
Una sfida urgente del nostro tempo.
Sembra che una delle sfide più importanti del nostro tempo sia quella di riconoscere, facendone esperienza, la dignità ontologica propria e altrui. Essa si manifesta principalmente nella relazione personale io-tu, che rende possibile una maggiore consapevolezza del suo valore intrinseco. Tale relazione ravviva il riconoscimento universale della dignità ontologica di ogni persona e dei diritti e doveri che ne derivano.
In un contesto in cui esistono non poche violazioni della dignità concreta delle persone[1], crescono la cosiddetta «epidemia della solitudine» (loneliness epidemic) e l’affermazione dell’impersonale, e la nozione stessa di persona viene messa in discussione, soprattutto da coloro che ritengono che essa comporti la svalutazione del corpo e la discriminazione tra persone e non-persone fra gli esseri umani[2], sembra particolarmente urgente rivivere l’incontro io-tu e l’orizzonte di senso a cui apre.
La dignità della persona deve poter essere riconosciuta nell’esperienza di ognuno. Se non dimora nella relazione io-tu, essa rischia di non essere sempre evidente allo sguardo, pur essendo affermata in ambito filosofico, teologico e giuridico. Ci sono persone che vengono sistematicamente ignorate, appaiono socialmente «invisibili»; in altri termini, la loro dignità non è evidente. Perché? Perché la dignità propria e altrui risulta non di rado invisibile al nostro sguardo?
Il volto e l’«io-tu»
Il filosofo Emmanuel Lévinas aveva richiamato con forza l’attenzione sul volto dell’altro, in senso immediatamente etico, come manifestazione di tale dignità. Pur trattandosi di un termine che non compare di frequente nella sua opera, la sua riflessione sul volto si può interpretare come un’esplorazione della dignità umana, perché espressione dell’unicità e della vulnerabilità che richiama a una responsabilità. L’idea che «il volto è ciò che non si può uccidere»[3] è un riconoscimento implicito della dignità dell’altro come portatore di un valore intrinseco. Per Lévinas, la dignità non deriva da una capacità della persona o da una libertà autonoma, ma dalla trascendenza che si manifesta proprio nel volto: «Il volto significa l’Infinito»[4].
Di tutto questo si può fare esperienza: esperienza intesa non come comprensione che assimila il suo oggetto, ma come manifestazione di una relazione con l’assolutamente altro, che supera la comprensione stessa[5]. L’esperienza è intesa come relazione con l’altro non riconducibile né riducibile all’io, che porta al riconoscimento della dignità dell’altro e ad un’azione etica a essa corrispondente: «Essere in relazione con gli altri, faccia a faccia, significa non poter uccidere»[6].
In senso inverso, andare
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