
Adolescence, già ribattezzata da molti «la serie dell’anno», diretta da Philip Barantini, scritta da Jack Thorne e Stephen Graham – che interpreta il padre del protagonista, Jamie Miller (Owen Cooper) –, sin dal suo ingresso sulla piattaforma Netflix è balzata al primo posto delle classifiche e diventata oggetto di un acceso dibattito. Ogni episodio è autoconclusivo, girato in un unico piano-sequenza, senza stacchi della «camera», con dialoghi asciuttissimi, attori bravi.
Tutto accade dentro la macchina da presa che incolla alla storia, al contesto sociale, ai personaggi. Il tredicenne Jamie, dall’aria mite e innocente, con una famiglia «normale», viene prelevato dalla polizia e in una manciata di minuti arrestato, perché sospettato dell’omicidio cruento della sua compagna di liceo, Katie. Una fitta rete di relazioni e una location diversa, che individua un microcosmo sociale e/o psicologico, per ciascuno dei quattro episodi: la stazione di polizia; la scuola; la psicologa; la giornata della famiglia Miller un anno dopo, in occasione del compleanno di Eddie, il padre di Jamie.
Ogni quadro racchiude i temi della miniserie: l’impatto dei social media, dell’odio online sui giovani, in particolare per quanto riguarda le ideologie misogine, l’inadeguatezza di una scuola che sembra un’area di contenimento più che un luogo di formazione, il silenzio dei genitori che, per quanto buoni e affettuosi, sono inconsapevoli del malessere che cresce nel figlio. Essi lo credono al sicuro quando è a casa chiuso in camera sua; ma non è per strada il pericolo: oggi il pericolo è rappresentato dalla solitudine davanti allo schermo.
Adolescence non fa sconti alla nostra società, dove le ideologie misogine online prosperano, con la «manosfera», gli «incel» – i celibi involontari –, secondo i quali la colpa è tutta delle donne, che per l’80% sarebbero attratte dal 20% degli uomini. Il film sottolinea l’isolamento degli adolescenti di fronte alla tecnologia ed evidenzia, infine, il cyberbullismo, che sfugge totalmente al mondo degli adulti.
Il cuore del problema? La notte dell’anima: la rabbia repressa. Quella del protagonista, e soprattutto quella del suo «idolo», come Manda (la madre di Jamie) dice al marito nell’ultimo episodio, riferendosi a Jamie: «Tu sei il suo idolo». Ma il padre non riesce nemmeno a guardare il figlio quando gioca a calcio, perché troppo «scarso», e questo Jamie lo sa. È consapevole di non «essere abbastanza» per suo padre, per i compagni di scuola, per le ragazze. Eddie è il maschio di riferimento in tutto, anche nella sua incapacità di gestione delle emozioni, in particolare la frustrazione.
Nel quarto episodio, le donne riescono a spostarsi dal proprio centro e a dialogare con un Jamie cambiato, che intende dichiararsi colpevole dell’omicidio di Katie. Egli ha fatto un viaggio dentro di sé, come la madre e la sorella, che hanno trovato un modo per andare avanti rispetto all’«onta sociale». Ma il padre no. Muto, non riesce a uscire da sé stesso e dalla sua rabbia ed esplode in pubblico davanti a loro. Quando alla fine madre e padre si confrontano su cosa hanno sbagliato, cosa è successo al loro bambino innocente, perduto, il padre dice a lei: «Se ci fossi stata tu alla stazione di polizia con lui, sarebbe andata meglio». E lei risponde: «No!». Mente per salvarlo, sollevandolo allo stesso tempo dalle sue responsabilità.
Violenza di genere e misoginia sono temi centrali nella serie: il nonno di Jamie era un violento, che picchiava il figlio; Eddie ha giurato di fare di meglio, ma ci è davvero riuscito? O questo tipo di violenza «viaggia» attraverso le generazioni? Durante tutto l’ultimo episodio, la giornata del compleanno del marito, Manda dà priorità alle esigenze di Eddie, vive con la paura del «click» che può farlo esplodere, lo mette ogni volta al centro, barometro delle azioni e delle reazioni. Lei? Si toglie, sempre, da quel centro. Donne che si autoescludono e sollevano l’uomo dall’assumersi le proprie responsabilità, rendendosi involontariamente complici di un «sistema di omertà di massa».
Adolescence ci mette con le spalle al muro. Se le donne non riconoscono questa dinamica autolesionista e gli uomini non accettano di fare un percorso disagevole verso l’autoconsapevolezza emotiva, se non riusciamo a comportarci da «pari», non sarà mai ascoltata l’urgenza denunciata dalla serie con l’«urlo»: «Siamo tutti responsabili!».