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In occasione dei 100 anni dalla morte di Marcel Proust, rendiamo disponibile anche sul nostro sito la versione integrale di un articolo di p. Antonio Spadaro, pubblicato originariamente nell’ottobre del 1999.
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Alla ricerca del tempo perduto, il grande affresco romanzesco in sette parti opera del genio proustiano è stato definito, per la sua imponenza e articolazione, una «cattedrale». E questo termine si accosta bene a un uomo che si può definire, riprendendo un’espressione di Gertrud Stein, un «santo»: «È l’agnello che toglie i peccati del mondo nel senso che gliene fa grazia, sollevandone il peso “in a finer tone”, come direbbe Keats. Il poeta sublima. Ma non si pensi a operazioni astruse. Si pensi piuttosto a un peso che per grazia d’artista si solleva della gravità che ci attacca alla terra, sì che per un attimo vediamo ciò che ci è intorno e dentro in una gradazione più sottile, più fine. Ma non perché sia stata abolita la realtà; perché se ne è trovato il “vero volto”. E perciò ne godiamo, come sempre del bello e del vero»[1].
La santità proustiana qui è tutta laica, anche se realmente queste espressioni rivelano la pacata esultanza di trovare una scrittura capace di «salvare» dal peccato, che consiste nella pesantezza di un legame alla terra avvertito come contrario alla natura umana. Si tratta di una salvezza estetica realizzata nella sublimazione artistica, che permette di condensare gli occhi dell’anima sul bello e sul vero. Proust nella sua raffinata laicità ha sempre evocato letture volte all’immortalità, alla mistica, seguendo, si potrebbe dire, le tracce delle connotazioni che egli stesso offre della musica: ineffabile, sublime, misteriosa, invisibile, profonda, infinita, celeste, incommensurabile. S. Toffolo[2]ha di recente connesso mistica e musica in Proust e si capisce come l’«ineffabile» sia riferito al suono quando esso si propaga dallo strumento come una luce diffusa e tesse una trama trasparente, tendente all’infinito. In Proust, nel quale vive, come ebbe a scrivere G. Cattaui, «la mescolanza incoerente del genio, dell’ammalato e dell’adolescente»[3], non può mancare per ciò stesso la tensione a un aldilà che, pur nelle abissali differenze, appartiene nel desiderio a chi giace ammalato, al ragazzo che cresce e all’uomo dalla straordinaria capacità creativa e finezza di spirito. Qui sta tutta la necessaria tensione spirituale di Proust e così «solo le cose che sono al di là degli orizzonti lo chiamano perché egli le descriva»[4]. Questo attraversamento dell’orizzonte, a lungo indagato nella bibliografia critica, porta a riconoscere nell’autore della Recherche «un istinto di profezia che lo conduce sin sulla soglia della terra promessa».[5]
E così già nel 1926 Benoist-Méchin pubblicava La Musique et l’immortalité dans l’œuvre de Marcel Proust[6] e, da questa lettura in poi, basta consultare i titoli che ha mosso e ispirato la critica proustiana, già da soli capaci di rendere la necessaria tensione mistica. Pommier ha parlato della «mistica di Proust»[7], Bonnet del suo «progresso spirituale»[8], Mambrino del suo essere «esploratore dell’invisibile»[9], Giunchedi della «funzione rivelatrice»[10] della sua arte. Si tratta di una tensione sostanziata da profonde tensioni esistenziali e di ispirazione[11].
Il contributo più recente a una lettura proustiana ricca di connotazioni religiose è quello che ci viene offerto da Alberto Beretta Anguissola, cioè colui che con Daria Galateria ha annotato nel corso di 15 anni in modo straordinariamente ricco l’edizione mondadoriana della Recherche apparsa nella prestigiosa collana dei Meridiani. Nel suo volume Proust e la Bibbia[12] egli raccoglie alcune riflessioni pubblicate anni addietro sul quotidiano Avvenire e ad esse aggiunge una ricca antologia proustiana annotata e introdotta da riflessioni esplicative. Egli sottolinea come l’opera proustiana sia in realtà un continente da esplorare, ma che al suo interno scorre un fiume sotterraneo, un «criptotesto» che affiora soltanto qua e là in alcuni riferimenti a elementi estranei alla fiction (fatti di cronaca, avvenimenti, personaggi storici, libri, quadri, brani musicali…). «Nella prima parte del romanzo, cioè fino a Sodoma e Gomorra escluso, il criptotesto invisibile ed esoterico è intriso di negatività, crudeltà e dolore. È il risvolto oscuro del “fenotesto” che, tutto sommato, è in questa fase piuttosto ricco di idilliaca dolcezza, essendo legato all’infanzia, all’adolescenza e alla prima giovinezza, periodi che abbelliti dalla memoria tendono a essere per molti un “paradiso perduto”» (p. 7).
Ovviamente non tutti i riferimenti dati da Proust hanno pari rilievo: occorre un discernimento, e Beretta Anguissola, nel compiere questo lavoro certosino, riconosce alle allusioni, esplicite o implicite, alla Bibbia, ai simboli cristiani e alla liturgia il valore di «riferimenti “giganteschi”» (p. 9). Riconosce innanzitutto come la Recherche sia un pellegrinaggio, come quelli che, facendo tappa a Illiers (il luogo di partenza della «ricerca» proustiana nella memoria dell’infanzia, indicato nel romanzo col nome di Combray), tanti credenti compirono nei secoli per raggiungere Santiago de Compostela. La chiave unificatrice dei pellegrinaggi medievali era il bisogno religioso di salvezza, e dunque sarebbe «strano se i riferimenti religiosi e biblici non avessero nel romanzo-pellegrinaggio di Proust un’importanza speciale, se non fossero l’elemento che sorregge tutta l’impalcatura, impedendo che crolli rovinosamente» (ivi). La lettura biblica di Proust è una lettura «nuda» che prende l’avvio probabilmente dal vasto lavoro di traduzione e commento de La Bibbia d’Amiens di John Ruskin. Beretta Anguissola rintraccia con fine analisi i luoghi nei quali giungono gli echi di questa lettura, attento anche al significato recondito che può avere il particolare di una pietra difettosa e da scartare, che nelle pagine proustiane diventa testata d’angolo di una memoria liberante e di tutta la filosofia estetica ed esistenziale che porta con sé la rinata volontà di creare e di vivere.
La petite madeleine, il biscottino di farina e pasta di mandorla, è l’elemento che permette al narratore la resurrezione della memoria dell’infanzia a Combray. Esso ha la forma simile a quella della coquille Saint-Jacques, la conchiglia di san Giacomo dei pellegrini. Nel nome vi si può leggere anche la figura della Maddalena evangelica (e ricordiamo che Proust definisce il biscotto «sensuale e devoto»). Questo cibo diviene connotato misticamente in un modo che successivamente forse soltanto K. Blixen, nel suo Il pranzo di Babette, ha saputo rendere adeguatamente. La figura della nonna che a Balbec scioglie i lacci delle scarpe del narratore è interpretata alla luce battesimale della funzione di Giovanni Battista. Rimane decisiva poi la lettura, anche alla luce delle intuizioni di R. Girard, della figura della vittima di cui il personaggio di Saniette è espressione fino ad essere riconosciuto una «reincarnazione del “Servo di Jahvè” (Cristo stesso) cantato da Isaia (53,3)» (p. 10) come tanti personaggi di Hugo o Dostoevskij.
Sarebbe arduo riassumere tutta la ricca simbologia esplicitata da Beretta Anguissola in modo da rendere il suo contributo, come lo ha definito G. Raboni, «eccezionale e, in un certo senso, rivoluzionario»[13]. Certo egli completa la lacuna che G. Deleuze, nel suo Proust e i segni[14] ha lasciato scoperta: Deleuze nomina i segni della mondanità, dell’amore, i segni sensibili, i segni del tempo perduto, i segni dell’Arte, ma dimentica quelli della colpa e del perdono. Certo, conclude l’autore, se per «religione» si intende la convinzione filosofica dell’esistenza di Dio, Proust era per lo meno agnostico, ma, «se fosse lecito dire che c’è un po’ di fede anche nel riconoscersi radicalmente malati e ingiusti, nel rendersi conto che da soli con le proprie forze non potremmo mai restituire un senso e un valore alla nostra vita “perduta”, se è almeno in parte cristiano chiunque si sente salvato da un evento involontario e gratuito, […] chi porta la sua croce con inspiegabile allegria, chi ama ciò che è debole e malato, chi predilige ciò che è piccolo, chi non può fare a meno di soffrire con chi soffre, chi non separa il sotto e il sopra ma sente che la verità si è incarnata in quel che è più basso, chi è certo che un solo Agnello sia più che sufficiente e non occorrano quindi tragiche espiazioni né autodistruzioni nevrotiche, allora Proust questa “fede” l’aveva davvero» (p. 136).
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[1] N. FUSINI, «Proust scrittore e santo», in la Repubblica, 12 ottobre 1995. L’articolo commenta il volume La Colomba pugnalata di Pietro Citati pubblicato da Mondadori.
[2] Cfr S. TOFFOLO, L’angelo scarlatto del mattino. Il mistico e la musica in Marcel Proust, Negarine (VR), Il Segno dei Gabrielli, 1997.
[3] G. CATTAUI, Marcel Proust, Torino, Borla, 1964, 45.
[4] Ivi, 60.
[5] Ivi, 148.
[6] Cfr J. BENOIST-MÉCHIN, La Musique et l’immortalité dans l’oeuvre de Marcel Proust, Paris, Kra, 1926.
[7] J. POMMIER, La Mystique de Proust, Genève, Droz, 1939.
[8] H. BONNET, Le progrès spirituel dans l’oeuvre de Marcel Proust, 2 voll., Paris, Vrin, 1946-49.
[9] J. MAMBRINO, «Marcel Proust explorateur de l’invisible», in Études t. 370 (1989) 65-81.
[10] Cfr F. GIUNCHEDI, «La funzione rivelatrice dell’arte», in Rivista di Teologia Morale 32 (1999) 427-436.
[11] Cfr A. SPADARO, «Marcel Proust e la sapiente bellezza della lettura», in Civ. Catt. 1998 II 480-485.
[12] Cfr A. BERETTA ANGUISSOLA (ed.), Proust e la Bibbia, Cinisello Balsamo (MI), San Paolo, 1999 (d’ora in poi le pagine citate nel testo si riferiscono a questo volume).
[13] Cfr G. RABONI, «Con la Bibbia nel labirinto di Proust», in Corriere della Sera, 4 ottobre 1999.
[14] Cfr G. DELEUZE, Proust e i segni, Torino, Einaudi, 1967.