Candidato agli Oscar 2026 come miglior film straniero per la Giordania, Tutto quello che resta di te, di Cherien Dabis, racconta la Palestina attraverso la storia di una famiglia in tre generazioni, dal 1948 al 2021.
È il 1988 quando Noor, un giovane ragazzo palestinese, si aggrega a un gruppo di manifestanti della Cisgiordania occupata e muore, colpito dalla polizia israeliana. Ma la storia di questo ragazzo ce la racconta la madre, Hanan (interpretata da Dabis), nel 2021 a Gerusalemme, parlando con un interlocutore ignoto, la cui identità si svelerà solo alla fine del film. Lo fa guardando dritto in camera, in un primo piano dove ci sono lei e noi. Per conoscere il figlio – dice –, deve raccontarci chi era il nonno, Sharif. Così si torna indietro nel tempo, a Jaffa, nella bellissima casa della famiglia di Sharif; lui è un uomo colto, affascinante, un dolce padre di famiglia, che ama a dismisura due cose: la poesia e il profumo delle arance del suo giardino.
È il 1948, la nakba è alle porte, i bombardamenti si intensificano, e la famiglia è costretta alla fuga. Solo Sharif resta per custodire il suo giardino; e come risuonano, nella sua scelta, le parole di Nabot: «Mi guardi il Signore dal cederti l’eredità dei miei padri» (1 Re 21,3)! Tuttavia egli perde tutto: le violenze a cui è costretto lo trasformano in un corpo senza forze, svuotato di vita e dignità. Eppure, quando tutto sembra perduto, riesce a ricongiungersi con la sua famiglia. Da qui si apre il secondo capitolo che narra la storia di uno dei figli di Sharif, Salim, che col padre condivide l’amore per la poesia. Salim, con la sua famiglia e il padre, vive nella Cisgiordania occupata e lavora come maestro di scuola, educando allo stupore e al rispetto.
Ancora una volta, il conflitto entra nella vita della famiglia: è il 1978 quando Salim è costretto dai soldati israeliani a umiliarsi. La scena si svolge davanti agli occhi pieni di risentimento del figlio Noor. Le ferite che questa politica infligge al popolo palestinese, le più sanguinolente, sono quelle invisibili, che si aprono nell’animo delle persone. Da quel momento il rapporto con il figlio cambia: uno non riconosce più l’altro, non esiste più dialogo, tra i due si gonfia solo un silenzio stordente. La ferita del cuore, dei sentimenti non smette mai di sanguinare, è un dolore pervasivo e lacerante. È Noor infatti che, assistendo a tutto ciò che prima il nonno e poi il padre hanno perso, ciò che è stato loro tolto senza dignità e possibilità di rivalsa, sente il bisogno di prendere parte alle proteste, per chiedere la libertà di vivere, di studiare, di passeggiare, di decidere per la propria vita da sé. Si arriva allora alla morte di Noor, e le vicende che seguono, che coinvolgono soprattutto i genitori, Salim e Hanan, commuovono e interrogano nel profondo. La lotta interiore a cui essi sono chiamati a dar pace si risolve in un dialogo commovente con l’imam, il quale, nel momento in cui dolore e frustrazione prendono il sopravvento, ricorda loro di scegliere la via della speranza, seminando umanità.
Questa pellicola ha il merito di scuotere gli animi, toccando il quotidiano, facendoci entrare nel calore della famiglia. Il profumo delle arance, la poesia, il gioco, la scuola, la memoria e l’identità, il bisogno di mantenersi integri e vicini a Dio, tutto questo viene toccato, perso, cercato, messo in discussione. Cosa sarebbe la nostra vita, svuotata di questo? Il titolo è eloquente: «Cosa resta di te?», che potrebbe trasformarsi in «Cosa resta in te?». Chiederselo oggi fa ancora più male. I palestinesi, infatti, sono «derubati del diritto alla complessità, ai sentimenti contraddittori, del diritto di “contenere moltitudini”» (M. El-Kurd, Vittime perfette e la politica del gradimento, Roma, Fandango Libri, 2025, p. 84). Alla sofferenza dello spettatore, che si accorge di essere in un eterno presente, dà sostegno la poesia, che mai abbandona il film, come un testamento, una meditazione che possa toccare i cuori di ognuno: Io sono il mare / Nei miei abissi giacciono tesori / Chi ha chiesto ai sommozzatori delle mie perle / Guai a voi! Io perisco e con me svanisce la mia / Bellezza, ma la vostra cura è la mia medicina / Non mi dimenticate con lo scorrere del tempo / Poiché temo che questo condurrà alla mia rovina (Muhammad Hafiz Ibrahim).