
REGNO UNITO, STATI UNITI, AUSTRALIA, SINGAPORE, UNGHERIA, 2023.
Seconda guerra mondiale: la giovane fotoreporter angloamericana Lee Miller (Kate Winslet) si muove tra i soldati alleati durante un bombardamento e raffiche di mitra. Immagini limacciose e livide danno agli spettatori la sensazione di essere corpi estranei in mezzo al conflitto, esattamente come Lee, che cerca di fotografare – in equilibrio precario – uno stivale insanguinato…
La donna indossa un elmetto e si muove impacciata e a fatica tra fumo, bombe e morte. Un’esplosione improvvisa sospende il tempo e il luogo; Lee è spinta a terra in una nebbia indefinibile, da cui emerge il titolo del film.
In un flashforward, un salto temporale «in avanti»: ritroviamo Lee, anziana, in Inghilterra nel 1977. La donna dialoga con un giornalista (Josh O’Connor; ma solo alla fine del film si capirà esattamente chi è l’uomo che la intervista). Racconta al reporter il suo passato felice e luminoso prima della guerra, in Francia, con gli amici intellettuali e artisti, quando era ancora una fotomodella anticonformista, libera e fuori dagli schemi. Frequentava gli artisti bohemien Solange d’Ayen (Marion Cotillard) e il compagno Jean (Patrick Mille), il grande poeta Paul éluard (Vincent Colombe) e la moglie, Nusch éluard (Noémie Merlant), artista e modella. Un giorno, al gruppo si aggiunge il noto artista surrealista Roland Penrose (Alexander Skarsgård). L’uomo e Lee si innamorano l’uno dell’altra fin dal primo sguardo. Roland convincerà Lee ad andare con lui a Londra.
Quando esplode la Seconda guerra mondiale, lei vuole partire per il fronte come fotoreporter. Realizzerà alcuni degli scatti che hanno «fatto» la storia. Le foto di Lee Miller dai campi di sterminio, dalla Germania e dall’Europa dell’Est si riveleranno tra le prime e più sconvolgenti a documentare – in diretta – la tragedia della Shoah.
In un’epoca in cui la guerra, per quanto «distante», è tragicamente parte della nostra quotidianità, il film di Kuras è un potente promemoria visivo, appassionato e sentito, che invita lo spettatore a una riscoperta etica dell’immagine di realtà. Susan Sontag, in Davanti al dolore degli altri (Milano, Mondadori, 2003), osservava, oltre vent’anni fa: «La guerra è ormai parte di ciò che vediamo e sentiamo in ogni casa» (p. 15). Forse oggi siamo diventati perfino più assuefatti e indifferenti alle immagini di morte.
Il film di Kuras è tratto liberamente dal libro biografico Le molte vite di Lee Miller (Roma, Contrastobooks, 2022), scritto da Antony Penrose, figlio della fotografa. Talvolta esso può essere in parte didascalico nelle descrizioni – con voce fuori campo – di alcune fasi della vita della fotografa, ma è estremamente suggestivo e pudico nel ricostruire i singoli scatti fotografici della celebre fotoreporter. La donna fu tra le prime persone a fotografare gli innumerevoli cadaveri e i (pochi) sopravvissuti alla Shoah. Fu la prima a raccontare per immagini l’«inimmaginabile». Lee pare soffrire «con» ogni soggetto – morto, ferito, sopravvissuto, mutilato –, che fissa nel tempo. Ogni suo scatto sembra riverberare quel «soffrire con», «non restare indifferenti a» che oggi sembra perduto nell’epoca delle fotocamere digitali. Sembra aver interiorizzato l’insegnamento che proprio Sontag avrebbe messo a fuoco a parole molti anni dopo: «Non si dovrebbe mai dare un “noi” per scontato quando si tratta di guardare il dolore degli altri» (p. 6).
C’è una sola fotografia, fra le tante scattate, ricostruite, reimmaginate dal film di Kuras, in cui Lee è beffarda, irridente, quasi punk ante litteram. È lo scatto realizzato dall’amico e collega ebreo David «Davy» Scherman (Andy Samberg), in cui la donna si mette «in scena» senza veli mentre si concede un bagno caldo nello studio privato di Hitler, con tanto di foto del Führer in bella vista a bordo vasca. Lo sguardo oltre la macchina è provocatorio, in parte rassegnato, in parte illuminato da una folle quanto improbabile rivalsa… Dopo quella fotografia Davy crolla in lacrime fra le braccia di Lee.
La regista riesce a «far parlare» molte inquadrature senza parole, evocando e tratteggiando appena il contesto di ogni frammento fotografico realmente esistito. Straordinarie la mimesi e la capacità di Kate Winslet di dare corpo alle molte sfumature di Lee, a volte con un semplice sguardo. Per dirla ancora con Sontag: «Guardate, dicono le fotografie, questo è ciò che succede. Questo fa la guerra… La guerra squarcia, sventra. La guerra brucia. La guerra squarta. La guerra rovina» (p. 7).