
Il 22 gennaio 2014, all’età di 57 anni, ci lasciava Carlo Mazzacurati, indimenticato autore di alcuni dei film più poetici del cinema italiano, nonché acuto osservatore dei cambiamenti sociali che hanno ridisegnato il paesaggio del nostro Paese negli ultimi decenni. A 11 anni dalla scomparsa, è stato distribuito presso le sale cinematografiche italiane il film documentario Carlo Mazzacurati. Una certa idea di cinema, diretto da Mario Canale ed Enzo Monteleone.
Il docufilm, che era già stato presentato nel corso del 2024 sia alla 81a edizione della Biennale di Venezia – nella sezione «Classici» – sia alla 17a edizione del Festival del Cinema Italiano di Madrid, si sviluppa a partire dall’intervista rilasciata nel 1999 dallo stesso Mazzacurati a Mario Canale, in occasione dell’uscita del film La lingua del santo.
Il regista si concede alla telecamera di Canale sullo sfondo di Prato della Valle, in una digressione che tocca le vicende biografiche e artistiche più importanti, dal legame con la città natale – Padova – alle scelte stilistiche, attraverso gli incontri e gli eventi che hanno costruito l’immaginario interiore del regista. Intorno all’intervista si avvicendano i ricordi degli attori e delle attrici che Mazzacurati ha diretto, dall’esordio avvenuto nel 1987 con Notte italiana fino al suo ultimo lavoro, La sedia della felicità, del 2013, e non ultime alcune testimonianze d’eccezione, come quella di Nanni Moretti, con il quale il regista aveva collaborato in veste di attore in film come Palombella rossa (1989) e Il caimano (2006), e Marco Paolini, con il quale Mazzacurati aveva lavorato nel 1999 al film Ritratti. Mario Rigoni Stern.
Il pregio principale del documentario è quello di restituire la grande sensibilità di un autore la cui «idea di cinema» si è espressa nella valorizzazione, non solo estetica, di quelle «periferie esistenziali», soprattutto del nord-est italiano, che sono sopravvissute al turbine della post-modernità. Mazzacurati, infatti, si esprime così: «Io ho una certa predilezione per chi osserva il mondo da un’angolatura provinciale; le province sono una specie di luogo unico, è un modo di stare al mondo. […] Non riuscivo a immaginarmi adulto, a fare, come dire, quello che mediamente avrebbero fatto i miei coetanei. Non sapevo come, ma speravo appunto che la salvezza fosse dentro le storie».
I personaggi tratteggiati dal regista sono degli antieroi, che si muovono – in modo goffo e rocambolesco – ai margini della società, spesso in cerca di un riscatto. Per la sua vena malinconica e per l’attenzione ai nuovi emarginati, il cinema di Mazzacurati ricorda, in tal senso, quello di Ermanno Olmi: in entrambi, è il mondo elegiaco e rurale a rappresentare il contraltare – forse idealizzato, ma in qualche modo salvifico – alle convenzioni e ai codici morali di una civiltà, quella del benessere, che per certi aspetti ha perduto sé stessa.
Non è un caso che una delle possibili chiavi interpretative della sua «idea di cinema» sia nascosta tra i fotogrammi di quello che è stato il suo penultimo film, La Passione (2010), una pellicola corale intrisa di ironia e umanità, e che può essere considerata la summa – metacinematografica – della sua opera. La «Passione», nel film, è quella che un regista in crisi (Silvio Orlando) è chiamato a mettere in scena la sera del Venerdì Santo in un borgo della provincia toscana: il tono, insieme lirico e tragicomico, sfuma continuamente tutti i confini, fino a risolversi nel significato più vero dell’incarnazione. Figuranti e personaggi evangelici, infatti, sono pressoché indistinguibili, nell’unica rappresentazione sacra, che è quella del mistero, solenne e insieme umile, dell’esistenza umana, in cui ogni «povero Cristo» alla fine può riconoscersi. Durante la sequenza dell’Ultima Cena, il regista Gianni Dubois (Orlando) prova a rassicurare Ramiro/Gesù (Giuseppe Battiston), deriso dal pubblico, eppure finalmente al suo posto, nella finzione come nella vita: «Sei stupendo, sei un Cristo perfetto: sei povero, sei ricercato, tutti ridono di te».