
La mostra Caravaggio 2025, a cura di F. Cappelletti, M. C. Terzaghi e T. C. Salomon, si presenta al pubblico con fare giubilare: una nuova occasione, a 74 anni dalla prima storica esibizione, a cura di R. Longhi, per scoprire Caravaggio.
Quattro sono le sale allestite con le opere realizzate negli ultimi 15 anni di vita del pittore, dall’arrivo a Roma nel 1595 alla sua morte nel 1610. La fama di Caravaggio valica qualsiasi confine geografico, proprio come le sue opere, sparse per i musei del mondo: ecco dunque l’occasione per vedere riuniti alcuni capolavori. Tre opere però definiscono l’unicità di questo evento: il Ritratto di Maffeo Barberini, mai esposto al pubblico; l’Ecce Homo, di recente scoperta; e la prima versione della Conversione di Saulo, di collezione privata.
Il percorso espositivo segue le orme dell’artista tra Roma, Napoli e Malta. Le opere sembrano fare il corso della sua vita: dalle prime vivide e tattili si giunge alle ultime, che portano le ferite del tempo e sembrano avvolte da un malinconico sentore di caducità, luttuose per la morte dell’artista che le ha create.
Caravaggio ha dipinto il sacro, o meglio, ha reso sacro anche ciò che non lo era. Pittore della Controriforma, incredibile visionario per la sua epoca, ha incarnato, secondo un suo stile, alcuni dettami della Chiesa, senza mai utilizzare un linguaggio politicamente corretto. La sua è un’epoca di cambiamento radicale in cui le realtà antitetiche iniziano a mescolarsi: scienza e fede, corpo e anima; l’orizzontale diventa davvero la base su cui si innalza il verticale. Il desiderio dell’artista è di unire cielo e terra, di rendere anzi il cielo in terra e di dare alla corporeità la luce del trascendente. La realtà immanente, che è la quotidianità da lui vissuta, è lo spazio nel quale egli rappresenta la presenza di Dio.
Forma e superficie sono due aspetti essenziali nella sua pittura. La forma è sempre simbolica; di ogni gesto e parte del corpo la disposizione non è mai casuale; ci sono sempre corpi che si aprono o si chiudono, che si fermano o si muovono, che ti guardano o rifuggono. Le sue sono immagini fisiche, e spesso sensuali, capaci tuttavia di condurre a una realtà di visione. L’incontro di Caravaggio con Dio è sempre intimo, passa per il corpo, poi per la luce.
Il secondo aspetto, quello della superficie, riguarda proprio quest’ultimo espediente: come la luce tocca e trasforma le cose. Non si assiste mai a un disciogliersi delle forme; al contrario, è luce che riempie, di sostanza ed essenza.
Lasciandosi coinvolgere dalla forma e dalla luce delle opere presenti, ci si può soffermare sulla Conversione di Saulo nella sua prima versione rifiutata, a cui fece seguito la seconda conservata in Santa Maria del Popolo a Roma, il confronto con la quale sarebbe d’obbligo. La scena è ricca, concitata e non poco violenta: Saulo è a terra, illuminato ma cadaverico, ritratto indifeso e in difesa da Dio. Il desiderio di Dio di toccare Saulo è commovente, ma qui è ancora lontano dal ritrarre quell’unione sacrale e carnale, quel boato di silenzio e cecità nel quale si respira tuttavia la salvezza.
Magnetico è poi lo sguardo dei Musicisti: occhi languidi, spalle scoperte, bocche socchiuse raccontano di una pausa, un’aria ferma nella quale accade qualcosa. C’è una tensione struggente, come quella che si ritrova nella Cattura di Cristo, dove lo sguardo che Cristo nega a Giuda è violento come il grido che l’apostolo innalza esattamente alle spalle di Gesù. In ogni volto si cela un interrogativo ricco di senso, la cui risposta viene svelata in un’altra opera, quella in cui Maria mostra a Marta la luce con l’ausilio di uno specchio: si vede l’origine e il suo riflesso. Guardarsi allo specchio per guardarsi dentro e trovare la luce. Cosa, come, dove ci tocca quella luce? Cosa rovescia lo specchio? Negli occhi di chi mi ri-specchio? E sotto quale luce?
Caravaggio quindi sconvolge, travolge e interroga ancora con forme, colori, gesti che non mancano di turbare, eppure è capace di lasciare spazio alla speranza, in quella luce che pervade, consola e dona pace.