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Attualità culturale

Nello specchio di Narciso. Il ritratto dell’artista. Il volto, la maschera, il selfie

Museo Civico San Domenico, Forlì, dal 23 febbraio al 29 giugno 2025.

Lucia Giomo

30 Aprile 2025

Quaderno 4193

L’ex convento domenicano di Forlì, oggi complesso museale, ospita questo «saggio di immagini» attorno al ruolo dell’autoritratto nella poetica degli artisti dall’Antichità fino ai giorni nostri. La mostra, a cura di Cristina Acidini, Fernando Mazzocca, Francesco Parisi e Paola Refice, si apre nell’arioso spazio della chiesa di San Giacomo, dove prende forma e colore il mito di Narciso. Dai dipinti murali di Pompei a Tintoretto, questa figura narrata nelle Metamorfosi di Ovidio continua ancora oggi a interrogare l’uomo sulla conoscenza di sé. Emblematico il bellissimo Narciso in marmo di Ernest-Eugène Hiolle (1868), proveniente dal Musée des Beaux-Arts di Valenciennes, scolpito nell’attimo prima di entrare nello specchio d’acqua. Proteso in avanti e completamente assorto ad ammirare quella che è la propria immagine, sembra indurre lo spettatore a cadere nella stessa illusione.

La finzione del volto si incontra poi anche con le maschere del teatro greco usate per rappresentare i vari tipi di personaggio, in latino persona, perché dotate di una apertura sulla bocca che fa risuonare, per-sonare, le parole degli attori. Accanto ad esse, alcuni esemplari di antichi specchi, dapprima solo oggetti strumentali su cui si riflette il volto, poi simbolo delle allegorie nel Rinascimento: Prudentia e Vanitas. Un esempio magistrale della prima virtù è sicuramente l’olio su tavola di Girolamo Macchietti (terzo quarto del XVI secolo), in cui una donna si sta scrutando allo specchio e dalla nuca sembra fuoriuscire un’ulteriore testa che si guarda alle spalle, come per ponderare una scelta cauta e assennata. La Vanitas del Maestro del lume di candela (1630 – 1635) invece induce alla riflessione lo spettatore indicando il teschio e pone davanti uno specchio scuro, nel quale si vede solo il riflesso della fioca fiamma della lampada e che, non a caso, poggia su una clessidra e sui volumi ormai chiusi, segno dell’effimerità della bellezza.

Il tema dello specchio torna poi «ad acquistar nome» agli artisti che nel XV secolo iniziano ad autorappresentarsi nelle scene collettive, come nella bellissima Presentazione di Gesù al Tempio di Giovanni Bellini (circa 1475), dove lui stesso è tra i protagonisti e guarda verso lo spettatore. Il Cinquecento decreta l’autoritratto come genere a sé stante: basti osservare il Doppio ritratto (1523-1524) di Pontormo e l’Autoritratto alla spinetta (1555 circa) di Sofonisba Anguissola, che con orgoglio e fierezza fissa lo sguardo.

I volti diventano nuovamente maschere alla fine del Seicento, l’epoca delle corti, in cui persona sta a indicare nuovamente «personaggio», dramatis persona. «Nel gran teatro del mondo» anche gli artisti recitano con il proprio volto, come testimonia Salvator Rosa nel suo Autoritratto in veste di guerriero (1642 circa), dove l’autore, anziché sguainare un pennello, sta estraendo dal fodero una spada, come per sfidare a duello chi lo sta osservando. Ma la grande domanda del «chi sono io?» non viene di certo elusa. Il viennese Johannes Gumpp ce lo dimostra nel suo Autoritratto allo specchio (1646), dove si ritrae in piedi di spalle mentre dipinge il suo volto riflesso nello specchio e di nuovo il suo volto dipinto sulla tela, in una sorta di «sdoppiamento».

Il XVIII secolo vede il confronto tra il bello ideale, i cui grandi protagonisti presenti nella mostra sono Canova e Thorvaldsen, dove si ricerca una forma perfetta e l’autocelebrazione, e il sentimento del sublime, l’irrompere della realtà della storia, in un continuo dissidio tra ragione e sentimento, che si rispecchiano nel titolo di questa sezione «L’autoritratto indeciso».

Tra la fine del Settecento e i primi dell’Ottocento, il nuovo clima romantico pone l’accento sulla condizione esistenziale dell’artista e sul suo ruolo in una società in cambiamento, mettendo a nudo la dimensione più intima, soprattutto a fine secolo. Il sorridente Autoritratto (1878) di Antonio Mancini a un primo sguardo potrebbe immortalare un momento spensierato invece mostra la malattia che affligge l’animo dell’artista.

Si giunge poi al Novecento, in cui l’io diviso, fatto a pezzi degli artisti, che cercano di farsi conoscere e di conoscersi in un quasi ossessivo studio di sé, è specchio degli sconvolgimenti bellici in corso. Esemplari l’Autosmorfia (1900) molto estroversa di Giacomo Balla, scelta anche come immagine coordinata della mostra, e l’Autoritratto nudo (1945) di De Chirico dove si vede l’uomo spogliato di tutto, nudo appunto, quasi «troppo umano».

La mostra si conclude con i volti e gli sguardi di artisti contemporanei quali Bill Viola, Michelangelo Pistoletto, Marina Abramović, che mostrano approcci diversi nella ricerca delle possibili espressioni umane.

L’esposizione si presenta quindi come un «compendio» che indaga cosa ha significato per gli artisti di ogni epoca raffigurare il proprio volto, sapendo coglierne l’essenza, l’immagine che l’artista ha di sé, del proprio ruolo sociale, della propria visione del mondo e come vuole essere visto dagli altri. Anche se la molteplicità di così tante opere può risultare eccessiva e manca un vero e proprio approfondimento sul selfie contemporaneo – citato nel titolo della mostra, ma di fatto rappresentato solamente dalla fotografia di Chuck Close, Autoritratto (1987) –, la mostra accompagna il visitatore in un viaggio introspettivo, alla scoperta delle «tante maschere e pochi volti» che si incontrano lungo il tragitto della vita.

Nello specchio di Narciso. Il ritratto dell’artista. Il volto, la maschera, il selfie

Lucia Giomo

Collaboratrice per i contenuti culturali


30 Aprile 2025

Quaderno 4193

  • Anno 2025
  • Volume II

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