Ciascuna delle generazioni che si sono susseguite dal Secondo dopoguerra in poi nella nostra parte di mondo ha visto a un certo punto accendersi, più o meno a lungo, un riflettore dell’informazione sull’Afghanistan.
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Per i boomers, nati subito dopo la fine dell’ultimo conflitto mondiale, ma in piena «guerra fredda», l’Afghanistan è stato uno dei tanti campi della battaglia geopolitica tra i sovietici e gli statunitensi, che infine condusse nel 1973 alla caduta della monarchia di Zahir Shah. Un evento che tra l’altro spinse giovani studenti, intellettuali e scrittori a chiedere asilo in Pakistan, in Iran e poi anche in Occidente, producendo una diaspora culturale alla quale dobbiamo molto di quel che sappiamo oggi sul Paese. Per la «generazione X», l’Afghanistan è stato «il Vietnam dell’Unione Sovietica». L’Urss invase il Paese, preoccupata per la stabilità del suo confine meridionale, con un’operazione che doveva essere di breve periodo e che invece la vide per quasi 10 anni impantanata in una guerra con i jihadisti, appoggiati dagli Usa e dai loro alleati musulmani, i mujahidin. Fino al momento del definitivo e doloroso ritiro. Millennials e «generazione Z» hanno visto invece la prima inquietante ascesa al potere dei talebani e soprattutto lo scatenarsi in Afghanistan – rifugio di Osama bin Laden – della reazione degli Stati Uniti e dei Paesi della Nato, dopo l’attacco di al-Qaeda a New York e Washington. Infine, siamo ai giorni nostri, l’apparentemente repentino, imprevisto e drammatico ritorno dei talebani, dopo 20 anni di occupazione «occidentale» e una caotica ritirata.
Si è parlato subito – per noi era una tema già almeno dal 2004 – del fallimento dell’esportazione della democrazia. Una discussione oggi senz’altro più ricca di elementi rispetto a 20 anni fa, ma anche vagamente surreale. Perché è proprio quella democrazia d’esportazione che oggi sta vivendo un complicato processo di mutazione e transizione dagli esiti incerti.
Secondo alcuni analisti, nella storia bimillenaria del conflitto religioso e della molteplicità etnica del Paese, la riconquista dell’Afghanistan – un paese povero e senza sbocchi sul mare – da parte dei talebani e il ritiro americano altro non sono se non l’ennesimo episodio dello scontro ricorrente tra tradizione tribale e rurale, da un lato, e potenze metropolitane della modernità, dall’altro. Sicuramente rispetto allo scorso ventennio, gli avvenimenti afghani vedono ora più protagoniste le potenze limitrofe: Cina, Pakistan, Iran, Russia, Turchia. In particolare il gigante cinese di Xi Jinping appare pronto a riempire lo spazio che è stato lasciato libero.
Mentre ancora seguiamo le notizie della restaurazione talebana, del dramma di chi cerca di scappare dal Paese e della repressione delle manifestazioni di protesta di chi resta, con un forte ruolo simbolico delle donne, pensiamo dunque sia importante contribuire a mettere uno dopo l’altro alcuni passaggi significativi, e tirare su così un ponte ideale tra le generazioni. Per provare a capire meglio come si sia arrivati a ciò che vediamo accadere oggi, senza la pretesa di una rigorosa ricostruzione storica, mettiamo in fila alcuni articoli pubblicati nel tempo dalla nostra rivista.
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Nasce così il volume 17 della collana Accènti dedicato all’Afghanistan, che abbiamo organizzato in tre sezioni.
Nella prima sezione abbiamo raccolto tre contributi che ricomprendono tra la fine del 1979 e il 1988 l’evoluzione dell’invasione sovietica, con il peso e le conseguenze che essa ha avuto nel più ampio scenario internazionale della Guerra fredda. L’iniziativa dei russi ruppe una fase di equilibrio e di distensione internazionale che agli osservatori di allora appariva promettente. A margine dell’intervento in Afghanistan, uno dei nostri contributi rievoca tra l’altro le circostanze della condanna al confino dell’accademico Sakharov e l’impatto sulla Conferenza islamica di Islamabad. Alla fine Gorbaciov decise di liberarsi da questo peso insostenibile economicamente e politicamente. Seguendo un calendario preciso, studiato per un ritiro ordinato.
Nella seconda sezione, la più corposa, cerchiamo di dare conto di quello che è successo in Afghanistan e intorno all’Afghanistan negli ultimi 20 anni, partendo dall’attacco alle Torri Gemelle e al Pentagono dell’11 settembre 2001 fino ai fatti più recenti. La nostra rivista ha dato conto tra l’altro del dibattito politico sulla partecipazione italiana all’intervento NATO e della natura della missione militare italiana; ha analizzato negli anni gli esiti dell’intervento e le aspettative di «vittoria» nel più ampio contesto della lotta al terrorismo internazionale; ha osservato le ripercussioni sulle relazioni con e all’interno del mondo arabo musulmano. La sezione si conclude con due contributi molto recenti, che offrono un’analisi degli ultimi eventi sia da un punto di vista in qualche modo più vicino alla sensibilità russa, sia da quello della riflessione e dell’opinione pubblica statunitense.
Infine, nella terza sezione del volume, abbiamo desiderato offrire anche una prospettiva diversa da quella della cronaca e dell’analisi politica, e mostrare il volto dell’Afghanistan attraverso la letteratura, in particolare quella prodotta da autori emigrati all’estero dopo la caduta di Zahir Shah, e il cinema. Nell’arte si esprimono la sensibilità culturale e i valori di un popolo. E tuttavia siamo ben coscienti che il Paese – crogiolo di lingue, etnie e culture – è un mare profondo e inesplorato: autori più conosciuti rappresentano soltanto un’esigua minoranza che si è trovata nelle condizioni favorevoli per trovare un ampio ascolto e un adeguato riconoscimento.
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Consegnando nelle mani dei lettori questo volume sull’Afghanistan, sappiamo di farlo in un momento in cui l’attualità si fa bruciante. Presentiamo, secondo lo spirito della collana Accènti, riflessioni del passato e del presente con la speranza che aiutino ad amare quel Paese, e a comprendere meglio le grandi sfide del tempo presente nella speranza che, come ha detto papa Francesco, «possano tutti gli afghani, sia in patria, sia in transito, sia nei Paesi di accoglienza, vivere con dignità in pace in fraternità con i loro vicini».