
Come reagire di fronte a una sofferenza che si manifesta con violenza? Come accostarsi a una donna che trasforma ogni incontro in una battaglia, spinta da un’aggressività apparentemente inspiegabile?
In Scomode verità (Hard Truth), Mike Leigh ci mette di fronte a un enigma umano che disarma e scuote. Il regista britannico, già autore di opere amate da pubblico e critica, come Segreti e bugie (Secrets and Lies, Palma d’Oro a Cannes 1996), La felicità porta fortuna (Happy-Go-Lucky, 2008) e Another Year (2010), torna a ritrarre con sguardo lucido – allo stesso tempo delicato e disincantato – le pieghe più intime dell’animo umano, scandagliando la semplice (e mai banale) quotidianità di uomini e donne di oggi.
Protagonista del film è Pansy, una donna inglese di origini africane, animata da una rabbia incontenibile, che esplode su chiunque incroci il suo cammino: il marito Curtley, il figlio Moses, i passanti, i commessi, i volontari, perfino i medici. Tutto è pretesto per scariche furibonde di collera: commessi troppo sorridenti, padroni di cani troppo ben vestiti, volontari alla ricerca di fondi per attività di beneficenza. A fare da contraltare al suo furore è la sorella Chantelle, dolce e paziente, che continua ad amarla senza riuscire davvero a comprenderla.
Il film rifiuta facili etichette psicologiche. Non offre spiegazioni né diagnosi per la misantropia di Pansy. Se accenna a un complesso rapporto con la madre scomparsa, la sua sofferenza rimane comunque inaccessibile, opaca, sigillata. Leigh non cerca risposte, ma invita lo spettatore a sostare alla soglia dell’inesplicabile dolore della protagonista. Questa chiusura dolorosa è suggerita anche attraverso la messa in scena. Il film è girato per lo più in interni; le pareti della sua casa in alcuni istanti diventano delle mura non oltrepassabili, una prigione-riparo dal mondo esterno. Anche un’innocua volpe nel piccolo giardino di casa sembra una minaccia. Allo stesso tempo, è centrale nella narrazione del film una scena girata all’aria aperta.La visita delle due sorelle al cimitero offre un momento di luminosa tenerezza davanti alla tomba della madre. È un frammento di pace che, pur nella sua brevità, lascia intravedere una possibilità di luce nella buia sofferenza della protagonista.
L’intensità emotiva del film è amplificata dalla recitazione degli attori, in particolare dall’interpretazione straordinaria di Marianne Jean-Baptiste, che torna a lavorare con Leigh trent’anni dopo Segreti e bugie. Come da tradizione del regista, la sceneggiatura nasce da un lungo lavoro collettivo. Gli attori, accompagnati da Leigh, attingono alle proprie esperienze per tratteggiare tipologie umane a partire dal vissuto personale. Il frutto è una narrazione autentica, uno spaccato di umanità ricco e variegato, non privo di momenti di comicità.
Il grande uso di primi e primissimi piani valorizza la recitazione degli attori e mette in risalto la forza espressiva dei volti. In essi Leigh lascia esplodere – come in un’epifania – il sacro, il mistero di un’umanità sofferente. D’altra parte, non mancano, come in altri suoi film, squarci di gioiosa quotidianità: i momenti di spensieratezza tra Chantelle e le sue figlie portano leggerezza, regalano respiro alla narrazione e ricordano che la vita può essere semplice, affettuosa, persino allegra.
Scomode verità non fornisce spiegazioni psicologiche, possibili soluzioni o facili redenzioni. Piuttosto semina interrogativi. E tuttavia, proprio per questo, invita a un esercizio fondamentale: affinare lo sguardo, imparare a riconoscere la sofferenza che si cela dietro comportamenti a prima vista ingiustificabili o intollerabili. Forse nessuno dei personaggi «si salva». Ma lo spettatore, uscendo dalla sala, si ritrova più consapevole del dolore che abita il mondo. E forse un po’ più capace di compassione. Perché il film – senza proclami, senza retorica, senza analisi – è, in fondo, un potente appello all’empatia. Un invito a vedere, e ad accogliere, anche l’umanità che fatichiamo ad amare.