abitante a cittadino: questa – per me almeno – è l’eredità di Antonio, cittadino europeo normale, consapevole della costruzione del nostro destino, consapevole del fatto che questo destino era anche nelle sue mani. La sua – da giornalista – era una forma dinamica e vitale di partecipazione. Solo una forma attiva di partecipazione ci salverà dal vedere l’Europa come una minaccia.
L’Europa di oggi non è affatto l’Europa perfetta, quella dei nostri sogni e dei sogni di Antonio. Non lo è. Ma l’Europa non è una «cosa», è un processo. Riflettendo sull’avvenire del nostro continente alcuni sembrano mettere in discussione non solamente l’Unione Europea come la conosciamo, ma persino l’esistenza stessa di un processo di costruzione dell’Europa. Come porsi davanti a queste tensioni frutto della sfiducia e di un sentimento nazionalista?
Torniamo con la nostra memoria ai «padri fondatori» dell’Europa: la loro decisione e il loro impegno riposa sulle loro rispettive esperienze. Al tempo dell’Armistizio di Compiègne del 1918 alcuni di loro avevano più o meno l’età di Antonio. Robert Schuman aveva 21 anni, Jean Monnet 30 anni. Anche Charles de Gaulle aveva 28 anni. Nel 1918 essi non si conoscevano, ma le vie tortuose della Storia li condussero, ciascuno per la loro parte, a contribuire a un progetto che permetteva di creare le condizioni di una società europea pacificata, sviluppata, giusta e solidale. Furono ben consapevoli che il loro contributo personale non sarebbe bastato a creare l’Unione nella sua forma definitiva, ma sapevano che stavano dando inizio a una costruzione alla quale ogni generazione futura – anche la nostra dunque – avrebbe dovuto portare il suo contributo ed esserne responsabile.
Ma sono ugualmente fondatori dell’Europa tutte le cittadine e tutti i cittadini che hanno resistito alle due grandi dittature del XX secolo, tanto all’ovest quanto all’est del continente, versando il loro sangue fino al dono della vita, affinché i valori che mettono la persona umana al centro del progetto sociale europeo fossero una realtà, tanto a livello nazionale quanto sovranazionale. Questi cittadini hanno superato le tensioni nazionaliste e totalitarie che hanno lacerato il tessuto del continente, e delle quali i sovranismi di oggi sono eredi. Grazie a loro, il «processo europeo» ci ha salvati dalla deriva. Nel 1928 a Londra don Sturzo già scriveva che nel lungo termine il diritto di guerra sarebbe stato abolito con il graduale abbattimento delle barriere economiche e politiche, barriere che sono sempre state causa di conflitti sanguinosi.
Ecco perché la costruzione della «casa comune europea» è necessaria. E ha bisogno di essere il risultato di cittadini forti della loro identità culturale, responsabili della propria comunità, e allo stesso tempo, consapevoli che la solidarietà con il resto dell’Europa è essenziale. E Antonio stava raccontando l’Europa e meritava di farlo.
Ma oggi sembra imporsi una narrativa della paura e del muro. Dovremmo allora costruire insieme una nuova narrativa, sì, certo, anche di paura: la paura della guerra. Non sappiamo più che cos’è la guerra. Non ne abbiamo più paura. Invece abbiamo la paura indotta che agita gli animi della gente con la proiezione di scenari inquietanti. La retorica politica sta sollecitando forze potenti, ma forse non ancora emerse dal profondo della società e dell’opinione pubblica. La mano che ci ha strappato Antonio è quella di un suo coetaneo, anche lui ucciso. La sua ferocia si specchia con un contrasto inaudito negli ideali di Antonio, rivelando un volto crudele. Dobbiamo vincere quest’odio. Dobbiamo debellare questa peste. Dobbiamo recuperare il senso di umanità che viene prima di ogni considerazione di ordine politico. Dobbiamo liberarci dalla colonizzazione ideologica delle nostre anime e dei nostri cervelli, quella che stiamo subendo, e che ci porta persino a vedere in un pover’uomo affogato innanzitutto un temibile invasore. Questa è colonizzazione ideologica della nostra umanità.
Torno adesso dalla Giornata Mondiale della Gioventù di Panama. Lì papa Francesco, parlando alle autorità civili e facendo riferimento al continente latinoamericano ha detto: «I nostri popoli sono capaci di creare, forgiare e soprattutto, sognare una patria grande che sappia e possa accogliere, rispettare e abbracciare la ricchezza multiculturale di ogni popolo e cultura». Io ho pensato alla nostra Europa. E ho pensato ad Antonio. Ho sentito il desiderio di una Europa più matura, terra che convoca all’incontro dei popoli e delle differenze.
La grande sfida consiste nel riconoscere che siamo dunque nel pieno di un lungo processo di costruzione dell’Europa. E sono i cittadini che devono poter essere messi nelle condizioni di prendere parte alle decisioni e di sentirsi protagonisti, soprattutto del miglioramento del processo europeo in atto.
Ma la cosa più importante è che oggi molti giovani non possono più pensare se stessi fuori dall’Europa e sono pronti a contrastare quelle che il nostro presidente Sergio Mattarella ha definito le «tendenze alla regressione della storia».
Ed ecco perché dando un premio ad Antonio Megalizzi, giornalista, noi prendiamo un impegno nel segno di don Luigi Sturzo che nel 1948 esprimeva la consapevolezza che l’Europa non si fa “sulla carta”, e che essa deve “nascere da interessi morali e materiali” secondo uno “sviluppo storico” al quale non è applicabile quello che lui chiamata lo “standardismo”. E proseguiva: «Quel che crea l’Europa non è una geografia vista su carte dai diversi colori, ma una tradizione e una storia, una cultura, un sistema economico».
La grande sfida oggi è quella di dare radici concrete ai sogni dei giovani. E quindi oggi premiamo Antonio perché ne sentiamo il bisogno. Noi riconosciamo nel suo impegno fresco, intelligente, normale e pionieristico l’intuizione di Sturzo. Premiamo dunque Antonio “per la sua dedizione all’ideale europeo, il suo impegno professionale, la sua fede democratica e civile in un mondo più unito e solidale”.
Lo premiamo perché abbiamo un disperato bisogno di giovani italiani così.