|
Ich bin Ende oder Anfang (Io sono una fine o un principio), ha detto Franz Kafka di sé. Una fine: nel senso che in lui trovano la morte i miti del pensiero e del sentimento; un principio, perché, purificato lo spirito dalla menzogna, si può ricominciare a vivere nella verità, anche se questa è orribile. In realtà la sua opera, grigia e dimessa, è agli antipodi dell’ubriacatura idealistica e nietzschiana, del titanismo velleitario dell’espressionismo tedesco del primo ’900, e anche del cristianesimo di Kierkegaard. Kafka è un uomo che si muove sull’abisso dell’esistenza in compagnia della sua ombra atterrita: umilmente, senza neanche pensare alla possibilità d’una rivolta. Che vale gridare quando si è nel deserto, e ribellarsi quando si reca in sé stessi la sentenza della propria condanna?[1]
Uno strano destino, il suo. In vita andò errando per l’Europa, ora come un intruso, ora come un estraneo, sempre solitario e chiuso; dopo morte è divenuto il padre spirituale del nostro tempo, accolto dappertutto come nume tutelare, genio ispiratore, guida di marcia. Vien fatto di pensare al capostipite del popolo d’Israele, Abramo, cui l’Altissimo disse: «Ti farò divenire una grande nazione» (Gen12, 2). In realtà, gli espressionisti vedono nell’autore del Processo il loro precursore, sia pure a modo suo; per Sartre e Camus, Kafka è il padre del nikilismo e della filosofia dell’assurdo; per Max Brod, suo confidente e artefice della sua gloria postuma, e per Jean Carrive uno spirito profondamente religioso, un novello Kierkegaard, o meglio: eine Wegweisende Gestalt, un essere che indica la via; per molti ebrei, infine, Kafka resta il loro tipico rappresentante.
Egli, Kafka, che cosa pensava di sé? Pensava di essere un povero diavolo piovuto su questo pianeta, senza sapere come e perché; forse per opera di un genio maligno nascosto chi sa dove. Ad ogni modo, uno spiantato e uno sbandato, prigioniero d’una situazione assurda, vagolante in un mondo nel quale la notte e l’angoscia sono diventati la sostanza di tutto. Heidegger, nel lontano 1913, si augurava che qualcuno esplorasse l’abisso della notte cosmica: «Im Weltamer der Weltnacht muss der Abgrund der Welt erfahren und ausgestanden werden. Dazu aber ist nötig, dass solchen sind, die in den Abgrund reichen. – Nel secolo della notte cosmica l’abisso del mondo deve essere sperimentato e affrontato. Per questo è necessario che vi sia chi raggiunga l’abisso»[2].
Kafka ha tentato l’impresa. La sua opera è la parabola dell’uomo uscito dall’abisso con l’anima pietrificata perché impigliato in una situazione tragicamente inestricabile, in un mondo incomprensibile dove il ragionamento non fa che moltiplicare le prove della sua impotenza. Mondo morto, questo di Kafka, nel quale tutto è relativo, dove il reale e l’immaginario ironicamente si scambiano volto e proprietà, dove nessuno sa nulla di niente, dove si finisce per dubitare anche di sé stessi, come K. del Castello e Joseph K. del Processo. Il guaio è che ci si ostina a lanciare nel vuoto le nostre domande e a credere che i nostri colloqui possano snodarsi su di uno sfondo di realtà. Oppure si va sbandierando qualche brandello di verità, insofferenti di dover ammettere il fallimento.
Kafka non si lascia sedurre da speciosi ‹‹orpelli filosofici o religiosi››, perché ritiene che nessuna filosofia o religione potrà abbattere il cupo diaframma dell’esistenza o dare una giustificazione al malessere che si avverte nel ritrovarsi, giorno per giorno, sulle sabbie mobili dell’esistenza, urtati, mortificati, sobbalzati nel vuoto, in abbandono totale. «Me ne sto sulla piattaforma d’un tranvai, e avverto l’incertezza completa riguardo la mia posizione nel mondo, in questa città, nella mia famiglia… Decisamente non so dare giustificazione al fatto di trovarmi in piedi su questa piattaforma, di aggrapparmi a questa cinghia, di lasciarmi portare da questo tranvai».
Da questa piattaforma, nell’impossibilità di qualsiasi reazione, egli si contenta d’essere uno sguardo sul quale le lacrime si sono agghiacciate. In esso si riflette solo la paura e l’ambiguità di tutto. Solo qualche volta, fugacemente, è dato scorgere in esso uno zampillo di luce e di speranza.
Anche fisicamente vibrava tutto in quei suoi «grigi occhi luminosi», come li descrive Max Brod, che si aprono immensi su di un mondo svuotato di senso, nel quale esseri disgraziati, ombre paurose e povere bestie intrecciano una danza, molto spesso macabra. Kafka ne scandisce il ritmo, in uno stile asciutto, preciso, amaro. Ne risulta un quadro surreale e ossessivo nel quale le vicende e i personaggi più impensati sono presentati con una naturalezza tale che si finisce per cadere nel giuoco e viverne l’indiavolata atmosfera.
* * *
La sua esistenza fu dominata, come da un incubo, dalla figura del padre. Fu per lui come una specie di Moloch, ossessivo e agghiacciante, enigmatico e onnipresente. La Lettera al padre, quarantacinque fogli dattiloscritti, in cui Franz analizza i suoi rapporti col padre, componendo quasi una autobiografia, è uno dei documenti psicologici più tremendi del nostro secolo. In esso Kafka tenta di dare una risposta all’interrogativo più assillante postogli dal padre: «Perché hai paura di me?». «… Mi provo a risponderti per iscritto, anche questa risposta sarà incompletissima, poiché pur scrivendo mi sento impedito dalla paura e dalle conseguenze…… tutta la Tua vita Tu hai lavorato duramente, hai sacrificato tutto per i tuoi figli e specialmente per me, di modo che io sono vissuto da signore, libero di studiare quello che volevo, senza crucci materiali… in cambio Tu non chiedevi gratitudine. – Tu conosci la “gratitudine dei figli” ― ma almeno certi riguardi, qualche segno di comprensione, invece io Ti ho sempre sfuggito, rintanandomi in camera mia, fra i libri, fra amici esaltati, fra idee insane; mai Ti ho parlato a cuore aperto… d’altronde non posseggo il senso della famiglia, non mi sono curato della ditta o degli altri Tuoi affari»…
Franz dinanzi al padre, sano e robusto, forte e sicuro, avvertì uno spaventoso complesso d’inferiorità. «Ero schiacciato dalla semplice esistenza del Tuo corpo»: lui, «creatura debole, dubbiosa, paurosa, inquieta». Era convito d’essere un parassita, un immondo scarafaggio, come il padre soleva apostrofarlo, un intruso, anche a causa della sua fiacchezza, debolezza e instabilità; e che il padre avesse ragione, pur nella sua incomprensione e ingiustizia. Poteva urlare, ingiuriare, colpire: aveva sempre ragione. «Eppure v’erano momenti di indicibile e inconfessata felicità ― scrive L. Mittner[3] ― quando ad esempio il figlio era ammalato e il padre si avvicinava con cautela alla porta, facendogli da lontano un cenno per non disturbare il suo riposo… “In simili attimi ci si abbandonava sul letto, piangeva di felicità e si piange ora, di nuovo, mentre si scrivono queste parole”».
Schiacciato, pertanto, dalla personalità del padre che gli appare come una specie di Jahvè dell’Antico Testamento, Franz non saprà mai dare una risposta alle successive domande paterne: Chi sei? Che cosa vuoi? Dove vai? La sua esistenza comincerà ad apparirgli priva di giustificazione, non solo di fronte al padre, ma di fronte al mondo. In tale clima germoglia il sentimento della colpevolezza che forma come lo sfondo e la spiegazione di tutta l’opera kafkiana.
Colpevolezza di che cosa? Di non essere capace di vivere. Era vero. Ma come potersi affermare nella vita se suo padre lo annientava con la sua forza e col suo giudizio di condanna? Anche se lo avesse tentato, qualsiasi suo sforzo sarebbe stato risucchiato e disperso nel nulla. «Sei inadatto alla vita: e per darti una sistemazione favorevole, senza crucci e senza rimorsi, dimostri che io ti ho tolto ogni capacità di vita e me la son messa in tasca».
Queste parole della Lettera, messe in bocca al padre, ci manifestano drasticamente il dramma che si svolse nell’animo di Kafka, molto simile ad un circolo vizioso. Da una parte il sentimento di colpa per non essere capace di affermarsi nella vita, essendo tutto in lui misurato e determinato dal padre; dall’altra il giudizio e la condanna paterna per tale stato d’impotenza e per l’atteggiamento di parassita in famiglia e nella società. Pertanto – scrive R. Timmermans[4] – «egli porta in sé sia la consapevolezza della sua stessa vita, che in lui andava crescendo, sia l’accusa di colpevolezza che gli uomini lasciano cadere su lui. Il padre è onnipresente: come incarnazione della vita che Kafka vuole, ma che non può attuare, come araldo del mondo che lo condanna. Su tale strada, si sviluppa in lui la doppia coscienza, a causa della sua mancanza di forza vitale, di essere escluso dalla vita ed essere giudicato dall’umanità come colpevole di sottrarsi ad essa… Di fronte al mondo, Kafka si sente colpevole e il mondo giudica che è colpevole».
La sua situazione, come si vede, è assurda in partenza: per non essere colpevole, egli dovrebbe ribellarsi, essendo questa la sola maniera di vivere, e finirebbe pertanto col divenire colpevole. Oppure dovrebbe appellarsi ad un tribunale. Ma quale? L’unico tribunale resta quello del padre, che ha già formulato una condanna inappellabile. Ci troviamo dunque come staticizzati nella colpa, paralizzati sotto il peso d’un peccato di natura, condannati a batter la testa contro un muro senza mai trovare una via d’uscita.
* * *
L’esperienza personale di questo sentimento assurge a significato universale. La vita in sé stessa è colpa. «Peccaminosa è la condizione in cui ci troviamo», scrive nel Diario. In realtà, sui suoi personaggi, come su quelli delle tragedie greche, incombe un senso di colpa misteriosa, più assillante della cattiva coscienza; una colpa che si radica nel fondo del nostro essere, avvelenando e determinandolo. Fu, questa, la sua prima vertigine.
Fissando le fredde pupille sulla vita, altro non vide che una folla di disgraziati costretti a trascinare un’esistenza da sempre condannata al fallimento da una tremenda maledizione ancestrale.
Il Processo è l’opera più significativa a questo riguardo. Joseph K. un bel giorno si vede accusato. Per quale colpa? Non si sa, né mai si saprà. Dinanzi a quale tribunale deve presentarsi? Mistero. Una folla di poliziotti, di avvocati, di giudici istruttori, ripetono all’imputato che essi sono semplicemente dei subalterni. Il Giudice Supremo nessuno lo ha mai visto: inaccessibile e misterioso. Del resto l’accusato si sente ripetere che può benissimo considerarsi la vittima di intrighi maligni e degli scherzi degli agenti. Presentandosi una domenica nell’aula delle adunanze per l’interrogatorio, la trova vuota. Ma il pensiero della colpa sconosciuta si impossessa talmente di lui che non sa più abbandonare le aule del tribunale. Allucinazione o realtà, la sua colpa? Inutilmente Joseph K. invoca un giudizio che concluda una situazione insostenibile e atroce. Sperduto nel dedalo di scale e di corridoi in cerca del Giudice Supremo, egli non fa che tormentarsi a vuoto e invocare una parola che mai sarà pronunziata, mentre la misteriosa accusa incomberà sulla sua vita come un’insopprimibile fatalità, accompagnandolo fino ad una morte atroce.
Noi siamo succubi d’una potenza misteriosa di cui non possiamo conoscere le leggi che trasgredendole e subendone il castigo. Quando, dopo atroci e inutili sofferenze, riusciamo ad intuirne l’esistenza e con tutta la nostra buona volontà ci sforziamo di metterci in regola, è troppo tardi: ci voltiamo indietro e scorgiamo il ghigno della morte. La colpa che commettiamo, senza saperlo né volerlo, è esser nati.
* * *
Molti brani della sua opera fanno supporre che Kafka abbia pensato all’arte come ad una via di salvezza. Scrivere significa dare un senso alla sua vita «monotona, vuota, sbagliata»; significa avviarsi sulla «sola strada che possa condur(lo) ad un progresso». Un mondo vastissimo gli turbina in mente: «Piuttosto spezzarsi mille volte anziché ricacciarlo e seppellirlo in me; poiché non ho il minimo dubbio di essere per tale scopo sulla terra». Gli vien fatto anche di pensare che l’arte possa conferirgli una specie di invulnerabilità, dal momento che quando scrive si sente «intrepido, nudo, potente, sorprendente». Per lui «scrivere è una forma di preghiera», un’occupazione sacra, una investitura, «il mio unico desiderio, la mia unica vocazione». L’arte è la possibilità offertaci di guardare e ritrarre il nostro essere schiacciato e deriso da un destino beffardo e incomprensibile. Malraux si serve dell’arte per sfidare il destino e superare l’universo assurdo; Kafka, invece, per mostrare la sua sconfitta, esprimendo sé stesso, nella sua situazione storica.
Tutto ciò significa salvezza? Il fatto che Kafka abbia ordinato all’amico Max Brod di bruciare i suoi scritti ci autorizza a pensare che egli stesso comprese la vanità della letteratura. Anche Rimbaud e Mallarmè avevano avuto lo stesso pensiero: distruggere tutto. L’arte non può redimerci. Può darci solo la possibilità di ritrarre, con distacco artistico, la nostra angoscia.
Ci sarebbe una seconda via di salvezza: il matrimonio. «Felicità di trovarsi in compagnia di esseri umani». Kafka però, rifiutò sempre di sposarsi: il matrimonio infatti era per eccellenza il «dominio del padre», e poi «tutto ciò che sarebbe stato dato alla donna sarebbe stato rubato alla letteratura»; l’unione carnale inoltre gli faceva orrore. Del resto, con quale coraggio legarsi ad un’altra esistenza, lui così insicuro, così pencolante sul vuoto? Chi si sente uno scarafaggio non può aspirare se non ad amori impuri…
Fallita anche questa seconda via di salvezza, Kafka vede spalancarglisi davanti la solitudine più tetra. La Metamorfosi è il racconto in cui la solitudine è trascritta in termini spaventosi e in tutta la sua ampiezza metafisica. «Una mattina Gregorio Samsa, destandosi da sogni inquieti, si trovò mutato in insetto mostruoso. Era disteso sul dorso, duro come una corazza, e alzando un poco il capo poteva vedere il suo ventre bruno convesso, solcato da nervature arcuate, sul quale si manteneva a stento la coperta, prossima a scivolare a terra. Una quantità di gambe compassionevolmente sottili, in confronto alla sua mole, gli si agitava dinanzi agli occhi».
Con queste battute, apparentemente così ingenue e naturali, ha inizio il racconto più allucinante e splendido che sia uscito dalla fantasia di Kafka. Gregorio Samsa, metamorfosizzatosi in scarafaggio, conserva l’intelligenza umana, ma gli è impossibile comunicare con i suoi: il pensiero, lucidissimo in lui, resta fatalmente imprigionato in suoni inarticolati, propri delle bestie. Un estraneo, un mostruoso essere anomalo, la vergogna della famiglia: ecco che cosa è ora. La sorella, nei primi tempi, si prende cura del «figlio disgraziato», poi gradatamente la dimenticanza e il ribrezzo si addensano attorno a lui. Come si può vivere, in casa, con una bestia di quel genere? Quando finalmente muore, è spazzato via, con un senso di liberazione, nell’immondezzaio. Allora «decisero di dedicare la giornata al riposo e al passeggio; si meritavano bene questa tregua di lavoro, anzi ne avevano assoluto bisogno».
* * *
All’impossibilità di vivere nella casa e nella società (La Metamorfosi), fa riscontro l’impossibilità di penetrare nel Castello. Si direbbe che il povero Kafka, non potendosi rassegnare allo strazio di restare escluso dalla casa, abbia voluto cercare un rifugio più in alto, più sicuro, più completo. Il mito del Castello esprime il dramma dell’uomo in cerca d’un nuovo immettersi nella vita.
K., il protagonista, certo d’essere stato chiamato dalle autorità in qualità di agrimensore, quando giunge al villaggio, disseminato sotto il misterioso castello, chiede di trascorrere quivi la notte, nella speranza di potersi l’indomani mettere in comunicazione con le autorità. Incominciano subito a sorgere difficoltà: per pernottare al villaggio ci vuole il permesso del conte. Alle telefonate al casello con cui si domanda se sia vera l’assunzione di K. come agrimensore, vien risposto negativamente. Da questo momento K. altro non farà che dimostrare che realmente è stato chiamato dalle sue autorità. Un’infinità di ostacoli, assolutamente imprevisti e quasi assurdi, gliene impediscono l’accesso. Non fa che perdere tempo ed energie, e degradarsi sempre più. Quando finalmente giunge l’autorizzazione a restare al villaggio, K. è morto. La salvezza è arrivata troppo tardi per colpa dell’uomo che si è stancato di attendere e sperare.
Il castello è rimasto impenetrabile e lontanissimo, avvolto nel suo mistero. Esso è il simbolo di un mondo ideale – forse il mondo della fede – cui irresistibilmente si tende, come ad un miraggio di salvezza, e da cui ci si vede esclusi, dopo aver trascorso la vita a bussare alla sua porta, disperatamente.
Così, l’uomo, da qualunque parte si volti, altro non vede che solitudine e fallimento. Si noti bene però: non la solitudine di Kierkegaard che è vocazione salvifica, ma solitudine disperata, che è maledizione e morte, condanna e peccato, silenzio del mondo e soffocamento di sé. Isolamento! «In mezzo alla mia famiglia vivo più estraneo d’un estraneo. Nel corso di questi anni non ho scambiato venti parole al giorno con mia madre, non ho scambiato quasi altro che il saluto con mio padre. Mi isolerò da tutti, mi inimicherò tutti, non parlerò con nessuno. Dentro di me, senza rapporti umani, non ci sono menzogne visibili. Il cerchio limitato è puro».
La solitudine – che è estraneità, isolamento, agonia – fu la sua seconda vertigine. La casa e la società divennero la sua prigione e il suo incubo perché tutto gli apparve estraneo e nemico. Estraneo, ché le cose di questo mondo per lui divennero cose dell’altro mondo, data la sua incapacità di averle e di comprenderle; nemico, ché tutto gli ricordava la sua situazione di colpevole e d’intruso. «Incapace di agire nelle realtà ― scrive Mittner[5] ― Kafka diventa incapace di credere nella realtà, incapace addirittura di cogliere con i sensi le impressioni del mondo esteriore che, visto soltanto in un suo aspetto parziale, si deforma grottescamente ed assurdamente. Chi è sempre stanco da non riuscire a credere veramente nella propria esistenza, non crederà veramente neppure nell’esistenza altrui».
Rotto in tal modo ogni legame tra l’io e la realtà esterna, Kafka si trovò a vivere come un intruso o, se si vuole, come un cane dinanzi alla porta di casa. Nel romanzo America – che è la mitica rappresentazione dell’impossibilità di stabilirsi su di un terreno – lo zio del protagonista ricorda «quei nuovi venuti che se ne stavano intere giornate sul balcone a guardare la strada, come tori smarriti». Anch’egli, Kafka, è come un «toro smarrito», un tipico déraciné, affacciato al bacone della vita che gli appare nemica e ossessiva. «È impossibile difendersi!» conclude Carlo Rossmann, vittima d’un malinteso che lo riduce al lastrico.
* * *
Che cosa resta, a Kafka, dopo queste scoperte? Nient’alto che chiudersi in una tomba, vivere da morto. È il tema del racconto La Tana. Un tale (bestia? uomo?) si è costruita una tana così ben combinata da potersi ritenere impenetrabile ed inespugnabile. Il costruttore ha consumato «tutta la sua vita» per condurre l’opera a termine. L’ha studiata nei suoi minimi particolari: la sistemazione della difesa in caso di attacchi nemici, interni o esterni, dove collocare la piazzaforte, dove mettere le provviste. Ora è al sicuro, lontano dai vivi, in una solitudine immensa. È vero che per lui non esiste più gioia, ma neanche paura di nemici; non più luce, ma neanche timore di ferirsi le pupille con essa; non più vita – quasi – ma neanche dolori e timori. Non è una meraviglia, questa vita morta, questa morte viva, nella tana? A lungo andare lo strano abitante finisce col confondersi con la tana stessa e con i progetti che incessantemente va elaborando per perfezionarla e col piacere che prova nel sentirla esistere. Gli sembra di «stare non davanti alla sua casa, ma davanti a sé stesso mentre dorme». Ma bisogna pure che egli esca all’aperto per perlustrare la zona circostante: senza stare molto tempo fuori, però. Chi assicura che nell’interno tutto procede bene? Bisogna rientrare nei corridoi sotterranei, riparare i piccoli guasti, consolidare la piazzaforte centrale. Finalmente, tutto è in pace; si può riposare tranquilli. All’improvviso, l’incertezza riafferra il costruttore; forse l’ingresso non è sicuro! Bisogna ancora uscire, appostarsi, dentro, fuori, fuori, dentro, specialmente quando nel silenzio dei corridoi tenebrosi si avverte un rumore; prima si confonde col rodìo familiare dei vermi, poi diventa più forte, si localizza qui, lì, più lontano, dietro, dappertutto, si allontana, ritorna…
Ecco l’immagine della nostra vita. Una presenza minacciosa, inafferrabile, anonima, ci insegue dappertutto, come l’ombra, anche nella più remota dimora dove ci eravamo ridotti a vivere senza vivere. La solitudine stessa è maledizione e minaccia. Sul fallimento di tutto non resta che la mitologia della disperazione e dell’assurdo.
«È impossibile vivere, impossibile non vivere; siamo innocenti ma anche colpevoli; dobbiamo giustificarci e non lo possiamo; dobbiamo stabilirci su un terreno, una patria, trovare una legge, ma non ci riusciremo mai. Siamo agrimensori che nessuno ha assunto, che lasciano moglie, figli e patria, come Abramo, verso un paese nuovo, un castello meraviglioso, ma nessuno ci attende, poiché siamo anche frodatori e, prima di pronunziare una parola, siamo condannati, rigettati, schiacciati, come Karl Rossmann: «sul bastone di Balzac sono incise queste parole: “Io spezzo tutti gli ostacoli”. Sul mio: “Tutti gli ostacoli mi spezzano”. Di comune c’è solo il [termine] “Tutto”» [6].
* * *
Vi sono dunque due forme di solitudine in Kafka: la solitudine che è silenzio del mondo, e la solitudine che è l’imprigionamento di sé in sé stessi o lo stordimento – tanto simile alla morte – dell’io in un falso io che ci siamo creato. Molti frammenti e racconti brevi sono come rauchi sussulti in un mondo chiuso e inquieto, reso reale ed ossessivo.
Il funambolo del racconto Primo dolore «inizialmente per smania di giungere a gran perfezione, più tardi per tirannia di abitudine, aveva organizzato la propria vita in modo da non scendere mai dal suo trapezio, per tutto il tempo che l’impresa si fermava nello stesso luogo, né di giorno né di notte». Il maestro de La talpa gigante vive tutto compreso di un solo ideale: dimostrare, attraverso uno scritto del tempo, l’esistenza di una talpa gigante notata anni addietro; nel racconto Il digiunatore il protagonista, esibendosi in una gabbia quale «virtuoso del digiuno», finisce per innamorarsi del suo mestiere fino alla morte.
* * *
Da quanto siamo andati dicendo, l’universo di Kafka è apparso disperato. Tutti i suoi personaggi sono votati al fallimento; i suoi racconti – intreccio di vicende che sfociano nel nulla – si snodano in un clima così nero e pietrificato, i miti da lui creati riflettono un tale senso d’angoscia, che è facile dedurne un pessimismo assoluto. Il cacciatore Gracco, stanco dell’inutilità di vivere su questa terra, finalmente precipita da una rupe, «un numero enorme di anni fa, mentre inseguivo un camoscio nella Selva Nera. Da allora sono morto, signor sindaco». E da allora va errando, di città in città, sulla barca funebre. «Io non penso a nulla, sono qui, altro non posso fare. La mia barca è senza timone, naviga col vento che soffia laggiù nelle infinite regioni della morte».
Bisogna dunque definire Kafka cantore dell’assurdo e del nulla? Certamente, sotto molti punti di vista incontrovertibili. La sua opera rigurgita di espressioni e si proietta in un’atmosfera che legittima questa interpretazione. Kafka è figlio del suo tempo, come Rainer Maria Rilke, Thomas Mann, Nietzsche, Heidegger, Shaw, Pirandello: scettico e ironico, sconsolato ed inquieto, senza alcuna possibilità di sfociare nel divino. In lui la situazione dell’uomo risulta più esasperante per il rifiuto perentorio del mito idealistico e di velleità faustiane. L’unica via di salvezza per lo scrittore praghese sarebbe stato l’incontro con Qualcuno capace di svelarci il mistero della esistenza: poiché attendere la rivelazione da noi stessi è follia. Ma anche attendere su altre strade è follia.
«Gli era stato impossibile penetrare nella casa, perché aveva inteso una voce che gli diceva: Attendi finché non ti conduca! E così egli giaceva nella polvere davanti alla porta, benché, senza dubbio, ogni attesa dovesse restare senza soddisfazione». Ecco la condizione umana: attendere senza speranza. «Io sono di pietra. Sono la mia propria pietra tombale, senza alcun interstizio per il dubbio o per la fede… solo una vaga speranza brilla, ma come un’iscrizione funerea. Io non sono stato chiamato alla vita dalla mano già pesantemente cadente del cristianesimo, come Kierkegaard, e non ho acchiappato l’ultimo lembo del fuggente manto ebraico della preghiera, come i sionisti. Io sono una fine o un principio».
Come spiegare allora che Max Brod, la cui autorità è incontestabile per essere egli stato il confidente di Franz per lunghi anni, non esiti a definirlo, uno spirito profondamente religioso, credente e anche mistico? Per lui il Processo è la trasposizione in chiave di romanzo del domma del peccato originale, e il Castello di quello della Grazia. Un suo recente volume, Disperazione e redenzione nell’opera di Franz Kafka, il quarto che egli dedica all’amico, è una violenta requisitoria contro coloro che vedono in Kafka il cantore di un mondo in rovina, il rappresentante del nikilismo estetico più assoluto, di un’esistenza umana che esclude qualsiasi possibilità di redenzione, da qualsiasi parte essa possa venire. A Max Brod ultimamente ha fatto eco Martin Buber[7], studioso di religione e narratore, che ha parlato dell’ottimismo di Kafka, e, in un confronto fra il praghese e san Paolo, arriva ad affermare che il mondo kafkiano è più benigno di quello dell’Apostolo.
Ateo e poeta del nulla, dunque, o credente e poeta della redenzione?
Per nessun autore, crediamo come per Kafka, le interpretazioni possono essere tante e tanto discordi. L’autore del Processo e di Nella colonia penale è molto simile ad una nuvola, nella quale ognuno riesce a scorgere ciò che più gli sta nell’animo. E i testi per dimostrare la legittimità della propria interpretazione non è difficile trovarli nell’intrico e nella fluidità dell’opera kafkiana.
Certo è che studiare Kafka dimenticando la sua appartenenza significherebbe inquadrarlo in un angolo di visuale sbagliato. La sua opera, infatti, nonostante l’ubriacatura razionalistica, riflette una concezione esistenzialistica di sapore prettamente giudaico. In essa c’è l’angoscia per il peccato originale, l’ansiosa ricerca d’un Dio, l’universale aspettativa dinanzi alle porte della Legge, la misteriosa e tragica lontananza dell’Altissimo. Il protagonista del Processo, in cerca del Giudice Supremo, e K. del Castello aggrovigliato nella rete dei funzionari, sono Kafka e il popolo ebreo che «sperano contro ogni speranza»; sono anche l’umanità ossessionata dalle realtà soprannaturali, ma respinta e ricacciata nell’esilio per via d’una condanna dovuta ad una misteriosa colpa. Si tratta del peccato originale? Le note personali di Kafka ci rivelano che egli fu molto spesso tormentato da questo mistero. Pertanto interpretare il Processo e il Castello in questa prospettiva, se può essere impresa azzardata, non è del tutto gratuita.
Ma Dio esiste, per Kafka? Impossibile affermarlo o negarlo. Ondate di credenza si sono accavallate sul suo animo ad ondate di scetticismo, a volte in un ritmo di ambivalenza più ossessivo d’una posizione netta. Il Giudice Supremo, invocato da Joseph K., esiste o non esiste? Al castello c’è veramente un conte? L’agronomo è stato veramente chiamato? Domande senza risposta. Se queste autorità superiori sono simboli di Dio e del mondo spirituale, bisogna affermare con Jean Carrive, che tuta l’opera di Kafka è un «discorso sull’assenza di Dio».
Assente o morto? Impossibile saperlo con esattezza. Probabilmente c’è, ma inaccessibile, innominabile, impensabile. È il nostro tormento, Dio. Poiché noi avvertiamo un prepotente bisogno di accostarci a lui, per avere un appoggio al nostro pencolare sul vuoto, di ascoltare una parola di sicurezza; consumiamo tutta la nostra vita per accostarci a lui: ma Dio ci rifiuta, si allontana da noi, abbandonandoci nella notte o schiacciandoci con la sua immensità. Esiste, dunque, allora? Ma quanto è difficile concludere con un’affermazione!
Fu la terza vertigine di Kafka. Chiamato e respinto, eletto e reietto. La terra non gli basta, assolutamente; in essa si sente male, apolide, sbandato. Il cielo, lontanissimo, è inafferrabile. Dio, se esiste, è silenzio, «la taciturnità è uno degli attributi della pienezza». A ciò noi non possiamo rassegnarci, e continuiamo ostinatamente a bussare ad una porta che mai si aprirà. L’opera di Kafka può essere definita la traduzione in miti della situazione dell’uomo in preda al tormento tra il nascondino e la morte di Dio. Se è morto, però, vive in noi con la sua nostalgia.
I cinesi del Sud da secoli lavorano alla costruzione di una muraglia. Chi ha ordinato l’impresa? L’imperatore o un consiglio superiore? Sarà mai terminata la muraglia? Esistono davvero le popolazioni nordiche per difendersi dalle quali si sta lavorando alla muraglia? A che punto è l’impresa? Certo non si finirà mai di costruirla. Del resto, chi potrebbe saperlo? L’imperatore? Impossibile arrivare fino a lui, superando la selva di intermediari. Può essere, anzi, che egli sia morto. Al suo posto, forse, ce n’è un altro, sconosciuto da tutti. Forse non è mai esistito. Chi può dirlo? In ogni modo, meglio continuare a lavorare.
Qualche volta Kafka si è lasciato portare da un vento benigno di speranza. Ci ha parlato, allora, di fede «indistruttibile», senza la quale l’uomo non potrebbe vivere, di «un’altra vita» nella quale il dolore diventa beatitudine. Ancora, nel Diario, si possono leggere queste frasi: «L’uomo non può vivere senza una perenne fiducia in qualche cosa d’indistruttibile in sé, la qual cosa non esclude che, sia tale fiducia, sia quell’elemento indistruttibile, gli possano restare perennemente nascosti. Uno dei modi coi quali può esprimersi questo nascondimento è la fede in un Dio personale». «Che cosa c’è di più gioioso della fede in un Dio domestico?». «Non esiste che il mondo spirituale».
Queste frasi non sono definitive, è vero; sono bricioli di fede, di pause di speranza, rari baleni di luce che solcano il grigiore del cielo kafkiano, tuttavia sufficienti a mostrarci l’apertura e la nostalgia dello scrittore per i valori religiosi. Un messaggio di salvezza forse c’è, ma non può giungere a noi. «L’imperatore – così racconta la leggenda Il messaggio dell’Imperatore – ha inviato a te, minima ombra sperduta nella più lontana delle lontananze del suolo imperiale, proprio a te l’Imperatore ha inviato un messaggio dal suo letto di morte. Ha fatto inginocchiare il messaggero al letto, sussurrandogli il messaggio all’orecchio. Il messaggero s’è messo subito in moto, ma una folla senza fine impedisce il suo cammino. Egli forza le porte chiuse, supera le scale e mura di cinta, riesce ad aprirsi un valico nella sala dei palazzi… Se avesse via libera, all’aperto, come volerebbe! e presto ascolteresti i magnifici colpi della sua mano alla tua porta. Invece c’è tutta la città imperiale davanti a lui, il centro del mondo, ripieno di tutti i suoi rifiuti. Nessuno riesce a passare di lì e tanto meno con un messaggio d’un morto. Ma tu stai seduto alla finestra, e sogni quel messaggio quando viene la sera».
Il messaggio di Dio, e tanto meno la sua voce, mai arriveranno a noi; neanche la nostra voce può giungere a lui, dissolvendosi essa al vento, lungo le strade interminabili. Kafka è un uomo cui l’ebraismo ha impedito di vedere Gesù Cristo, Parola vivente del Padre, e il razionalismo di conoscere il vero Dio di Abramo, presenza operante nella storia. Se avesse incontrato Gesù Cristo, tutti i suoi problemi e le sue ansie e vertigini avrebbero avuto una soluzione regale. Non solo avrebbe conosciuto il messaggio di Dio, ma si sarebbe aggrappato anche alla Sua Persona e avrebbe attraversato in tal modo il «centro del mondo» senza rabbrividire, ché avrebbe visto in Cristo, oltre che lo stesso Sorriso di Dio, un fratello che redime nella sofferenza.
Invece, si è trovato a starsene alla finestra, aspettando. Nell’inutile attesa, a volte, il suo sguardo stanco si posa sui costoni del Sinai e pensa allo splendore della vetta. Uno zampillo di commozione allora gli serra la gola e l’anima accenna ad un canto di speranza. Una pausa brevissima. Il suo sguardo subito scivola sulla «moltitudine di coloro che vagolano attorno al Sinai», sbrendoli e illusi. Anch’egli vagola attorno alla montagna sacra. Molto spesso ha l’impressione che essa si sradichi dalla terra e che gli cada addosso, schiacciandolo. Allora la sua esistenza è solo brivido di morte e disperazione pura.
Copyright © La Civiltà Cattolica 1962
Riproduzione riservata
***
Nota. – A scanso, possibilmente, di malintesi, sarà utile rilevare fin da principio quanto ripeteremo anche più avanti, che nelle opere del Kafka s’incontrano spesso episodi, espressioni, momenti carichi di una sconcertante ambiguità e bivalenza di significato. Capita ciò anche riguardo agli elementi fondamentali della trascendenza: Dio, redenzione, grazia, eternità, rivelazione ecc. Cosicché, a seconda della sensibilità e della diversa disposizione con cui si prendono in esame quei momenti, il lettore può vedervi un’apertura verso Dio, un «sì», sia pure inespresso, o il persistere di un’incertezza insuperabile e greve che gli impedisce di sfondare la parete e valicare il passo.
[1] Nato a Praga nel 1883 da famiglia ebrea, morì tisico in un sanatorio presso Vienna, nel 1924. Conseguita la laurea in legge all’Università tedesca di Praga, s’impiegò presso una compagnia di assicurazioni per guadagnarsi la vita. Qualche breve viaggio all’estero (Italia e Francia), due fidanzamenti falliti, la pubblicazione di quattro volumetti di novelle faticosamente strappati dagli amici alla sua smania distruttrice e alla sua incontentabilità, un breve tranquillo soggiorno a Berlino, la morte a quarantun anni. Nella sua vita non c’è altro. Lui morto, Max Brod, amico fedelissimo, raccolse pietosamente il copioso materiale rimasto: diari, frammenti, notizie, novelle, abbozzi, facendo di tutto per presentare fedelmente i vari testi. Purtroppo la bibliografia kafkiana è ancora in fieri e, a volte, pericolosamente fluida, per cui scrivere su Kafka è impresa non del tutto facile. Bibliografia essenziale: Il messaggio dell’imperatore (Torino 1946); I Racconti (Milano 1953; ivi 1959); Racconti (Milano 1957); Il processo (Torino 1933, ivi 1945); Il castello (Milano 1948; ivi 1955); Diari, due volumi (Milano 1953; ivi 1959); Preparativi di nozze in campagna (Milano 1960); Descrizione d’una battaglia (Milano 1960); Lettere a Milena (Milano 1954); Confessioni e immagini (Milano 1960).
[2] Citato da Ch. Moeller in Littérature du XXe siècle et christianisme, III: Espoirs des hommens, pp. 205 e 300.
[3] L. Mittner, La letteratura tedesca del Novecento (Torino 1960), p. 253.
[4] Riportato da Moeller, op. cit., in nota, p. 243.
[5] Op. cit., p. 254.
[6] Moeller, op. cit., p. 279
[7] Schuld un Schuldgenfühl Heidenberg, Lambert Schneider, 1958.