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Il 14 maggio 2018 ricorreva l’anniversario della fondazione dello Stato di Israele, avvenuta nel 1948 in ottemperanza alla risoluzione delle Nazioni Unite del 29 novembre 1947. Essa stabiliva la nascita, nel territorio della Palestina, ex mandato inglese, di due Stati indipendenti e sovrani: quello ebraico e quello palestinese. Questa risoluzione, a causa dell’opposizione dei Paesi arabi alla cosiddetta «spartizione», non è stata mai attuata.
Nella ricorrenza di tale anniversario, il presidente Donald Trump ha voluto che avvenisse il trasferimento dell’ambasciata degli Stati Uniti – come aveva unilateralmente dichiarato il 6 dicembre 2017 – da Tel Aviv a Gerusalemme. Questa decisione, oltre ad avere un forte significato simbolico, ha anche una grande rilevanza politica, in quanto si oppone all’indirizzo finora seguito su questa delicata materia dalla gran parte della comunità internazionale, in ottemperanza alle varie risoluzioni delle Nazioni Unite, che per Gerusalemme Est intende mantenere per il momento lo status quo, in attesa di decisioni concordate.
Il Presidente ha parlato di un «passo necessario dovuto da tempo», che i suoi predecessori non avevano avuto il coraggio di fare. Di fatto, già nel 1995, durante la presidenza di Bill Clinton, il Congresso aveva riconosciuto Gerusalemme come «capitale di Israele». Al tempo stesso, esso dava mandato al Presidente di firmare una «sospensione» giuridica per mantenere l’ambasciata Usa a Tel Aviv.
La decisione di Trump, che pure ha ribadito l’impegno degli Stati Uniti a favore della soluzione dei due Stati e dei negoziati tra le parti, che sono chiamate a dirimere la questione dei confini della giurisdizione di Israele, introduce di fatto un riconoscimento delle decisioni israeliane sancite nella Basic Law del 1980, in contraddizione con la posizione delle Nazioni Unite in merito, che avevano disposto, in particolare, il ritiro di tutte le ambasciate dei vari Paesi da Gerusalemme.
Le vicende degli ultimi decenni dimostrano come il problema della «Città santa» e quello riguardante la soluzione del conflitto israelo-palestinese siano strettamente legati e interdipendenti, e questo fatto non può essere ignorato, né tantomeno sottovalutato.
Il passo di Trump di trasferire l’ambasciata, inoltre, ha avuto come risultato non voluto quello di sottoporre nuovamente all’interesse della comunità internazionale e dell’opinione pubblica il problema di Gerusalemme.
Ecco perché La Civiltà Cattolica pubblica adesso il secondo volume della collana «Accènti» su Gerusalemme, raccogliendo dall’archivio della rivista quindici saggi tra i tanti pubblicati nel tempo.
Il volume si compone di quattro parti.
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La prima parte si sofferma sulla Città santa, in tensione tra il suo possibile ruolo di capitale e quello di città aperta; e si apre con una riflessione su quale sia la posizione della Santa Sede su Gerusalemme, e come si sia sviluppata nel corso degli ultimi 100 anni. Per la Chiesa, nel secolo scorso sono rimasti costanti due problemi fondamentali: la protezione dei Luoghi Santi cristiani e il libero accesso a essi; e il benessere delle comunità cristiane di Gerusalemme. In tempi recenti, si sono aggiunte due ulteriori preoccupazioni: la promozione della giustizia e della pace e la crescita del dialogo interreligioso. La Santa Sede continua a lavorare instancabilmente per promuovere la sua visione di Gerusalemme come città di pace e luogo dove ebrei, musulmani e cristiani possano vivere insieme ed essere testimoni di un Dio che ama tutti.
Segue un saggio in cui si afferma che la decisione del presidente Trump di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele allontana la possibilità che abbia inizio in tempi brevi un processo di pacificazione tra israeliani e palestinesi, questioni che, come detto, sono legate e interdipendenti. Dello stesso autore è il terzo saggio, il quale afferma che Gerusalemme dovrebbe essere sottoposta a uno «statuto speciale», garantito sotto il profilo internazionale; inoltre, dovrebbe essere una «città aperta», il luogo della comunione e della pace, e non della discordia e della divisione.
Chiude questa prima parte un articolo che ricorda la presenza di un terzo attore nell’intricato rapporto tra israeliani e palestinesi per ciò che concerne la Terra Santa, e in particolare per lo status della città di Gerusalemme: la Giordania. Dal 1948, anno di nascita dello Stato di Israele, ad oggi, circa 2.200.000 palestinesi si sono riversati in Giordania. Il re Abdallah II anche di recente si è mosso per placare le tensioni e offrire vie d’uscita. Lo documenta il suo intervento al World Economic Forum di Davos alla fine di gennaio, in cui, riecheggiando le parole di papa Francesco, ha parlato di internazionalizzazione dei Luoghi Santi e di Gerusalemme capitale d’Israele e della Palestina.
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La seconda parte del volume è dedicata al contesto storico-politico. Si apre con un saggio del p. Antonio Messineo scritto nel 1951. Ci sembra importante riproporlo per dare voce a chi scriveva poco dopo il 9 dicembre 1949, quando l’Assemblea generale delle Nazioni Unite si pronunciava a gran maggioranza di voti a favore della risoluzione riguardante lo statuto speciale di Gerusalemme. L’autore del saggio – guardando con le lenti di allora – vedeva «nubi all’orizzonte ad attenuare gli entusiasmi», e di esse parla estesamente. Quindi evoca la formazione di un «blocco granitico» nella difesa dell’internazionalizzazione di Gerusalemme e dei suoi dintorni.
Seguono tre articoli più vicini all’attualità. Il primo, seguendo lo sviluppo storico-politico, mette a confronto alcune posizioni orientate a risolvere la difficile questione israeliano-palestinese. La soluzione bistatuale (due popoli, due Stati), a partire dalla fine della seconda guerra mondiale e dopo la Risoluzione Onu del 1947, è stata privilegiata dalla comunità internazionale e negli anni scorsi è stata posta come base di partenza nelle trattative tra le due parti. Il raggiungimento di tale obiettivo è ancora ufficialmente lo scopo principale delle politiche sia del Governo di Israele, sia dell’Autorità Nazionale Palestinese. Va ricordato però che la tesi monostatuale, sostenuta apertamente dai fondamentalisti islamici, in questi ultimi anni ha guadagnato terreno tra alcuni studiosi e osservatori, anche ebrei, della realtà mediorientale. In ogni caso, entrambe le soluzioni appaiono di difficile attuazione.
Quindi si affronta uno degli effetti più disastrosi prodotti dalla guerra arabo-israeliana del 1948-49 e che ha pesato moltissimo nelle trattative tra questi Paesi: il problema dei profughi palestinesi, i quali abbandonarono, alcuni volontariamente altri forzatamente, i loro villaggi o quartieri per sfuggire alla guerra e a volte anche ai massacri, rifugiandosi in Cisgiordania, oppure nei Paesi arabi limitrofi (Libano, Siria, Giordania ed Egitto). Tale «pulizia etnica», voluta e attuata dai vincitori per «liberare» il territorio, non fu mai riconosciuta in sede internazionale come tale, e tantomeno denunciata come crimine contro l’umanità. Eppure ancor oggi il problema dei profughi palestinesi pesa molto sulle trattative di pace e aspetta, con l’aiuto della comunità internazionale, una soluzione condivisa.
Si ricorda quindi la Guerra dei sei giorni del 1967, combattuta tra lo Stato di Israele e i Paesi arabi limitrofi (Egitto, Siria e Giordania). Questo evento è stato vissuto nell’immaginario del mondo arabo come una sconfitta non solo militare, ma anche politica e culturale. Fino all’affermarsi del cosiddetto «Stato Islamico» (2014), la lotta contro il nemico sionista è stata uno dei punti centrali dei programmi dei movimenti islamici radicali.
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La terza parte è dedicata alle visite dei Papi in Terra Santa. Si apre con un saggio che ricorda il viaggio di Paolo VI (4-6 gennaio 1964), facendo riferimento all’abbondante letteratura sulla materia e anche alla testimonianza di coloro che vi hanno partecipato. In particolare, si pone in evidenza il significato di tale viaggio nello sviluppo del dialogo tra la Chiesa cattolica e le Chiese ortodosse, nonché sulla ricaduta che ha avuto sul Concilio.
Segue – in due parti – un’ampia riflessione sul pellegrinaggio in Terra Santa compiuto da Giovanni Paolo II (20-26 marzo 2000). Cogliendo, anche simbolicamente, la rilevanza del pellegrinaggio, lo si ripercorre dalla visita al Monte Nebo fino a Betlemme. Poi, continuando il resoconto, si dà un’informazione dettagliata degli incontri di papa Wojtyla coi cristiani, col mondo politico e religioso dell’ebraismo, e con i capi religiosi musulmani a Gerusalemme. Particolare risalto è dato ad alcuni gesti significativi del Santo Padre, come le visite al Campo dei profughi palestinesi di Deheisheh, alla Memoria dell’Olocausto (Yad Vashem) e al Muro del Pianto.
Il terzo approfondimento è dedicato al «pellegrinaggio di pace» di Benedetto XVI (8-15 maggio 2009). Egli voleva manifestare ai cattolici la vicinanza di tutta la Chiesa e incoraggiarli a non cedere alla tentazione di emigrare in Occidente. Voleva poi chiarire la posizione della Chiesa sui problemi dell’antisemitismo, del negazionismo della Shoah, dei rapporti tra l’ebraismo e il cristianesimo e del dialogo tra cristiani, ebrei e musulmani. Particolarmente importante è stata la visita allo Yad Vashem. Alla comunità palestinese papa Ratzinger ha riconosciuto il diritto di avere, al pari degli ebrei, un proprio Stato entro confini chiari.
Infine si dà conto del viaggio di papa Francesco (24-26 maggio 2014) in occasione del 50° anniversario dell’abbraccio di Paolo VI con il Patriarca Athenagoras a Gerusalemme. Il Pontefice ha abbracciato il Patriarca ecumenico Bartolomeo e ha visitato i Luoghi Santi. Tutto il viaggio si è svolto all’insegna del ritorno alle origini del cristianesimo e della ricerca della pace in una regione travagliata da decenni di guerre e conflitti. Durante la sua visita, Francesco ha invitato il presidente israeliano Peres e il presidente palestinese Abbas per un incontro di preghiera per la pace da tenersi in Vaticano, che poi è effettivamente avvenuto l’8 giugno 2014, con una cerimonia di alto valore simbolico.
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La quarta parte del volume è un approfondimento storico e archeologico sulla città di Gerusalemme con due fuochi.
Il primo focus riguarda il Tempio di Gerusalemme, che è stato distrutto due volte: quello di Salomone da Nabucodònosor nel 587 a. C., e il secondo, ricostruito dopo l’esilio, da Tito nel 70 d. C. Nei Vangeli, Gesù ne annuncia la distruzione: in Giovanni in occasione della «purificazione» del Tempio, e nei Sinottici nel discorso apocalittico. Gesù si riferisce forse alla prima distruzione; ma quando i Vangeli furono redatti anche la seconda era già avvenuta, e i discepoli, che subivano le persecuzioni e avevano l’esperienza della Risurrezione, potevano comprendere in modo nuovo la profezia, vedendo in essa un annuncio misteriosamente salvifico.
Il secondo focus riguarda le chiese di epoca bizantina a Gerusalemme e a sud di Cafarnao. Esse sono state costruite sui luoghi che ricordano la vita di Gesù, la sua predicazione, i suoi miracoli e la sua morte e risurrezione. La «Sinagoga bianca», in particolare, contiene riferimenti al Tempio di Gerusalemme per le caratteristiche architettoniche che la contraddistinguono.
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Consegnando nelle mani dei lettori questo volume su Gerusalemme sappiamo di farlo in un momento in cui l’attualità si fa bruciante. A partire dagli ultimi avvenimenti, presentiamo riflessioni del recente passato con la speranza che aiutino ad amare la Città santa, a pensarla come «città aperta» e a comprendere meglio le grandi sfide del tempo presente nella speranza che, come ha detto papa Francesco in un appello del 6 dicembre 2017, «prevalgano saggezza e prudenza, per evitare di aggiungere nuovi elementi di tensione in un panorama mondiale già convulso e segnato da tanti e crudeli conflitti».